L’attacco alla pugile algerina Imane Khelif è stato il punto più basso dell’utilizzo delle Olimpiadi da parte dell’estrema destra per la propria «guerra culturale». Ma alcune e alcuni giovani atleti mostrano con le proprie parole che esiste un’alternativa
di Giacomo Gabbuti e Lorenzo Zamponi da Jacobin Italia
Le Olimpiadi, grande evento sportivo per eccellenza, riflettono sempre il mondo che hanno intorno, con i suoi conflitti e paradossi. Parigi 2024 non fa eccezione, e nel mondo ultrapolarizzato di oggi i Giochi sono diventati l’occasione per frequenti offensive della destra nella sua guerra culturale, sfruttando l’opportunità del contesto post-elettorale francese. Un’offensiva globale, sull’asse Trump-Putin, a cui il governo italiano ha partecipato con entusiasmo, speculando pesantemente sul match di pugilato tra l’italiana Angela Carini e l’algerina Imane Khelif. A ciò si è aggiunto un racconto mediatico all’insegna di vittimismo, sensazionalismo e superficialità: dal pianto greco sugli arbitraggi alle lamentele sul villaggio olimpico, fino a interventi giornalistici spietati nei confronti degli stessi atleti italiani.
In questo clima di rancore e risentimento, a offrire spiragli di luce sono state, sorprendentemente, le parole di alcuni atleti italiani. Parole nient’affatto banali che raccontano un’altra Italia, almeno dal punto di vista generazionale, rispetto a quella rancorosa e risentita del Boomer Unico Giornalistico. Un’Italia in cui competizione, carattere, sconfitta sono oggetto di riflessione e non solamente di clickbait.
Il vittimismo dei camerati va alle Olimpiadi
Nello sport la nostra società trova uno specchio deformante e spettacolare. Le Olimpiadi, in questo senso, non fanno eccezione.
Il caso più eclatante è stato ovviamente lo spettacolo deprimente offerto sul caso della pugile algerina Imane Khelif, purtroppo non solo dai quotidiani e dalla politica nostrani. L’offensiva è stata globale, e del resto la vicenda si inserisce in uno scontro tra la federazione pugilistica internazionale in mano russa e il Cio, com’è stato ben ricostruito altrove.
Il messaggio «l’algerina è un uomo che picchierà una donna» è partito sull’asse tra la destra americana e quella russa, sbarcato nella fasciosfera spagnola e rilanciato ben volentieri dal ministro delle infrastrutture Matteo Salvini e dal presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa. Il più classico dei panici morali con cui le destre tentano di mobilitare l’opinione pubblica sul fronte di una guerra culturale inventata da loro, facendo scomparire in questo modo ogni tema di classe. Una narrazione che purtroppo non si è fatta strada solo a destra, viste le dichiarazioni di Luana Zanella, capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra alla Camera, riportate dal Corriere della Sera.
Sulla «fotografia bellissima di questo paese» offerta da questa polemica, e da quella fortunatamente più circoscritta sulla cerimonia d’apertura, ha già detto tutto Zerocalcare. Non risulta che Imane Khelif si sia definita in modo diverso da «donna» e sul tema va segnalato il «profondo sgomento» dell’aps IntersexEsiste, che in una dichiarazione denuncia come «una condizione come la nostra balzi all’onore delle cronache solo in caso di strumentalizzazioni politiche, quando essa sembra essere un presunto e non dimostrato ‘vantaggio’ rispetto al resto della popolazione, mentre – quando si parla dei nostri diritti negati – viene totalmente ridotta al silenzio».
Ma se il caso Khelif-Carini è stato oggetto di attenzione in tutto il mondo (seppure non quanto da noi), il racconto mediatico-governativo di queste Olimpiadi ha davvero una sua specificità. Fin dall’inizio i Giochi di Parigi sono stati raccontati come «le Olimpiadi di Macron» e quindi, nella polarizzazione post-elezioni francesi, prese di mira da una quantità di polemiche senza fine. Il punto non è che sia «di sinistra» difendere la discutibile scelta di far nuotare gli atleti nella Senna o l’organizzazione logistica dei Giochi. Il punto è che da dieci giorni assistiamo a un martellamento propagandistico, in Italia, caratterizzato da rancore, risentimento e vittimismo. Finita la cerimonia d’apertura si è passati alle polemiche arbitrali, disegnando un complotto globale contro l’Italia meloniana. Esaurito l’affaire Khelif-Carini, ci si è concentrati sul menù del villaggio olimpico o sull’aria condizionata, o sulla comodità dei letti. Una caciara davvero imbarazzante, che fa venire in mente la citazione di Ennio Flaiano sul fascismo che «conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli ‘altri’ le cause della sua impotenza o sconfitta».
Noi non crediamo che il fascismo sia nella natura degli italiani. Ma è difficile negare la sua capacità di insistere sugli elementi vittimisti, revanscisti, deresponsabilizzanti del nostro nazionalismo. C’è modo e modo di parlare di Olimpiadi, insomma, e raccontarle come «l’oscuro complotto contro l’Italia» non fa bene, prima di tutto, alla capacità dell’opinione pubblica italiana di riflettere lucidamente su vittorie e sconfitte.
Gli atleti prendono parola
Lo stato del dibattito pubblico in questo paese è quello che è, sarebbe da illusi aspettarsi che le Olimpiadi avrebbero cambiato la situazione. Ciò a cui siamo meno abituati, invece, è la presa di parola diretta da parte delle atlete e atleti – giovani e spesso giovanissimi – resa ancor più possibile dai social media, che in questi giorni rendono facilmente virale qualsiasi loro dichiarazione. Il racconto, retorico e sempre più vicino al discorso da bar, dei nostri commentatori «autorevoli», è stato interrotto in almeno tre occasioni da prese di parola tutt’altro che banali da parte delle stesse sportive e sportivi italiani. Ragazze e ragazzi che hanno espresso un senso comune quantomeno dissonante rispetto all’esaltazione del merito e della competizione a ogni costo cui le giovani generazioni, italiane e non solo, sono state allevate negli ultimi decenni. Il punto non è cercare di politicizzare per forza le loro parole, o attribuirgli una patente di sinistra: il fatto che almeno uno di loro appartenga a un gruppo legato alla Polizia di Stato rende anzi più interessanti le loro parole .
Filippo Macchi: «non esiste il merito»
Cominciamo da uno dei primi eroi social delle Olimpiadi italiane, quel Filippo Macchi «derubato» di un oro nel fioretto individuale maschile. Come lecito al termine di un’intensissima finale, con un verdetto contestato, il pisano non ha nascosto la sua delusione, lasciando però al suo allenatore il compito di sfogare la tensione agonistica sugli arbitri. A coprirsi di ridicolo sarebbe stato, a freddo, direttamente il Presidente del Coni, Giovanni Malagò, inviando una protesta ufficiale perché entrambi gli arbitri sono «asiatici come il finalista», e avrebbero inevitabilmente favorito un concorrente di un «paese vicino»: quando ci ritroveremo un francese e un tedesco, come nelle barzellette, come arbitri, sapremo con chi prendercela. Ma torniamo a Macchi. Oltre alla dichiarazione pubblicata su Instagram – «Eppure, a me viene da dire che sono proprio un ragazzo fortunato» – ce n’è una raccolta da la Gazzetta dello Sport in zona mista:
Nello sport di vertice non esiste il merito. Quelli che sono qui sono tutti fortissimi e meritano tutti. L’ho letto in un libro di Mauro Berruto [allenatore di pallavolo, ex c.t. dell’Italia volley maschile, oggi parlamentare del Partito democratico, Ndr].
Non nega l’esistenza del merito, cosa del resto paradossale nella competizione sportiva. Ma sostiene che non abbia senso dire che meritava lui, piuttosto che il vincitore: oltre un certo livello, tutti gli olimpionici «meritano». Il che non vuol dire che siano gli unici a meritare: sappiamo bene che ci sono tante circostanze, e tante casualità, che possono portare qualcuno a perseguire il proprio talento; che il paese in cui si nasce (pensiamo all’emozione per la delegazione palestinese, ma più banalmente si potrebbe avere talento in uno sport non praticato dove si è nati), e le condizioni economiche che si hanno, hanno tanta influenza su queste circostanze; che anche in sport, come forse la scherma, in cui non ci sono «privilegi» fisici minimi sotto i quali il talento non può esprimersi esiste sempre la sfortuna legata agli infortuni (o persino i calcoli renali, come capitato a «Gimbo» Tamberi), e così via. Ciò che va oltre lo sport è il concetto che, sopra una certa soglia, non sia questione di merito ma di circostanze – dallo stato di forma in cui si arriva alla gara, al contesto ambientale e personale, passando ovviamente dagli avversari che si incontra. Pensiamo alla crescente competizione con cui dobbiamo confrontarci nel mondo del lavoro, e prima ancora dell’istruzione: non serve negare le qualità di chi ha la fortuna di vincere per dubitare che sia giusto, in nome di un’idea piuttosto balzana di «merito», che chi arriva seconda o terzo non abbia nulla.
Daniele Garozzo: «il carattere e l’integrità»
Non gareggia più, ha trentadue anni e un palmares di tutto rispetto – incluso l’oro individuale ai giochi di Rio – l’ex schermidore Daniele Garozzo, attualmente medico, che dai suoi social ha preso le difese degli ex compagni di nazionale dopo un articolo decisamente sopra le righe di Aldo Cazzullo. Il 2 agosto, l’inviato ed editorialista del Corriere della Sera raccontava infatti la rincorsa all’oro nel fioretto maschile (fermatosi in finale contro il favorito Giappone) denunciando il fatto, apparentemente deprecabile, che Macchi e colleghi fossero «fortissimi ma bravi ragazzi». Dopo aver riflettuto sul «carattere nazionale» italiano («fierezza, spirito guascone, estro, fantasia, disponibilità al sacrificio, in particolare nei momenti drammatici, quando o si vince o si muore») che darebbe all’Italia un vantaggio competitivo nella scherma, Cazzullo lamenta come, rispetto al passato, «quelli che abbiamo adesso sono un po’ troppo bravi ragazzi: per questo vincono meno di una volta. Sono accompagnati da mamma e papà» – cosa che, avrà sicuramente controllato Cazzullo, non avviene per i nostri avversari, e sicuramente non avveniva in passato. Inizia poi l’elenco delle «virtù» dei nostri grandi campioni andati: da quello di cui si diceva «che combattesse duelli al primo sangue in una palestra buia; da cui cicatrici sospette (la scherma è uccisione metaforica del rivale, e meno metafora è, più si vince)», allo stesso allenatore di Macchi, che dopo essersi preso da giocatore diversi «cartellini neri (eliminazione per gravi insulti all’arbitro e all’avversario)», da tecnico era finito «nei guai per un video in cui sottoponeva una matricola a un fastidioso rito iniziatico». Climax che non poteva concludersi se non con «il Depardieu italiano, pure lui grande, grosso e con un’accusa di molestie». Nulla a che vedere con i mollaccioni di oggi, che sono persino «tutti laureati, e la scherma si sta spostando a sinistra, come i Parioli»: e forse, parrebbe insinuare Cazzullo, non sono nemmeno abbastanza virili, visto che il più titolato dei nostri è «raffinatissimo, lunghi capelli spartiti in trecce, orecchini, grande passione per la moda (è cresciuto nello show-room dei genitori)».
Se ignorare tale delirio poteva essere comprensibile, la risposta di Garozzo è davvero ineccepibile, e merita di essere condivisa:
Caro Aldo Cazzullo, Sono Daniele Garozzo, campione olimpico, mondiale ed europeo di scherma, nonché medico. Mi piace pensare di essere un bravo ragazzo, come molti altri nella nostra disciplina. Trovo piuttosto curioso, per non dire assurdo, il messaggio sottinteso nel suo articolo: che essere «cattivi» sia una qualità essenziale per vincere. Questa idea è non solo falsa, ma anche diseducativa. Affermare che «essere cattivi» porti alla vittoria sminuisce i successi di tanti atleti che, come me, hanno raggiunto i più alti traguardi grazie a impegno, sacrificio e una sana competitività. La narrativa romantica del guerriero spietato potrebbe essere affascinante nei racconti epici, ma nella realtà dello sport moderno è fuori luogo e anacronistica. Essere bravi ragazzi non significa essere deboli o meno competitivi. Significa avere la maturità di comprendere che il vero valore dello sport sta nel rispetto delle regole, degli avversari e di se stessi. È attraverso questo rispetto che si costruisce una carriera duratura e un esempio positivo per le generazioni future. Inoltre, la trasformazione culturale e sociale che hai descritto non è una debolezza, ma una forza. Atleti istruiti, rispettosi e consapevoli sono ambasciatori migliori per il nostro sport e per i valori che esso rappresenta. La scherma non è solo una questione di medaglie, ma di carattere e integrità. Invito tutti a riflettere su ciò che veramente rende grande uno schermidore. Non è la cattiveria, ma la passione, l’impegno e la capacità di ispirare gli altri con il proprio esempio positivo. Con rispetto, Daniele Garozzo.
Insomma: mentre l’editorialista del Corriere vorrebbe schermidori brutti, sporchi e cattivi, se possibile analfabeti e magari virilmente violenti, il campione olimpico lo rimette a posto, con rispetto e implacabile precisione. Non servono ulteriori commenti, ma non è forse inutile notare che solo l’11 luglio Macchi, citato da Cazzullo per il suo «post tra de Courbertin e Jovanotti», ringraziava Garozzo per una visita in palestra a Navacchio, definendolo «il mio idolo».
Benedetta Pilato: «ognuno ha i suoi tempi»
Sempre il 3 agosto, la Gazzetta ritornava sulla polemica che aveva coinvolto Benedetta Pilato – la nuotatrice diciannovenne che, dopo aver manifestato la sua gioia per stare tra le prime del mondo, nonostante la medaglia sfumata per un centesimo, aveva raccolto prima l’incredulità a caldo della cronista che l’intervistava e poi, a freddo, il giudizio non richiesto della ex schermitrice Elisa Di Francisca: «Sinceramente non ci ho capito niente, non so se ci fa o ci è. Non è possibile che dica: sono contenta. È assurdo, è surreale questa intervista, devo essere sincera. Non voleva andare sul podio? E che ci è andata a fare?». Per Cazzullo, Di Francisca era l’«ultima cattiva ragazza» della nostra scherma (la cooptazione politica dello sport più vincente d’Italia ha radici lontane, del resto): sebbene ci sia meno differenza di età tra lei e Garozzo che tra quest’ultimo e Pilato, le dichiarazioni che la nuotatrice rilascia una volta smaltita l’adrenalina del dopogara sembrano riflettere proprio «la trasformazione culturale e sociale» rivendicata dal catanese. Come riportato dalla Gazzetta, Pilato interpreta la sua vicenda in chiave generazionale:
Per tutto quello che è successo, penso che servisse una svegliata. Soprattutto a noi giovani. Quanto accaduto a me, sgradevole, succede anche in tanti altri ambiti. Non solo nello sport, ma anche nel lavoro, a scuola, all’università. Ho sentito tanti giovani che si sono sentiti colpiti personalmente da quello che ho detto e spero di aver smosso un po’ soprattutto la mia generazione. Gli amici mi hanno scritto: «Ti rendi conto che si sono mossi tutti per te?».
Messaggio rafforzato nel momento in cui il giornalista chiede se stia «mandando un messaggio generazionale» (meglio essere esplicite, in un paese in cui fece «notizia» il fatto che nei suoi libri Elena Ferrante avesse «raccontato le disuguaglianze»):
Sì, perché dicono che noi giovani siamo svogliati. Che se non finisci la triennale in tre anni… Che sbagliamo. Che se finisci l’università in 10 anni fai c… Non è così: ognuno ha i suoi tempi. Ognuno gioisce per quello che vuole. Quello che mi sento di dire è che neanche mia madre mi dice cosa fare e cosa dire. E sicuramente non me lo può dire qualcun altro. Sono felice di quello che ho fatto. E l’unica cosa che mi sento di dire è che tutti abbiamo un percorso e io non mi permetterei di parlare di qualcuno di cui non conosco il percorso. Mi dispiace soprattutto per quello.
Dispiace anche a noi, ma in fondo siamo contenti che questa sfortuna le abbia dato la possibilità di dire queste cose. Mostrandoci due Italie: quella del rancore, del risentimento e del vittimismo, rappresentata dal governo e da buona parte dei media; e quella di atleti che, pur in una competizione durissima e in una situazione eccezionale, mostrano di avere i piedi ben piantati nella realtà e di saper interpretare dubbi e volontà di crescita di una generazione che alla promessa della competizione tutti contro tutti, semplicemente, non crede più.
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