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La voce di Minniti e la politica della paura

Nell’ultima puntata del programma Rai “Ossi di seppia” dedicata alla strage razzista di Macerata a opera di Luca Traini compare la voce narrante dell’ex-ministro Minniti.

di Mario Di Vito

La voce di Marco Minniti è nota alla periferia dell’impero. Macerata se la ricorda bene, ad esempio. Era l’inizio di febbraio del 2018, un sabato mattina, un ragazzo chiamato Luca Traini prese la sua Alfa Romeo nera e cominciò a girare intorno alle mura della città. Pistola in pugno, sparava su tutto quello che si muoveva e aveva la pelle nera. Ferì sei persone. O almeno sei furono quelli che andarono all’ospedale con il suo piombo addosso.

Fermato dalla polizia mentre, avvolto in un tricolore, faceva il saluto romano davanti al monumento ai caduti, si giustificò dicendo che l’aveva fatto per vendicare Pamela Mastropietro, una ragazza uccisa e fatta a pezzi pochi giorni prima. I sospetti per il delitto sono tutti nigeriani, anche se poi solo uno di loro sarà effettivamente condannato.

Quella di Luca Traini – per la cronaca, per la storia, per il tribunale di Macerata, per la Corte d’Appello di Ancona e per la Corte di Cassazione – fu una strage.

Su Raiplay c’è una trasmissione che si chiama «Ossi di seppia» e che si propone di allacciare i fili della memoria della storia recente: mini-documentari di venti minuti su argomenti vari, dall’assassinio di Maria Grazia Cutuli all’ingresso dell’Italia nell’Euro, dalla morte di Valeria Solesin a Parigi all’incendio letale alla Thyssen-Krupp di Torino. Fino all’ultimo episodio: Luca Traini, il lupo vendicatore.

Di questa storia si può dire – e in effetti si è detto – di tutto. «Ossi di seppia» cerca di raccontare questa storia a partire da un concetto astratto: la paura.

La voce narrante dei fatti è quella di Marco Minniti, allora ministro dell’Interno. Per Minniti il concetto di paura è centrale nell’azione politica. Ci ha anche scritto un libro: Sicurezza è libertà. Terrorismo e immigrazione: contro la fabbrica della paura (Rizzoli, 2018). E allora, tra un campo lungo in cui lo si vede camminare lungo spaziosi corridoi e un primo piano del suo sguardo attento mentre scruta fuori da un finestrone, l’ex ministro degli Interni racconta i fatti di Macerata proprio così: l’eroe contro la paura. Dove l’eroe è ovviamente lui e la paura non è quella per un tizio che si aggira per le strade sparando con una pistola, ma il frutto avvelenato di una non meglio precisata invasione degli uomini neri a turbare l’immutabile tranquillità della provincia.

Minniti, in fondo, la pensa come Traini: se un nigeriano non avesse mai ucciso Pamela Mastropietro, non ci sarebbe mai stata la strage di Macerata.

«Parliamo di una giovane donna italiana. Uccisa. Fatta a pezzi. Drammaticamente violata. Nel corpo, nello spirito e nella memoria», dice l’ex ministro a Ossi di seppia. Che vuol dire? Chi ha violato la memoria di Pamela? Non suo zio che pubblicò su Facebook la foto della sua testa tagliata per descrivere «gli effetti dell’immigrazione incontrollata». Non la Lega che su questa storia ci ha marciato fino a fare il pieno di voti (peraltro a discapito del partito di Minniti, il quale, personalmente, alle politiche del 2018 perse male il «collegio sicuro» di Pesaro, pochi chilometri più a nord). Non chi ha usato la storia della ragazza come clava per affermare le proprie opinioni. Non la narrazione francamente un po’ fuori dal mondo che descriveva Macerata come il set di uno spin off di Narcos, dove dietro ogni angolo c’è uno spacciatore pronto a vendere eroina a prezzi di saldo. No, la paura discende da chi dice che sul fronte dell’accoglienza dei migranti questo paese fa pena, anzi ha un ché di criminale.

Per Minniti, il problema dell’immigrazione va eliminato alla radice, bisogna impedirgli (al problema) di arrivare in Italia. Il risultato di tutta questa elucubrazione fu l’apertura della stagione più mostruosa della via italiana alla gestione della questione migratoria. D’altra parte, la verità è un fatto cronologico: sarebbe ingiusto prendersela solo con Salvini e con i suoi decreti, ad aprire la strada alla politica dei porti chiusi fu Minniti con i famigerati «accordi con la Libia».

La settimana che va dall’attentato di Luca Traini alla manifestazione antirazzista alla quale parteciparono trentamila persone, la voce di Minniti si fece sentire fortissima a Macerata. Un urlo continuo.

Dopo aver lasciato che quelli di Forza Nuova si prendessero a botte con la polizia sotto la questura di piazza della Libertà. Dopo aver permesso che Casapound facesse le sue belle passerelle per proporsi come unica forza di difesa dell’italianità violata. Dopo aver fatto finta di non vedere i proclami razzisti di una destra che aveva cominciato a fiutare il colpaccio elettorale. Dopo tutto questo, la guerra di Marco si concentrò tutta contro la manifestazione antirazzista convocata per il 10 febbraio.

«Non la autorizzerò», disse ai giornali. Poi, dal profilo Facebook del Partito Democratico, aggiunse: «Ci penserà il ministero dell’Interno a impedire che si faccia la manifestazione». Dalle parti del Pd, i più moderati cercarono di correggere il tiro, chiedendo che venissero vietate tutte le manifestazioni, «sia quelle fasciste sia quelle antifasciste», in una straordinaria epifania della metafora della toppa che è peggio del buco. E pensare che, di tutti i colpi sparati da Traini, uno era indirizzato proprio contro la sede locale del partito. Un dirigente politico di livello appena più che pessimo avrebbe chiamato la piazza immediatamente e si sarebbe messo alla testa del corteo. E invece a Macerata gli unici a trovare la forza di reagire furono quelli del centro sociale Sisma, che avevano proposto uno slogan semplice e piuttosto chiaro per rispondere all’attentato di Traini: «Contro ogni fascismo. Contro ogni razzismo».

La mossa del Pd contro le manifestazioni tutte, ovviamente, scosse il variopinto arcipelago delle realtà di base della sinistra italiana. Dopo un iniziale interessamento, Anpi, Libera, Cgil e Arci ritirarono il loro appoggio alla manifestazione.

Fu il caos: il Sisma continuava a ripetere che il corteo ci sarebbe stato, i pontieri dei partiti e delle associazioni cercavano (vanamente, assurdamente) di mediare, in questura si cominciava a temere il peggio. Il capo, Vincenzo Vuono, sapeva benissimo che, per quanto riguarda l’ordine pubblico, la differenza tra una manifestazione autorizzata e una non autorizzata è la stessa che c’è tra una maratona e la lunga marcia di Stephen King, quella dove chi si ferma viene abbattuto. I giornali, dal canto loro, parlavano di fantomatici «treni di black bloc» in arrivo dalla Germania. Cosa abbastanza curiosa per una città pressoché priva di stazione ferroviaria.

Due giorni prima del corteo, a sbloccare la situazione ci pensò la Fiom, che diramò un comunicato in cui faceva sapere che i metalmeccanici in piazza ci sarebbero scesi in ogni caso. Il castello di carte che Minniti aveva messo in piedi venne giù: liberati in qualche modo dall’onere della prima mossa, i gruppi e le associazioni mollarono la linea del Pd e annunciarono che sarebbero andati a manifestare pure loro. Clamoroso a Macerata: il Partito Democratico è isolato. Un mese più tardi, alle politiche, la coalizione di centrosinistra realizzerà il suo peggior risultato di sempre, nelle Marche e non solo.

Quando il corteo aveva cominciato a prendere forma e la piattaforma politica sembrava ormai definita, però, in questura si stava ancora discutendo sul da farsi. Sul piatto c’era l’impegno pubblico di un ministro: Minniti era stato chiaro, aveva dato la sua parola che quella stramaledetta manifestazione non si sarebbe mai fatta.

Fu il questore Vuono a tenere il punto. Chi partecipò all’ultima riunione, quella in cui si decise di «non vietare» il corteo antirazzista, pare che Vuono abbia detto testualmente al ministro: «Lei non può chiedermi di vietare una manifestazione antifascista».

La verità è che Minniti non lo stava chiedendo. Lo stava esigendo. Infatti, tre giorni dopo il successo della manifestazione maceratese, Vuono venne rimosso dal suo incarico e al suo posto fu piazzato il calabrese Antonio Pignataro, che in seguito diventerà famoso per una lotta senza quartiere ai negozi di cannabis legale.

Questa è la storia della voce di Marco Minniti. Quella che in tutti i modi ha cercato di impedire una manifestazione antirazzista, e che adesso, quattro anni dopo, viene a spiegarci che cos’è la paura.

Non è il male e non è nemmeno la cura. È la linea politica.

da DINAMOpress

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