La realtà è che in questo sistema comandano i soldi, non le passioni o le necessità del popolo. E ciò è vero anche per il calcio, visto che il ricchissimo “modello Premier” ha avuto come effetto principale l’espulsione delle fasce popolari dalla vita delle società sportive.
da Contropiano
“L’emendamento Mulè è accantonato, ora si sta ragionando su una riformulazione”. Queste le parole riferite martedì 9 all’agenzia Dire dal ministro dello Sport Andrea Abodi (Fratelli d’Italia).
Il riferimento è al comma 4 dell’articolo 16-ter del testo di legge che ha mandato in fibrillazione il mondo del calcio italiano, e non solo.
Il passaggio incriminato dell’emendamento affermava che il “ricorso diretto innanzi agli organi della giustizia amministrativa in sede di giurisdizione esclusiva”.
Stiamo parlando della possibilità per le società di calcio di ricorrere al giudice amministrativo (il Tar) per questioni oggi sotto la giurisdizione della giustizia sportiva.
Detta altrimenti, di una maggiore autonomizzazione da parte della lega Serie A dagli organi federali sportivi, ossia la Figc, sul modello della Premier League nata nel 1992.
“Se il testo resta così, dovremo escludere le squadre italiane dalle coppe europee”, aveva minacciato il numero uno della Federcalcio europea, ossia l’Uefa, lo sloveno Aleksander Ceferin.
Il diktat europeo e l’obbedienza del governo Meloni si inseriscono in un contesto come detto di subbuglio per il calcio italiano ed europeo.
L’esecutivo infatti è impegnato in un tentativo di sottrazione degli organi di controllo del mondo del calcio all’autonomia delle federazioni preposte al governo dello sport.
Un altro tassello di questo puzzle è la creazione di un’Autorità, che risponda al governo, per la sorveglianza sui conti delle società professionistiche (calcio e basket) che rimpiazzi il lavoro oggi svolto dalla Covisoc, ossia la stessa Autorità sotto l’ala della Figc.
È bene ricordare come il calcio abbia svolto nel nostro paese un ruolo importante nella creazione di un clima di consenso e legittimità nelle alte sfere della politica, come discusso in una recente iniziativa al Circolo GAP a Roma.
Si pensi solo alle famiglie Agnelli, Berlusconi, Moratti, o in forma minore oggi Cairo o Lotito, tutti rappresentanti a vario titolo del padronato italiano che tramite l’aziendalizzazione del calcio hanno aumentato la loro visibilità e presenza nella scena pubblica italiana.
Ma nell’integrazione europea avviata da Maastricht in poi le decisioni dirimenti per la società, l’economia e la politica italiana sono state esternalizzate nei centri di comando europei o internazionali, da Bruxelles a Washington.
Non tanto diversa è la situazione per il calcio, anche se la stessa governance soffre in questi mesi dell’accusa di monopolio in cui la Uefa (e la Fifa) ha operato nel “mercato del football” con la Super Lega, con tanto di sentenza della Corte di giustizia europea.
Il governo Meloni, ossequioso nel togliere il panem a chi abita in questo apese, sembra molto interessato al controllo del circenses in funzione di arma di distrazione di massa, in barba alla lezione impartita alla storia dai Romani.
La realtà è che in questo sistema comandano i soldi, non le passioni o le necessità del popolo. E ciò è vero anche per il calcio, visto che il ricchissimo “modello Premier” ha avuto come effetto principale l’espulsione delle fasce popolari dalla vita delle società sportive.
“Al giorno d’oggi il calcio non è più alla portata di tutti i ceti sociali”, ha detto il neopresidente dell’Inter Giuseppe Marotta in un incontro alla Regione Lombardia lunedì 9 luglio.
Più chiaro di così…
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