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“E per la Rivoluzione che verrà, hip-hip urrà!”

Probabilmente l’evidenza più triste è che i sempre pronti ad aspettarsi una rivoluzione alle porte, ne ha davvero davvero bisogno. E prima che su questa affermazione si abbatta lo stereotipo del “radical chick” monopolizzando l’approccio alla lettura e la deriva delle interpretazioni, vi rassicuro sul non esser questa mia, una sentenza laconica e sprezzante, né mio uno sguardo ignaro dei paradossi e delle sofferenze, o un intento derubricante. Al contrario.

La Rivoluzione è stata definita da importanti storici e altri studiosi, a tutti gli effetti uno dei “miti” contemporanei. Nel nostro universo di coordinate concettuali, stando alla lettura del passato (più o meno attenta, corposa, più o meno incline -e solo in rari casi niente affatto incline- alla tentazione o al “vantaggio” di conoscere gli eventi dalla prospettiva privilegiata del senno di poi), si è generato da circa un paio di secoli il “mito” del rivoluzionare, caratterizzato per lo più e nei più, dall’idea che le rivoluzioni siano davvero come loro malgrado sono costrette ad apparire su molti manuali scolastici di storia. Evidentemente non si comprende che la maniera dell’esposizione didascalica o quasi “indicistica”, è solo l’equivalente di uno schizzo appena abbozzato, una linea del tempo sintetizzata per grandi blocchi centenari, e che in effetti difficilmente potrebbe essere altrimenti perché il passato è molto, e per vivere e leggere il presente con una seppur vaga o vaghissima cognizione dei trascorsi il lavoro è enorme, nonché le pagine per le parole necessarie potenzialmente inesauribili.

Dunque la Rivoluzione è sui manuali di storia ad occhio e croce una data. Un giorno esatto, un momento breve e intenso, piccolo come tra gli elementi grafici il punto; quello di svolta. Di rottura e trasformazione immediata. Un frammento magico, un vortice che devia inesorabilmente, in un istante, la direzione e il destino di quella retta che figura il fascio di esistenze che solca lo spazio-tempo.

Sulla base di questa immagine della rivoluzione, è frequentissimo imbattersi in persone che ad ogni non nulla la ritengono essere nell’aria, pronta a deflagrare da un momento all’altro spazzando via nefandezze e privilegi, soprusi e ingiustizie. Pronta ad insediare usi e costumi di una non meglio identificata -ma senz’altro iper inflazionata- età dell’oro, fatta per ciascuno del meglio che immagina, o peggio, di ciò di cui ha più bisogno.

Ognuno si sente pronto, sin da ora, ad essere un perfetto rivoluzionario quando la rivoluzione verrà! La rivoluzionarietà e la rivoluzione però, a tirar le somme di ciò che ci è dato sapere o constatare, sono concetti davvero poliformi quanto a questioni di merito, e al di là di una generalissima indicazione di “svolta positiva” comune a tutti/e proprio in quanto sostanza “mitica” dei termini in sé, lo specifico di come debba darsi e cosa debba esattamente produrre, si configura come vero arcobaleno dei possibili, e perfino dalle tinte non sempre rosee.

Tralasciando per ora l’orizzonte praticamente sconfinato dei numerosissimi “idealtipo” di rivoluzione che verrebbero fuori se ne chiedessimo una succinta descrizione a Tizio, Caio, Sempronio e Mari* Rossi, e tornando invece all’incipit del testo, questa concezione mitica o speranza mistica di un cambiamento immediato e radicale, mi sembra un po’ la versione laica di certa teologia escatologica, con il suo giorno del giudizio e il suo eden dei buoni giusti. È un po’ come se l’intuizione novecentesca della “sacralizzazione della politica”, si coronasse definitivamente, oggi, nel pervenire delle masse alla completa collocazione di se stesse entro i concetti di apocalisse, beatitudine e redenzione, dove l’apocalisse è con i suoi cavalieri la forma e il modo della rivoluzione, la beatitudine lo “status” di chi le sopravvive, e la redenzione l’ultima speranza di salvezza degli sconfitti.

Durante il Novecento, e ovviamente non solo, si sono succeduti gridi d’allarme per una “impellente fine del mondo” non so più quante volte, dalle guerre mondiali alla guerra fredda fino alle più recenti profezie Maya sul 2012, al conto alla rovescia sull’avanzata del disastro ecologico degli ultimi anni e infine, la contemporanea epidemia planetaria di Corona virus. Certo la natura dell’allarme non si è replicata in maniera identica, e anzi una variazione importante c’è stata nello scarto tra la fine del mondo tout-court (come avrebbe potuto essere nel caso di una guerra nucleare), e la fine del “mondo come lo conosciamo”. Ad oggi forse le persone che credono all’imminente estinzione dell’umanità sono meno, e forse molte di più quelle che credono o sperano che ad estinguersi saranno alcune “logiche di sistema” che ci costringono nell’infelicità, nella povertà, nella malvagità. Anche qui entrare nel merito di cosa esattamente con l’espressione “logiche di sistema” si intenda, proprio come nel caso del termine “rivoluzione”, rileverebbe la multiforme diversità con cui ciascuno si figura e nomina quel che potrei definire “ciò che è percepito come sovrastruttura”, e pensando alla scomparsa di queste “logiche di sistema”, qualcuno penserà al crollo capitalismo, qualcuno più reazionario al crollo di certo “progressismo” e al ripristino della famiglia e dei valori tradizionali, qualcuno alla “riconquista” della sovranità (qualunque cosa così dicendo intenda), qualcuno allo smantellamento del deep-state e dell’elité pedosatanista, qualcuno al trionfo dell’anarchia, alla morte degli stati, e così via per sei miliardi di persone, o poche meno!

Di fatto, in moltissimi attendono e bramano l’avvento di un “nuovo ordine mondiale”, formula ormai vecchia, ma evidentemente non per quelli che non l’hanno fino ad ora incrociata. Molti tra i moltissimi pensano che a questo avvento non siamo mai stati così vicini, e si aspettano da un momento all’altro che qualcosa di radicale e sconvolgente accada, consentendo di svegliarsi l’indomani sotto un nuovo cielo.

Stando però alle Rivoluzioni che ho studiato, una simile prospettiva è più poetica che politica, niente affatto storica, una specie di miracolistico idillio in cui annaspa e infine affoga ogni pragmatismo, ogni idea di “processo”, e perfino ogni responsabilità individuale. Un po’ come se il “potere” della Rivoluzione non fosse poi così diverso da altri poteri che si vorrebbero eradicare, quelli che dall’alto piombano addosso e si impongono.

Le rivoluzioni sono state processi lunghi e niente affatto indolori, decisamente altro rispetto alla cosiddetta “manna dal cielo”. Da quella neolitica a quella del libro, da quella scientifica a quella industriale a quella informatica, passando per quelle americana e francese e senza neanche tirare in ballo i numerosi “tentativi” novecenteschi, o quelli del nuovo millennio come ad esempio le Primavere arabe, le rivoluzioni son durate anni, molte sono ancora in corso, e di altrettante forse non dovremmo dire “ancora”, ma “già” in corso. Se pensiamo ai diritti umani e civili, alla tutela dell’ambiente e della salute, o a molti altri macrotemi che è superfluo elencare, credo si possa senza troppo disquisire affermare che la “rivoluzione” è quotidianamente in atto. Forse, tanto per fare un esempio come ce ne sarebbero altri, sui futuri manuali di storia si parlerà un giorno di una rivoluzione ecologica, e forse si sceglierà per indicarla la data in cui il primo paese al mondo si alimenterà totalmente con energie pulite e rinnovabili, ma il tempo che sarà trascorso dall’istallazione del primo pannello solare o pala eolica fino a quel giorno, sarà un arco di decenni! Un cammino di grandi e piccole lotte combattute per lo più con molti piccoli passi e rari balzi, spesso mossi da gravissime crisi, vicoli ciechi in cui il progresso si arresta e il regresso incombe, da cui non si esce se non riuscendo a concepire un nuovo modo di camminare e a generare, in forza di questo stesso concepimento, effettivamente nuove strade.

La rivoluzione credo assomigli a quei bambini che incontrati da chi non li vede da un po’ sono sempre “così cresciuti”, e allo sguardo quotidiano di chi li accudisce “così cresciuti” in fondo in fondo non sono mai. Saranno a limite “cresciuti in fretta” laddove si ripercorreresse a un punto dato la memoria di anni, ma è tutt’altro.

Non credo affatto che la rivoluzione possa arrivare un giorno all’improvviso, credo che accada piano, a passi piccoli o piccolissimi, come l’impercettibile e quotidiano cambiamento sul viso di quei bambini a diventare ragazzi.

Ho nominato le Primavere arabe, e tra tutte è giudizio -o narrazione- comune che la più riuscita sia stata quella tunisina: la Rivoluzione dei gelsomini; utile in questa sede a fornire un valido esempio rispetto a ciò che voglio dire. La si indicizza normalmente al 17 dicembre 2010, giorno in cui Mohamed Bouazizi si da fuoco a Sidi Bouzid segnando l’inizio delle proteste, o al 14 gennaio 2011, giorno in cui il dittatore Ben Alì al potere dal 1987 fugge in Arabia Saudita. Eppure, il cielo sopra la Tunisia il 18 dicembre era rosso di fuochi e rivalsa ma non era cambiato; il 15 gennaio risplendeva di commozione ed entusiasmo ma non era cambiato. Anche la terra sotto i piedi è rimasta tale. Le icone votive del presidente sono state immediatamente rimosse dai luoghi pubblici, ma la transizione democratica è stata un calvario e non è ancora finita.

Quel che voglio dire è che senz’altro la fuga di un dittatore è da considerarsi, tra i numerosi piccoli passi, esempio ottimo di cosa si intenda per “rari grandi balzi”, qualcosa che fa assaporare la breve vertigine di aver spiccato il volo, e dimenticare che comunque si dovrà nuovamente atterrare, poggiare a terra i piedi, e quella terra vibrerà pure di fermento e rinnovata speranza, ma non sarà cambiata. Non sarà lo spazio-tempo mitico dell’età dell’oro, ma un luogo reale, quello di ieri. E invece molti sembrano avere una visione di questi rari “grandi balzi” mutuata da temi e scenografie da videogioco, da quel Super Mario che camminando in linea retta sullo schermo, talvolta con un buon salto, entrava in nuovi mondi.

Il punto è forse che non esistono “nuovi mondi” pronti all’uso come i prodotti pre-lavorati nei supermercati o nei magazzini di chi raccoglie in donazione beni primari da distribuire ai bisognosi.

Mi vengono in mente tanto per fare un altro esempio le campagne attualissime sulla parità di genere; non sono forse altri piccoli passi di una rivoluzione in atto da cent’anni? Un processo il cui sviluppo è tracciabile unendo come nei giochi di enigmistica quei punti di snodo, “rari grandi balzi” dilazionati nel tempo e nello spazio come il diritto di voto, il divorzio, l’aborto, le quote rosa (checché io ne pensi), la declinazione al femminile di termini esclusivamente maschili fino a pochi anni fa. E piccoli passi sono ancora in cammino verso quei punti non ancora ben messi a segno come la parità salariale, il rifiuto della predestinazione alle mansioni domestiche, la de-normalizzazione delle violenze.

Insomma prima di divagare, quel che voglio dire è che considerando davvero ideologica e semplicistica l’aspettativa di una rivoluzione intesa come evento improvviso, singolo e breve, che riedefinisca in maniera trasversale e subitanea il futuro prossimo, come miracolo o come Armageddon (dove il bene, al di là di cosa per ciascuno esattamente sia, vince sempre), mi interrogo su quali possano essere le motivazioni responsabili dell’adesione, per alcuni fideistica e intensa, ad una prospettiva che senza intenti malevoli definirei con franchezza ingenua e favolistica, se non disperata!

Mi rispondo appunto quel che scrivevo all’inizio: qualcuno della “rivoluzione” ha davvero bisogno. Una rivoluzione che però, più che essere una nuova idea di “sistema mondo” e un “progetto” sul come darle forma, sostanza e attuazione, è una sorta di “personale vagheggiamento di felicità”. Un bisogno insoddisfatto di “buon esito individuale”, contro cui agiscono gli ostacoli “sociali”, quelli posti dalle “sovrastrutture” di cui sopra, poteri forti di élite mondiali che si replicano rimpicciolendo dal macro al microcosmo, con il volto di politici, imprenditori, lobby, meccanismi e ingerenze statali, regionali, municipali, condominiali, familiari. La matrioska dei “responabili” dell’insuccesso personale si arresta solo appena prima di quell’unità minima che è il sé stesso.

La Rivoluzione assume così nel subconscio collettivo le caratteristiche di quella manna dal cielo che invece non è e non può essere, sovrapponendosi e assomigliando pericolosamente ad un fortuito terno al lotto. Qualcosa che non abbiamo concorso a realizzare, ma che eserciterà quel cambiamento positivo che desideriamo tanto. Qualcosa che in realtà ha a che fare col migliore sviluppo del “sistema” sociale davvero poco o nulla, e molto più con una certa egoistica proiezione edulcorata del sé. In moltissimi vorrebbero una vita migliore, e più che cercare di costruirla -ricordando che qualcuno lo fa a rischio della vita stessa, come i migranti su barchini e barconi, o chi combatte dittature vere altrove mentre qui ci si divide tra chi della dittatura vede il fantasma ovunque e chi nientemeno la auspica- semplicemente la attendono; la porterà la rivoluzione. Alcuni la immaginano concretizzarsi quando sparirà questo o verrà quello, e io temo che, loro malgrado, aspetteranno invano. Insomma, chi la dovrebbe fare, o portare, questa benetta rivoluzione? Qualche non meglio identificata “forza del bene”?

Non andrebbero sottovalutati gli effetti della costante e crescente inclinazione di alcuni a considerare collettivo o pubblico ogni sorta di problema privato, come scrive J. Peterson, e senza negare che sovrastrutture economiche, politiche e normative influenzino ampiamente l’agire e la condizione dei singoli, non andrebbe però negato neanche il “concorso di colpa” di chi in qualche modo, in conseguenza di alcune proprie sciagurate scelte, si ritrova con in mano il famoso “pugno di mosche”, ma cieco e saccente, non ne prende coscienza e ne da la colpa. A qualcuno, a qualcosa, ad entità occulte e poteri forti, qualche anno fa ai rettiliani, e ultimamente addirittura ai satanisti! Il concetto di stato sociale è nobilissimo, come quello di solidarietà, di cooperazione e di mutuo soccorso, ma anche qui trovo sia “ideologico” far finta di non vedere quanto sia diffusa la prassi di approfittare dei dispositivi di tutela, di speculare sui meccanismi di tutela, di aspettarsi non soltanto soluzioni, da terzi e quarti, ma perfino rivoluzioni! E invece, “aiutati che Dio t’aiuta”, diceva quello!

Per alcune categorie di persone esistono davvero impedimenti importanti, per altre invece esiste una ostinata pretesa che qualcun altro debba predisporgli il paradiso in terra, magari proprio quei politici che disprezzano, o i detentori di quel potere di cui discutono, o di quei denari che a loro volta vorrebbero. Si cercano colpevoli come in una caccia alle streghe, e si sognano eroi. Si blaterano chiacchiere su un passato che non si conosce, credendo che il vuoto di conoscenza possa tradursi in uno spazio devoluto alla libertà di inventare e congetturare! Si dice senza vergogna che la storia è falsa perché la scrivono i vincitori, e tanto basta per obliare la verità di ciò che può insegnare. Disconosciamo il passato e speculiamo sul futuro, intanto esistiamo, così, arrabattandoci alla meno peggio nell’attesa di una rivoluzione che non verrà! Incattiviti e illusi.

La storia racconta con dovizia di particolari la genesi del reale, la presenza in ogni spazio e tempo di individui lascivi e laidi; la storia racconta la faticosa parabola del divenire, e checché se ne dica oggi, un “ieri” migliore non c’è stato. La Rivoluzione per alcuni è in ogni ticchettio di orologio, nella natura stessa dell’evoluzione, per altri invece arriverà, e quanto più non vedono l’ora, tanto meno si adoperano e tanto più attendono messianicamente, a braccia conserte, tra l’immobilismo e il frastuono del loro stesso poverissimo bla, bla, bla.

E a chi pensasse che il mio è cinismo, ricordo che l’obiettività non è una rinuncia all’utopia e anzi, che l’utopia (dal greco οὐ “non” e τόπος “luogo” da cui “non-luogo”) è “tensione verso”, ragion per cui non sarà mai realizzata qui ed ora, e proprio per questo, l’età dell’oro non è mai esistita. Se però l’avete sognata, che vi ispiri da svegli!

Monica Scafati

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