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La repressione al tempo di Minniti, un po’ Cossiga, un po’ Scelba, un pò Calogero

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A quando la reintroduzione in Italia del reato di istigazione dell’odio di classe, ci penserà Minniti?

Il 30 marzo a Roma si è avuta una “vigorosa” azione di polizia che ha portato a vari fermi, arresti e misure cautelari nei confronti di militanti e simpatizzanti di alcuni centri sociali romani in conseguenza di indagini inerenti episodi di un anno prima circa, il 21 maggio 2016, in occasione dell’iniziativa, CASAPOUND NOT WELCOME, contro i fascisti del III millennio di Casapound Italia e di altri gruppi fascisti e nazisti giunti per un sodalizio capitolino da tutta Europa; come al solito autorizzato dalla Questura.

Ci furono quel giorno 21 maggio delle iniziative di piazza volte a ostacolare il sodalizio di estrema destra come ne avvengono tante per esempio in Germania o Gran Bretagna; paesi dove malgrado il regime hitleriano abbia causato milioni di morti, l’antifascismo nelle istituzioni non è decisamente solido (basti ricordare che per Searchlight e Sunday Express la latitanza di Roberto Fiore in Inghilterra venne protetta dai servizi segreti di Sua Maestà; come scordare che le indagini su vari recenti omicidi xenofobi ad opera di nazisti tedeschi furono depistate da un forte, tollerato, nucleo nazi dei servizi della Germania).

Comunque si tratta lì di fatti di ordine pubblico in quei paesi combattuti almeno dalle forze di polizia con azioni di contrasto immediato o quasi in flagranza degli atti illeciti o presunti tali; tra l’altro gli agenti di polizia in funzioni di ordine pubblico hanno dei numeri di identificazione facilmente rilevabili e spesso non hanno protezioni travisamenti che li rendano irriconoscibili come avviene bensì da sempre in Italia: ma questo l’Europa non ce lo chiede? Da noi funziona in altro modo: lavorano stuoli di agenti della DIGOS e delle questure ad analizzare per mesi filmati, foto, informative in un tentativo di ricostruzione di eventi accaduti molto tempo prima, che non può che essere approssimativo e parziale per chiunque conosca appena un po’ di studi di logistica e di criminologia (in Italia il sistema politico PD/PDL/Alfano si accende e si attiva di continuo per le spese inerenti le intercettazioni telefoniche contro lor signori mazzettari e criminali, ma nessuno dice nulla sulle spese del costo del lavoro di decine di persone delle forze dell’ordine nelle singole questure per ricostruire molto ex post i partecipanti zecche comuniste alle manifestazioni di piazza, quando ci siano stati scontri appena di un qualche rilievo) . Il problema è che questo tipo di indagini non avvengono solo ad opera delle forze di polizia, ma piuttosto su impulso dei PM all’interno delle Procure della Repubblica. In effetti i PM dopo avere letto le informative immediate sui fatti danno le deleghe di Polizia Giudiziaria (PG) fornendo per iscritto a o voce linee guida ovvero dando carta bianca alla PG. Talvolta i PM danno all’inverso luogo a protagonismi forti versus le attività di PG, sappiamo per esempio di inibitorie alla DIGOS a procedere in rilievi dattiloscopici, le impronte digitali, su lettere anonime “compromettenti” in quanto ”attività defatigante per le forze di polizia”. Quindi bisogna piuttosto vedere il combinato disposto sinergico delle attività della PG, dei PM e dei GIP (che autorizzano arresti, perquisizioni, intercettazioni, misure cautelari) in un determinato distretto giudiziario. Perciò non parlerei di giustizia a orologeria post manifestazione 25 marzo, slogan di schemi mentali decisamente semplicistici di sapore quasi forzitaliota, bisogna invece comprendere i meccanismi di un’azione precisa in corso di elaborazione e di strutturazione anche politica da mesi e mesi sotto la vigenza del Governo Renzi e poi col Gabinetto Gentiloni. In effetti, dall’agosto del 2016 con un Decreto Legislativo le forze di Polizia Giudiziaria devono rispondere non solo ai PM ma devono anche informare delle indagini i loro superiori gerarchici di corpo, in pratica i comandanti generali di Polizia, CC e GDF, tutti di nomina politica. Si tratta ovviamente una disposizione fuori dall’ordinamento della Costituzione di connotazione turco erdoganiana, passata quasi sotto silenzio, che asfissia in Italia i nuclei di PG e di PM indipendenti e fuori linea, diciamo. Inoltre recentemente  scrivevamo su Popoff a proposito “della Direzione centrale della Polizia di prevenzione, presso il Viminale, (protocollo N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333 dell’11 aprile 2015) con sigla in calce del direttore centrale, prefetto Mario Papa, che aveva definito Cpi una organizzazione di bravi ragazzi molto disciplinati, con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio; insomma il Viminale a direzione Alfano promuoveva CPI a bravi ragazzi solo un po’ troppo esuberanti: opporsi pertanto a tali bravi ragazzi è sostanzialmente, ne deduciamo, un atto di sovversivismo puro senza alibi di sorta.

Torniamo al caso di specie degli eventi del 21 maggio 2016. I fatti più contestati sono individuabili in lievi scontri nell’episodio del cosiddetto danneggiamento del furgone NCC nei pressi di via Nino Bixio con quattro poveri tedeschi, aggrediti da giovani sovversivi per motivi incomprensibili. Al di là della consistenza dei reati di danneggiamento si suppone denunciato dal conducente del mezzo NCC e forse di minacce, non procedibili d’ufficio, denunciate si presume dai 4 simpatici turisti tedeschi, non si comprende al momento molto della consistenza e delle motivazioni delle esigenze cautelari applicate. Comunque i 4 innocenti turisti tedeschi poi forse tanto neutral non erano versus la kermesse fascista di quel giorno.

Scrive Dinamo press “ Jan Weissberg, Andreas Gaus, Sven Goehner e Robert Kempeter infatti non sono solo quattro amici molto tatuati in vacanza a Roma. Le informazioni che arrivano dalla Germania dipingono infatti un profilo assai più complesso. Provenienti dalla regione della Ostwestfalen – Lippe, Land Nordrehin-Westfalen, tutti e quattro sono figure di spicco della scena musicale e sottoculturale di estrema destra, da tempo nei radar tanto del movimento antifascista quanto dei servizi investigativi della Polizei. Conosciuti in tutta la Germania, hanno tutti fatto parte di un gruppo di biker (Road Crew Ostwestfalen) e di svariate band. In particolare, Andreas Gaus e Jan Weissberg risultano proprietari di quella che è stata la sede del gruppo, una vecchia stazione abbandonata nel territorio di Lage Kachtenhausen, come risulta da questo articolo. Della loro attività si sono interessati anche i giornali della regione, in particolare la Neue Westfalische e la Lippische Landes- Zeitung. Appena un anno prima della azzardata manovra ai margini del corteo antifascista di Roma, infatti, il gruppo Road Crew OWL era sotto i riflettori del dibattito del Land su negazionismo e attività dell’estrema destra, con al centro proprio la sede gestita da Gaus e Weissberg”. Insomma servizi e questure italiane di un paese che appare omaggiare di continuo Israele non si tirano mai indietro nell’interdire manifestazioni e kermesse di nazifascisti, italiani e non, che in pubblico inneggiano, esaltano e cantano le gesta dell’Olocausto e dell’antisemitismo più feroce: è una cosa normale?

Si comincia capire come sottolineato già da alcuni osservatori l’esistenza di una tendenza e di una trama volte vieppiù a superare le già anomale -rispetto ad altri ordinamenti europei- previsioni e non previsioni del codice penale italiano (rifiuto ad ottemperare qualunque disposizione della pubblica autorità, oltraggio a pubblico ufficiale, assenza del reato di tortura, devastazione e saccheggio) non aspettando per misure cautelari gravi l’evidenza dei due gradi di giudizio del processo, ma “condannando” i sovversivi alla galera nella fase istruttoria o preliminare spesso in parte o in toto smentita poi in fase processuale.

Si accompagna a questa strategia “giudiziaria” inquirente in sinergia una altrettale di diretta promanazione del Governo la cui epifania si è avuta a Napoli qualche settimana fa con l’intervento a gamba tesa del Ministro dell’interno Minniti. In quell’occasione i vertici dell’amministrazione della Mostra d’oltremare, la cui maggioranza è espressione del comune di Napoli, avevano disdettato il contratto con la Lega di Salvini, decisamente non amato dal popolo napoletano, che intendeva fare un comizio in quella struttura a Napoli. Minniti, in nome del diritto a parlare per Salvini, forzando alla grande la previsione normativa di una disposizione in materia di emergenza rifiuti, e non di diritto di parola, si è sostituito al sindaco De Magistris intervenendo tra l’altro in poche ore in materia civilistica di un contratto tra parti e ha fatto sì che la disdetta fosse disdettata: il comizio si è tenuto col corollario di incidenti e forse di arresti differiti dei prossimi mesi. D’altronde il ricorso al TAR per palese illogicità dell’atto, eccesso di potere e incostituzionalità non poteva mai arrivare in tempi utili per la discussione trattazione. Ove mai qualcuno ricorresse al TAR ex post si avrebbe solo una piccola consolazione, come è avvenuto con l’annullamento ex post dell’ordinanza Alemanno che proibiva le manifestazioni dei “sovversivi” a Roma sulla base delle normative antitraffico. Ormai il vulnus è ormai sopraggiunto. Né in Italia ha rango costituzionale o di legge il diritto alla disobbedienza come avviene in Germania. Nella Costituzione del Lander dell’Assia, all’art.147 si afferma: “La resistenza contro l’esercizio contrario alla Costituzione del potere costituito è diritto e dovere di ciascuno”. La Costituzione del Lander di Brema, all’art. 19 afferma:” Se i diritti dell’uomo stabiliti dalla Costituzione sono violati dal potere pubblico in contrasto con la Costituzione, la resistenza di ciascuno è diritto e dovere”. La Costituzione del Lander di Brandeburgo del 31.1.1947, all’art. 6 afferma: ”Contro le leggi in contrasto con la morale e l’umanità sussiste un diritto di resistenza”. Anche la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca , all’art.20, 4° comma, afferma:” Tutti i tedeschi hanno diritto alla resistenza contro chiunque intraprenda a rimuovere l’ordinamento vigente, se non sia possibile alcun altro rimedio”.

Da noi come retaggio reazionario delle monarchie e del fascismo bisogna ottemperare alle disposizioni della pubblica autorità sempre anche quando fossero incostituzionali ovvero al di fuori dell’ordinamento giuridico vigente.

Come alla fine degli anni 70/inizio anni 80 molti osservatori indipendenti da vari paesi europei cominciarono a investigare e a fare campagne sulla pesantezza della repressione in Italia; dall’Italia si sollevarono dai giuristi molte questioni alle corti internazionali di giustizia. Forse è il caso di intraprendere di nuovo questa strada con enfasi. Mettere questi argomenti alla luce dei riflettori aiuta anche le simili situazioni difficili per esempio in Ungheria e Polonia. Va anche approfondita anche la sottile linea rosso sangue negli ultimi 40 anni di storia di “simpathy” per la repressione che ha avuto dei grandi sostenitori nei vertici del PCI e arriva oggi al PD, a partire dal teorema Calogero, passa per la squadretta di de Tormentis a finire a oggi. Ma a noi la Colonna Infame ci fa schifo da sempre.

Federigo Borromeo

da popoff

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Dallo stato sociale allo stato penale di Minniti

Il “decreto Minniti” segna uno spartiacque nel rapporto tra conflitto sociale e governi di questo paese. Al di là dei dettagli tecnici – che pure è necessario chiarire, chiamando a ragionarne giuristi, avvocati democratici e quel tanto che ancora esiste di parlamentari affezionati alla democrazia – va intanto colto il dato politico essenziale: non esistono quasi più spazi di mediazione. Anche il “quasi” ha la sua importanza giuridica, naturalmente, ma la direzione di marcia già fissata da alcuni decenni viene ora percorsa premendo forte sull’acceleratore.

Si usa definire tutta questa sfera come ambito della “repressione”, ed è corretto; ma è solo una parte del ragionamento che occorre fare.

La chiusura degli spazi di mediazione è infatti fenomeno politico-sociale ben più ampio del solo schieramento di strumenti militari e legislativi a supporto della repressione. Sono quasi 40 anni che le vie della mediazione sociale vanno diventando viottoli tortuosi, abbandonati alle erbacce e al dissesto, fino all’impraticabilità. La mediazione sociale si nutre infatti di spesa pubblica, è incarnata da investimenti pubblici e istituti di welfare (pensioni, sanità, istruzione, edilizia popolare, strumenti di supporto al reddito, ecc), che danno concretezza all’esigibilità di diritti altrimenti enunciati come pura chiacchiera. Tagliare la spesa pubblica vuol dire esplicitamente – basta leggere i giornali economici, anziché la cronaca – tagliare i margini di mediazione sociale, approfondire le disuguaglianze, impoverire chi ha un lavoro, bloccare l’ascensore sociale, condannare porzioni crescenti di popolazione a restar per sempre fuori dal cerchio del (relativo) benessere.

Mediazione sociale e repressione “regolamentata” sono andate di pari passo in tutta la storia del dopoguerra. La conquista di diritti esigibili è stata pagata con centinaia di morti nelle piazze e non. La repressione del conflitto si è a sua volta evoluta da “generalizzata” (verso tutte le manifestazioni di dissenso) a “selettiva” (prendendo di mira soprattutto le avanguardie politiche, a cominciare ovviamente da quelle più radicali).

La democrazia reale non è stata per niente un paradiso, come sappiamo. Ma si era riusciti a costruire – sulla base di rapporti di forza politici e sociali ora perduti – un ambito, spesso ristretto ai minimi termini, in cui l’esercizio del conflitto veniva riconosciuto e possedeva una legittimità anche per la controparte; ed in cui la repressione – anche quella più estrema – doveva essere contenuta, se non altro per salvare la faccia con le forme esteriori della democrazia. Persino nelle carceri speciali, insomma, si poteva contrattare su alcuni spazi di vivibilità, potendo contare sull’esistenza di un’”opinione pubblica democratica” che aveva grande peso sociale e intellettuali di notevole spessore (vedi le campagne per la chiusura del carcere dell’Asinara). Persino il più impolitico dei casseur, una volta preso prigioniero, sapeva fino a che punto poteva essere maltrattato dalla polizia e dove si situava il limite.

Gli sforamenti di quei limiti – omicidi mirati e torture – sono stati numerosi, ma hanno sollevato scandalo pubblico e hanno costretto il potere prima alla negazione, poi alla minimizzazione, in alcuni casi addirittura alla tardiva condanna dei funzionari più feroci (il “dottor de Tormentis”, per esempio). E le scene di Genova 2001 hanno creato più problemi che trionfi, alla classe politica d’allora.

Ora non più.

Quell’epoca è finita. Il “decreto Minniti” supera le colonne d’Ercole del diritto, attribuendo alle forze di polizia poteri senza contraltare e senza controllo. Perlomeno negli effetti immediati; e tutti sanno quanto possa essere estenuante la lentezza delle cause giudiziarie sgradite ai potenti, si tratti di tortura o di stragi per l’amianto. Ragion per cui intanto scattano i provvedimenti restrittivi, poi magari con il tempo – spesso troppo tempo – i ricorsi all’autorità giudiziaria possono a volte decretarne l’ingiustificabilità e ripristinare l’agibilità agli attivisti colpiti. Ma intanto l'”effetto freno” funziona…

La prima prova sul campo si è avuta con la manifestazione del 25 marzo. Non si è trattato solo di un’esibizione di forza, ma di una politica ad ampio spettro. Sono stati allertati direttori e capiredattori dei media più importanti, invitati a spargere come pioggia un allarmismo mai visto prima (Isis e black bloc negli stessi discorsi, come se tra una strage e una vetrina non ci fosse più distinzione). E’ stato allarmato un intero quartiere – l’unico attraversato dal corteo – e intimato ai commercianti di tirar giù le saracinesche. E’ stato mandato davanti alle telecamere un rappresentante delle associazioni di categoria a chiedere che in futuro si vietino le manifestazioni “per garantire il diritto di fare incassi”. Ogni governo “europeista” sarà ben felice di accontentarlo…

Sono stati bloccati diversi pullman di manifestanti provenienti da fuori Roma, “per verificare il loro orientamento ideologico” (come candidamente ammesso dal questore). Sono state identificate le persone, perquisite, trattenute per ore, impedendo quindi il diritto a manifestare anche dopo che le “verifiche” erano state tutte negative.

Sono stati emessi fogli di via stabilendo un nesso assolutamente arbitrario tra il ritrovamento di bastoni e sassi a Testaccio – il giorno prima! – e le persone che venivano da centinaia di chilometri di distanza, su mezzi peraltro pedinati da macchine della Digos.

E’ stata svuotata una capitale d’Europa vietando a tutti l’accesso alle zone attraversate dai 27 padroncini dell’Unione Europea; poi ci si è lamentati delle “manifestazioni che danneggiano il turismo”. Come se, in assenza di manifestazioni, sarebbe stata prevista piena libertà di movimento…

E’ stato spezzato in due un corteo, con mossa premeditata, alla ricerca di uno “scontro” che palesemente il corteo non voleva.

Sono scomparsi, proprio in quel momento, tutti i “responsabili di piazza”, lasciando sia gli uomini in assetto antisommossa che gli organizzatori della manifestazione senza un’interfaccia attendibile. Come se il potere, in questo paese, fosse in grado di mostrare enorme prepotenza ma ben poco autocontrollo.

Se nulla è accaduto, è merito di tutto il corteo, che si è poi ricomposto e abbracciato al Circo Massimo.

Quella del 25 marzo è stata dunque l’ultima manifestazione della vecchia fase e la prima della nuova. In mezzo c’è il “decreto Minniti”, contro cui andrà iniziata una battaglia politica ad ampio raggio, sia come mobilitazioni che come chiamata alle responsabilità di tutti davanti all’involuzione antidemocratica delle “istituzioni”.

Vale anche per noi, ossia per tutte le componenti che hanno dato vita alla giornata del 25 marzo. Continuare a ragionare e comportarsi come prima sarebbe il più stupido degli errori. Qualsiasi sia il tipo di pratiche che si è soliti mettere in campo. C’è un passaggio qualitativo in corso che fa la differenza tra il “prima” e “l’adesso”. Se non vogliamo che il domani diventi sistematicamente quello che abbiamo vissuto sabato 25 marzo, prima ancora in Val di Susa o nelle lotte sociali metropolitane in varie città o quello che stiamo vedendo in Puglia, occorre cominciare a discutere ed agire in modo convergente e lungimirante per rompere questo clima ed evitare tale scenario.

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