In carcere disobbedienti e renitenti. Tanti, in età militare, in fuga dall’Ucraina per non partecipare alla guerra. Una delle cose più abominevoli della guerra è costringere qualcuno a uccidere o farsi uccidere
di Mao Valpiana
Un decreto presidenziale ha prolungato la Legge marziale e la conseguente mobilitazione generale in Ucraina per altri 90 giorni, fino al 20 maggio 2023. A questo si aggiunge l’entrata in vigore e l’applicazione della Legge n. 8271 approvata il 13 dicembre 2022 dal Parlamento monocamerale, la Verkhovna Rada, che rafforza le pene per i soldati che disobbediscono o disertano la guerra, inasprendo gli articoli del codice penale militare.
Pugno di ferro, dunque, per tentare di arginare il fenomeno, che finora era stato sottovalutato o nascosto, dei disertori, dei renitenti alla leva, delle migliaia di cittadini maschi che vogliono evitare il reclutamento. Se ne è accorto anche il New York Times, che ha scritto: «Migliaia di ucraini in età militare hanno lasciato il paese per evitare di partecipare alla guerra. I governanti ucraini minacciano di incarcerare i renitenti alla leva e confiscarne le case». Difficile quantificare il numero degli espatriati, ma è certo che le organizzazioni contrabbandiere, specialmente in Moldavia, fanno pagare anche 15.000 dollari il viaggio clandestino per uscire dall’Ucraina; affari d’oro, avendo a disposizione un enorme bacino di maschi tra i 18 e i 60 anni cui il governo ha proibito di uscire dai confini: cittadini patrioti, non certamente filo russi, ma poco inclini ad indossare la divisa, imbracciare le armi e andare in prima linea, dove il numero ingente di morti tra russi e ucraini tende ormai a pareggiare.
Che il malumore per questa nuova recrudescenza militarista sia diffuso, lo si è capito anche dalle petizioni sottoscritte da 25.000 firmatari che denunciano come «il comando avrà una leva senza precedenti per ricattare e imprigionare i militari praticamente per qualsiasi critica alle loro decisioni, anche se le decisioni sono incompetenti e basate su una cattiva gestione del combattimento».
La nuova normativa cancella tutte le esenzioni dal reclutamento finora previste: gli iscritti all’università, i disabili e chi ne ha la cura, i padri di almeno tre figli, gli obiettori di coscienza che optavano per il servizio civile. Ora il reclutamento avviene anche per strada, nei luoghi di lavoro, nei numerosi posti di blocco; persino nelle scuole perché l’obbligo della registrazione militare parte dai 17 anni. La mobilitazione riguarda anche coloro che non hanno svolto il servizio militare; oggi basta un mese di addestramento obbligatorio e si è pronti per l’invio nell’esercito. Quando si è inquadrati si è alle dipendenze del generale Valerii Zaluzhnyi, principale promotore della nuova Legge, comandante in capo delle Forze armate ucraine e membro del Consiglio per la sicurezza e la Difesa nazionale. La Legge da lui voluta è osteggiata da molti soldati, avvocati e attivisti che stanno montando una vera rivolta contro l’inasprimento delle pene previste: dai 5 ai 10 anni di reclusione per diserzione, abbandono del luogo di servizio, rifiuto di usare le armi e dai 3 ai 10 anni per disobbedienza ad un ordine militare di un superiore. La normativa prevede inoltre che i giudici non possano applicare nessuna attenuante, né diminuire le pene o concedere il rilascio anticipato o la libertà vigilata.
Il malumore contro la nuova Legge è crescente e rischia di diventare un problema per il governo. Lo stesso Zelensky è intervenuto dicendo che il rispetto della disciplina militare e la lealtà al giuramento militare sono alla base della vittoria contro l’esercito russo. Il generale Zaluzhnyi vuole chiudere la polemica pubblica: «Riconosco l’esistenza di problemi che portano all’abbandono arbitrario delle posizioni ma bisogna lavorare per eliminarli. Il successo delle operazioni militari è l’obiettivo». Migliaia di giovani ucraini che non credono nella «vittoria fino all’ultimo uomo» fanno sapere di non pensarla allo stesso modo.
da il manifesto
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Frontiere aperte per i disertori
Una delle cose più abominevoli della guerra è costringere qualcuno a uccidere o farsi uccidere.
Tempo fa leggevo un articolo sullo stress post-traumatico di tanti reduci del Vietnam ricoverati in reparti psichiatrici. Una generazione è stata annichilita.
Dopo l’esplosione di una violenza istituzionalizzata e considerata presentabile nella buona società americana, molti reduci sono implosi, schiacciati dal peso dei loro incubi.
Il trauma dei soldati è analizzato nel film Full Metal Jacket. Parla di Vietnam, ma è una finestra su tutte le guerre. È un racconto feroce di quello che ti aspetta durante l’addestramento e mentre infuria la battaglia. In quei contesti rimane a galla chi si rifugia nell’annullamento di sé per trasformarsi in una macchina. Chi non ci riesce sprofonda nel delirio. Ma anche i soldati che mantengono un precario e contraddittorio equilibrio perdono qualcosa per sempre, persino quando sopravvivono, persino quando riescono a immergersi in una disperata apatia. Magari tornano a casa, ma sono rassegnati alla brutalità del mondo.
Non entro nei dettagli per non rovinarvi il film. Va guardato. Io l’ho visto tutto d’un fiato, malgrado qualche cedimento emotivo di fronte alle sequenze più crude.
La verità è che non sopporto l’idea di un’arma da fuoco nelle mie mani, neanche come astrazione confinata nell’iperuranio, nemmeno come riflessione filosofica durante un cineforum o come ipotesi enigmistica in un gioco di società.
Non reggo l’idea di toccare fucili o pistole in nessuna situazione, anche se sto affrontando l’argomento proprio ora, in preda a un attacco di autolesionismo. Mentre scrivo, tento di sopprimere l’immagine dell’arma nel mio pugno, ma il mio flusso di coscienza è indisciplinato. Ricado nella condizione paradossale di chi cerca di non pensare al porpora e quel colore, come per dispetto, diventa un chiodo fisso.
Vista la mia curiosa idiosincrasia per stragi e cose simili, posso vagamente intuire l’abissale sconforto dei giovani russi e ucraini mandati a combattere contro la loro volontà. Al loro posto mi ubriacherei a morte durante il viaggio verso la prima linea.
Le alternative esistono: scappare chissà dove, oppure ribellarsi a viso aperto, subire un arresto e finire in carcere, per poi subire i soprusi di guardie poco compassionevoli in celle sovraffollate. Sono da mettere in conto anche le torture.
Durante la guerra, la retorica patriottarda scorre a fiumi e la diserzione diventa il tradimento supremo. Non puoi aspettarti di essere trattato con i guanti, se getti il fucile in un fosso di fronte al generale.
Avrei il coraggio di essere un oppositore che sfida il sistema a viso aperto e si prepara ad affrontare terribili conseguenze? Difficile rispondere. Non voglio conferire a me stesso premi e attestati di merito psichici per atti eroici che non ho commesso. Forse, semplicemente, tenterei la fuga insieme a una moltitudine.
So solo che non potrei combattere. So solo che tante persone si oppongono, si sottraggono alle armi, disertano, ma al loro posto non saprei dove scappare, perché qualsiasi cartina geografica mostra con implacabile chiarezza che esistono Stati e confini.
Dobbiamo offrire un rifugio a chi brucia la divisa, invece di raggiungere nuove vette di perfezione nel voltare la testa dall’altra parte. Apriamo le nostre deplorevoli frontiere per proteggere i disertori russi e ucraini.
Facciamo risuonare il nostro barbarico yawp sui tetti del mondo per chiedere che ottengano lo status di rifugiati.
La scelta di non combattere deve diventare un diritto umano.
Finora questo tema è rimasto troppo ai margini del dibattito pubblico.
Portiamola avanti come si deve, senza dimenticare le basi, questa lotta antimilitarista.
da Pressenza
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