Menu

Per la procura di Trapani la solidarietà è reato.

Intervista a don Mussie Zerai. Il sacerdote eritreo accusato dalla procura di Trapani di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina

«Ho sempre lavorato alla luce del sole. Quando ricevo una richiesta di aiuto come prima cosa avviso la Guardia costiera italiana e quella libica, quindi non capisco proprio da cosa nasca l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina». Don Mussie Zerai è da poco tornato a Roma dall’Africa dove ha saputo di essere indagato nell’inchiesta che la procura di Trapani sta conducendo sull’attività delle Ong impegnate nel salvataggio di migranti nel Mediterraneo. In Etiopia e Uganda il sacerdote lavora a un progetto che prevede l’assegnazione di borse di studio per giovani africani. «Un sostegno ai rifugiati – spiega – un modo per aiutarli a rimanere il più vicino possibile alle loro case sperando che la situazione nei loro Paesi migliori». La notizia dell’avviso di garanzia nei suoi confronti gli è stata comunicata martedì «per un’indagine – dice – che va avanti da mesi visto che è cominciata il 24 novembre del 2016».

Sacerdote dal 2010, fondatore dell’Agenzia Habeshia per i diritti dei migranti, nel 2015 è stato candidato al Nobel per la Pace proprio per la sua attività a favore dei profughi. Una condizione, quella del profugo, che padre Zerai conosce bene per averla vissuta in prima persona. Eritreo di Asmara, fuggì dal suo Paese quando aveva solo 17 anni per arrivare a Roma all’inizio degli anni ’90. Considera una missione «andare verso le periferie e schierarsi dalla parte degli ultimi della terra».

Don Zerai ha capito su cosa si basano le accuse nei suoi confronti?
Dalle carte che mi sono state consegnate non risulta nessuna accusa specifica. Aspetto che gli avvocati capiscano meglio di cosa si tratta.

In questi anni lei ha avuto contatti con tutte le Ong che oggi sono impegnate nel Mediterraneo.
Se non proprio con tutte, con molte di loro. Sicuramente con Msf, Moas, Sea Watch e Watch the Med che non è un’Ong con navi come le altre, ma fa un servizio di raccolta dati e informazioni via telefono. Solitamente quando ricevevo una richiesta di soccorso come prima cosa avviso sempre la Guardia costiera italiana e quella maltese prima ancora delle Ong. Siccome poi la Guardia costiera mi ha sempre chiesto di dare conferma scritta alla telefonata, invio anche una mail. Questo è il modo in cui ho sempre comunicato. Nessuna chat segreta, come è stato scritto o chissà cosa. Non c’è nulla di segreto.

E con i volontari delle Jugend Rettet, sui quali sta indagando la procura di Trapani, ha mai avuto contatti?
No, che io ricordi non ho mai comunicato direttamente con loro.

Il suo numero di telefono però ce l’ha praticamente ogni migrante che parte dall’Africa.
Ho sempre lavorato alla luce del sole. Soprattutto dal 2011 in poi, da quando è scoppiata la rivolta in Libia e ho cercato di coordinare l’evacuazione dei profughi rimasti intrappolati nelle varie città libiche verso la Tunisia. In quell’occasione molte persone hanno avuto i miei contatti perché usavo le radio che trasmettono nelle nostre lingue, Voice of America o Radio Erena che trasmette dalla Francia, per spiegare come raggiungere i campi per i rifugiati che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati aveva aperto a Sciuscia, in Tunisia. I giornalisti che conducevano le trasmissioni hanno dato il numero del mio cellulare. In questo modo tutti quelli che ascoltavano il programma, che fossero in Libia, in Eritrea o in Etiopia o in qualsiasi parte del mondo, hanno avuto il mio numero.

Che idea si è fatta delle polemiche sul ruolo delle Ong?
Non riesco a comprendere fino in fondo, ma immagino che dietro le polemiche ci sia il tentativo di limitare il più possibile l’intervento di queste Ong in modo da ridurre le partenze dei barconi. Lo scopo finale è quello di impedire l’arrivo di altre persone che cercano in Europa asilo, protezione oppure un futuro diverso. Mi appello al premier Paolo Gentiloni ma anche all’Unione europea perché pongano come priorità il salvataggio delle vite umane e non preoccuparsi solo di come chiudere i confini. I respingimenti rendono anche l’Unione europea complice di tutti quegli orrori che in questi giorni ascoltiamo su quanto accade nei centri di detenzione in Libia: le torture, le violenze, la privazione di cibo e acqua. Tutto questo rende anche l’Europa complice, perché ha delegato alla Libia il compito di non far partire i migranti.

Trova giusto far firmare alle Ong un codice di comportamento?
Avrei preferito ci fosse stato un accordo di coordinamento piuttosto che un regolamento. Soprattutto se le nuove norme limitano o impediscono una fase importante dei soccorsi come il trasbordo dei migranti da una nave all’altra. Questo vuol dire che davanti a un barcone che trasporta 500-600 migranti, non potendo trasbordare una nave soccorritrice piccola prenderà solo quelli che riuscirà a far salire a bordo. Gli altri aspetteranno e saranno fortunati se arriverà un’altra nave prima che muoiano. E’ come dire: salviamone un po’ ma non tutti.

Carlo Lania

da il manifesto

*************

Don Mussie, il numero verde che salva la vita

La notizia secondo cui la Procura di Trapani, nell’ambito dell’inchiesta sulla ong Jungend Rettet, starebbe indagando sull’operato di don Mussie Zerai, è la perfetta cartina al tornasole di un’estate in cui le azioni di soccorso nel Mediterraneo sono oggetto di una violenta campagna di delegittimazione.
Dopo la strage del 3 ottobre del 2013, quando un barcone stracolmo quasi unicamente di eritrei si rovesciò a poche centinaia di metri dall’isola di Lampedusa, don Mussie fu tra le persone più attive nel ricostruire quanto accaduto, e in particolare le cause e il motivo del viaggio di chi era andato incontro a una morte tanto assurda.

Da anni ormai don Mussie, prete cattolico eritreo trasferitosi in Italia e poi in Svizzera, è un’antenna sensibile sull’esodo dal Corno d’Africa e dal suo paese di origine, tanto da aver fondato un’agenzia giornalistica, habeshia.blogspot.it, che è una delle migliori fonti di informazione sui viaggi da quell’area del continente africano.

Nel tempo si è sparsa la voce che il numero di telefono di don Mussie ce l’hanno tutti. Lo si trova scritto sui cassoni dei tir che attraversano il deserto, sui muri delle prigioni libiche, negli stanzoni angusti in cui i profughi sono spesso ammassati lungo la tratta, tanto che si è propagato capillarmente, di mano in mano, di bocca in bocca, come una sorta di «numero verde». Già due anni fa era possibile calcolare che almeno cinquemila persone sono state salvate nel Mediterraneo per il semplice fatto di aver composto – poco prima di naufragare – il numero di don Zerai. Era stato poi il prete ad avvisare la Guarda costiera o la Marina militare.

Questa storia potrebbe sembrare una «leggenda metropolitana», ma chi scrive può dire di averla verificata con mano. Ho passato alcuni giorni con don Zerai e ho capito immediatamente, come chiunque abbia trascorso un po’ di tempo con lui, che quel cellulare che squillava in continuazione era l’unica fonte di salvezza per chi, a migliaia di chilometri di distanza, stava per morire. Proprio perché antenna sensibile sull’esodo, Zerai è stato tra i primi a rendersi conto di due tra i tanti «effetti collaterali» dell’esodo: l’indotto dei sequestri dei profughi che ha avuto il suo epicentro nel Sinai; l’impiego dei profughi che attraversano la Libia – da parte di molte fazioni in lotta – come muli da soma per portare mine e munizioni lungo il fronte.

Per la sua azione di soccorso e controinformazione, don Mussie è divenuto presto un uomo molto odiato. Odiato dalla Lega, da Casa Pound e da una miriade di blog neofascisti, che lo additano come uno dei fautori della «grande invasione». Odiato dal regime eritreo, che vede in lui un traditore che alimenta l’emorragia dei giovani dal paese (e si sa quanto ogni totalitarismo, specie quanto sorge sulle ceneri di una rivoluzione, scorga nell’esodo di massa una sconfessione delle proprie fondamenta).

In una singolare sovrapposizione dei punti di vista, a tale fuoco incrociato si aggiunge ora l’inchiesta della procura di Trapani. Il «numero verde» diventa oggetto di reato, perché – e qui il ragionamento della procura finisce per essere singolarmente il medesimo di CasaPound o del regime eritreo – l’esodo non è generato dalle dittature o dagli sconquassi politici dall’altra parte del mare (in Eritrea, in Somalia o in Gambia), bensì da chi favorisce il soccorso in alto mare di tutti coloro i quali si mettono in viaggio.

In questo radicale rovesciamento delle responsabilità, l’opera di don Mussie Zerai, al pari di quanti hanno provato a costruire ponti nel mezzo del disastro, è considerata l’anomalia da normalizzare.

Alessandro Leogrande

da il manifesto

*****************

Avviso di Nobel e avviso di reato ( Se la legge diventa ossessione)

Il tribunale di Trapani ha inviato un avviso di reato a un sacerdote che si chiama Mussie Zerai e si occupa di aiuto ai migranti. A metterlo nei guai con la legge è stato proprio il suo “lavoro quotidiano”. Aiutare qualcuno è permesso, ma se quelli che aiuti sono considerati fuorilegge allora tu stai commettendo il reato di favoreggiamento. Quindi puoi aiutare un migrante regolare ma non un migrante clandestino, perché dal 2009, in Italia, essere clandestino è una condizione che costituisce reato.

Padre Mussai giusto due anni fa aveva ricevuto un altro avviso, non da Trapani ma da Oslo: era la commissione per il Nobel della pace che lo aveva candidato al premio. Non si montò la testa. Né stavolta si è molto preoccupato – suppongo – per l’alzata di ingegno di un magistrato siciliano. Padre Zerai sarà assolto, naturalmente, o forse il procedimento sarà archiviato da qualche Gip con un po’ di sale in zucca. E potremmo anche considerare chiuso il caso. Quello che preoccupa è l’uso ossessivo della legge, e la moltiplicazione delle leggi, per affrontare i problemi che via via si pongono davanti a noi.

In questi giorni stiamo affrontando uno dei grandi problemi del nostro tempo: l’ondata di migranti provocata dalla crisi economica e militare dell’Africa, e del Sud del mondo, e dai processi inarrestabili della globalizzazione. Questione complessa e sulla quale abbiamo scritto varie volte su questo giornale, anche esprimendo posizioni diverse. ( Del resto sarebbe illogico se un problema di queste dimensioni d’epoca avesse una sola soluzione giusta e indiscutibile).

Però vorremmo sottolineare un fatto. E cioè che anche in questa occasione, come in tante altre recenti crisi – vere o create dall’informazione – la scelta decisiva è sempre quella di inventare nuovi reati e nuove pene. Quante volte è successo? Vogliamo elencare le più recenti? Furti, tutti parlano di furti: sù le pene per furto. Incidenti stradali, vanno spesso in prima pagina: sù le pene, e anzi si inventa un nuovo reato, quello di omicidio stradale. Rapine, le Tv non parlano d’altro ( anche se le statistiche dicono che sono in diminuzione): nuova legge sulla legittima difesa. Corruzione, i grillini premono, “Il Fatto” è in campagna permanente: nuove pene e addirittura equiparazione della corruzione all’attività mafiosa. E così arriviamo ai clandestini. L’opinione pubblica è preoccupata per l’arrivo dei profughi dall’estero ( già da alcuni anni: parliamo del 2009) e allora il Parlamento vara una legge che stabilisce che chi è clandestino sta commettendo un reato. E’ la prima volta che in un codice occidentale un reato viene associato all” essere” e non al “fare”. Nasce un reato, l’unico reato al mondo, che si compie senza compiere alcun atto.

Reato, credo, mai applicato, per fortuna: anche perché gran parte della magistratura è un po’ meno peggio di come ce l’immaginiamo.

Ma ora che l’emergenza sale ( e l’emergenza, spesso, nelle società moderne sale non perché sia reale ma perché tale è decretata dall’informazione, stampa e Tv), senza bisogno di nuove leggi si trova un nuovo reato da applicare: “favoreggiamento del reato di clandestinità”. E questa nuova figura di reato rende “rei”, praticamente, tutti coloro che si occupano di soccorso ai migranti, specie ai migranti in mare, perché evidentemente tutti i migranti, almeno finché non ottengono il titolo di rifugiarti, sono clandestini.

Molto probabilmente questa appassionata ricerca di nuovi reati, nuovi delinquenti, nuove pene, non porterà a grandi risultati. Né positivi né negativi. Semplicemente servirà ai partiti a dire all’opinione pubblica: «io son rigoroso, ioson rigoroso!». E servirà ad alcuni magistrati a mettersi in mostra, magari con l’idea di un salto in politica nel prossimo futuro. Dunque potremmo anche non curarcene. Però è uno dei tanti aspetti di quel processo che sta trasfor-mando la politica in attività di tipo giudiziario. Cioè sta uccidendo la politica, la sta radendo al suolo. Non c’è più la ricerca della soluzione, della mediazione, magari del compromesso. Che tenga conto degli interessi diversi, configgenti, e legittimi, di moltitudini di donne e di uomini. C’è solo la gara a fare o a usare la legge e la repressione.

Cesare Beccaria che era solo un ragazzo di 25 anni, e viveva nel settecento, e scriveva prima della rivoluzione francese, aveva in mente idee di società molto più moderne di quelle che, pare, prevalgano oggi nello spirito pubblico.

Piero Sansonetti

da il dubbio

Leave a Comment

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>