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La moda neofascista come strumento di business e propaganda

Il gruppo di giornalismo investigativo olandese Bellingcat ha recentemente pubblicato un report che solleva una questione di costume degna di attenzione: le implicazioni legate al business del merchandising della destra alternativa e neofascista.

di Walter Ferri

Il team ha studiato portali ed esercenti di diverse parti del mondo, riscontrando l’utilizzo di strategie di marketing ben tarate capaci di diffondere una narrazione politica controversa senza però incappare nella censura internettiana o nelle violazione della legge.

Nello specifico, l’indagine riscontra quanto prospettato dalla sociologa specializzata nella polarizzazione e nell’estremismo Cynthia Miller-Idriss nel libro Hate in the Homeland, ovvero che questi negozi abbiano un ruolo attivo nel consolidare nei soggetti portati all’ideologia di estrema destra un senso identitario transnazionale che va a rinforzare le ideologie più estreme dei vari movimenti. Una dinamica i cui risvolti abbiamo già ampiamente sviscerato su L’Indipendente nella lunga inchiesta sull’internazionale neonazista che attraversa decine di nazioni e ha trovato il suo nuovo centro teorico e militare in Ucraina.

Tornando al fatto in questione, nella maggior parte dei casi, i negozi sono attivi esclusivamente sotto forma di e-commerce, solo di rado hanno sedi fisiche, e fanno affidamento su manifatture recuperate da aziende terze che vengono poi personalizzate con loghi, stampe e simboli vari. Frequentemente all’insaputa delle imprese originali. I contenuti non sono espliciti, ma i richiami sono comunque evidenti: svastiche mimetizzate a decori, soli neri, aquile germaniche, cappucci bianchi, elogi alla difesa della tradizione nazionalista e molti, moltissimi richiami alle rune e alla mitologia norrena.

I giornalisti olandesi non possono fare a meno di rimarcare che molte di queste imprese fanno riferimento a fornitori, servizi di web hosting e meccanismi di pagamento che, almeno formalmente, denunciano ogni forma di razzismo e incitazione all’odio. In molti casi non si tratta neppure di ipocrisia, ma di semplice disattenzione per un settore che è oberato dalla costante nascita di nuove attività commerciali.

Anche quando vengono intercettati e cancellati, questo genere di siti web tende a ricomparire altrove con altro nome, inoltre i contenuti più controversi vengono regolarmente discussi altrove, lontani dagli occhi delle masse, spesso su app di messaggistica quali Telegram o Signal. Proprio il rapporto bidirezionale tra negozi e social media rappresenta uno degli elementi più critici dell’analisi avanzata dal team di Bellingcat, il quale ha riscontrato che molte delle chat più polarizzate finiscano con il reclamizzare i contenuti delle boutique e che gli store in questione ricambino il favore rimandando a profili attraverso cui è possibile incontrare enclave della destra alternativa.

In questa maniera, gli spacci di indumenti e accessori non solo si dimostrano utili a reperire risorse economiche per sostenere partiti e associazioni tendenti all’estremismo, ma divengono anche un mezzo attraverso cui attirare nuovi adepti e consolidare il senso di appartenenza dei vari membri. Non solo, la distribuzione sulla rete internet garantirebbe inoltre una diffusione mediatica internazionale che porta le varie correnti a spalleggiarsi reciprocamente tanto nella distribuzione dei prodotti, quanto nella diffusione del concetto che le derive nazionaliste rappresentino una verità universale.

Tra le realtà nominate nell’inchiesta figurano European Brotherhood, la svedese Midgaard, l’ungherese Nordic Sun Records, le francesi Pride France e 2yt4u, le ucraine Svastone e Schutzenbrand, le russe White Rex e Ruswear.

da L’Indipendente

 

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