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La fabbrica della paura

barcone migranti

Un’analisi dal basso sul fallimento e delle politiche migratorie

Mare Nostrum

1. Negli ultimi mesi le ‘civili’ istituzioni italiane ed europee stanno evitando di essere additate come impotenti di fronte ai flussi migratori provenienti da Nord Africa e Medio Oriente. Le ripetute stragi politiche nel Mediterraneo dello scorso autunno hanno costretto l’Unione Europea a irrobustire Frontex (l’Agenzia dell’Ue per il controllo delle frontiere esterne), a stanziare qualche decina di milione di euro per intensificare il pattugliamento del canale di Sicilia e a redarguire l’Italia affinchè le rotte dei barconi verso Lampedusa fossero dirottate in porti più attrezzati, come quello di Ragusa e Porto Empedocle. L’operazione Mare Nostrum e la militarizzazione che ne è seguita pare dare i suoi frutti verso l’opinione pubblica. Infatti la rassicurazione dei cittadini che i confini siano sorvegliati e che i controlli siano rispettosi dei diritti dell’uomo pare funzionare. Nel frattempo però le leggi sull’immigrazione, al netto dell’ambigua abrogazione del reato di immigrazione clandestina, sono ancora tutte lì. Anzi l’apparente gestione meno emergenziale e più organizzata dei flussi migratori sta diventando un’arma innovativa di depistaggio delle reali condizioni di dominio e controllo delle vite e dei corpi che sono costretti a subire i migranti una volta arrivati in Europa.

Funzionali al mercato del lavoro usa e getta

2. Qui si vuole sottolineare quanto le normative nostrane ed europee continuino a creare volutamente condizioni di precarietà nei percorsi di accoglienza e regolarizzazione dei migranti. I flussi migratori che si collocano all’interno dei processi di mobilità globale diventano sempre più funzionali al mercato del lavoro, alle sue esigenze di domanda di forza-lavoro usa e getta. La capacità del sistema economico e sociale in cui siamo inseriti sta proprio nella sua ecletticità di riprodurre diversi rapporti di dominio e sottomissione alle proprie necessità di accumulazione della ricchezza. Su questo solco il management delle politiche migratorie cambia le sue sfaccettature ma rimane intatto nella sostanza. L’Italia continua ad avvalersi strumentalmente della legge Bossi-Fini per tenere insieme, a seconda delle necessità, due esigenze di fondo. Da un lato manodopera a basso costo per livellare le condizioni generali di lavoro, dall’altro mantenere la separazione, tutta politica, del lavoro migrante dal resto della forza-lavoro per evitare il più possibile il dissenso, facilitare la disgregazione dei conflitti in corso affinchè non trovino forme di coalizione e piattaforme unitarie. Tuttavia in settori centrali del capitalismo contemporaneo il meccanismo a volte si inceppa: si pensi agli scioperi dei lavoratori della logistica e della grande distribuzione organizzata ad elevata presenza di migranti.

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L’invenzione dell’emergenza umanitaria

3. Le istituzioni, ormai in concerto con i sindacati confederali e il mondo della cooperazione governativa, da almeno un decennio dichiarano per decreto l’emergenza immigrazione. Non a caso il ministro degli Interni Alfano, a ridosso della scadenza elettorale, per celare il fallimento delle politiche di accoglienza si nasconde dietro un’apparente emergenza dei flussi migratori, nonostante sia ben consapevole che si tratti di arrivi più o meno preventivabili.

In realtà l’emergenza umanitaria è tutta made in Italy. Infatti un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 18 febbraio 2013, che stabilisce la cessazione delle (fallimentari) misure umanitarie di protezione ed accoglienza temporanea per i migranti provenienti dai paesi del Nord Africa entrati in Italia tra il 1 gennaio e il 5 aprile 2011, attribuisce questa volta alle burocrazie locali del Ministero (prefetture e questure) poteri in materia di accoglienza.

Il risultato rimane sempre lo stesso, una sorta di continua ‘istituzionalizzazione della clandestinità‘ consistente nel confinare i migranti in un limbo di attesa, accompagnadoli nell’invisibilità. Non solo i centri di prima accoglienza in Sicilia, ma ormai anche i Cara (centri di accoglienza per richiedenti asilo), da quello di Crotone ai tre presenti in Puglia, sono utilizzati ben al di là della loro effettiva capienza con tempi di trattenimento che li rendono dei veri e propri centri di detenzione. Infatti agli ‘ospiti’ è precluso di uscire liberamente, si limita il contatto con l’esterno, se non per soddisfare la domanda stagionale di forza-lavoro. E’ il caso emblematico del Cara di Borgo Mezzanone nel foggiano attorno al quale è nato un secondo centro di accoglienza abusivo costituito da baracche e container che ormai funge, col beneplacito della Prefettura e delle forze di polizia, da centro di smistamento e ‘ufficio di collocamento’ gestito da caporalato e criminalità per le stagioni della raccolta del pomodoro.

In fuga dall’Italia

4. La reltà continua a raccontarci dell’altro. Gli stessi ‘ospiti’, appena possono, fuggono verso paesi che garantiscono maggiori prospettive di inclusione, dopo l’espletamento assai più rapido che in Italia, delle procedure per il riconoscimento di uno status di protezione internazionale. E’ così che si mettono in moto ulteriori flussi migratori invisibili che innescano sacche di business, traffico di persone che per sfuggire al razzismo istituzionale, all’assenza di politiche di accoglienza, ai vincoli sempre più restrittivi della libertà di circolazione, si fanno risucchiare nella ‘clandestinità’ per oltrepassare il confine. Questa volta il viaggio però parte dall’Italia (una sorta di Libia 2.0), o da qualche altro paese del Sud d’Europa, per ricongiungersi con l’affetto dei propri cari e raggiungere un altro Stato europeo che possa offrire più opportunità di vita e un minimo di welfare. Anche questo processo ancora una volta è innescato da un dispositivo legislativo, questa volta tutto europeo, ossia il Regolamento dell’Unione Europea 343/2003/CE, definito come trattato di Dublino II, per cui la domanda di protezione internazionale si debba fare nel primo paese di arrivo in Europa, dove si è identificati attraverso il rilascio delle impronte digitali, a cui segue l’iter infinito del riconoscimento. Quando il risultato della Commissione territoriale è positivo il rifugiato è obbligato a stazionare nel paese ospitante, senza poter trasferirsi in un altro, se non per un tempo massimo di tre mesi. Ed ecco che l’Italia, con le sue politiche d’accoglienza arruffate diventa una prigione a cielo aperto per persone in carne ed ossa, che necessitano di altre mete e di politiche di inclusione sociale per ricominciare daccapo una vita, ma vengono ‘istituzionalmente’ trattenute contro la loro volontà, dove diventano ‘capro espiatorio’ di processi di criminalizzazione, e vengono presentati come ‘soggetti’ privi di relazioni umane, come se non abbiano a differenza nostra l’esigenza di una vita affettiva, di una quotidianeità fatta di sentimenti, di un lavoro, di una casa per condurre un’esistenza dignitosa.

La fabbrica della paura

5. Se ce ne fosse bisogno tutto questo dimostra il totale fallimento del sistema di accoglienza italiano, che tra l’altro produce sperperi incontrollati ma ben gestiti dal mondo della cooperazione ‘bianco rossa’, dove gli stadi, le tendopoli, le periferie delle piccole e grandi città diventano dei centri di permanenza temporanea, sulla scia dei famigerati Cpt della lungimirante legge Turco-Napolitano risalente al 1998. Un’articolata politica di emarginazione e fabbricazione della paura all’interno di un sistema volutamente sfuggito di mano e lasciato alla discrezionalità amministrativa e all’improvvisazione che innerva processi di clandestinizzazione dei migranti, soprattutto tra quelli più deboli, a causa dell’assenza assoluta di politiche di regolarizzazione.

Ma le istituzioni non soddisfatte continuano ad optare per i Cie come quello previsto a Bologna, a ristrutturarne altri come quello di Milano, indifferenti alle forme di protesta e dissenso che i migranti continuano a produrre dimostrando di non essere disposti alla normalizzazione e di muoversi ben oltre i confini del razzismo istituzionale.

 

collettivo Rivoltiamo la precarietà di Bari da Comune-Info

 

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