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Se la cura al Covid è l’esercito

La decennale operazione Strade Sicure, e il suo recente impiego in funzione anti-assembramento, è la perfetta rappresentazione di come dietro al ricorrente utilizzo delle forze armate si nasconda l’incapacità della politica di fronteggiare i problemi

Nell’era della pandemia, la più grave crisi sanitaria degli ultimi cento anni, accade che ai medici si preferiscano i militari. Lo mette nero su bianco un recente report, elaborato dalla Camera dei Deputati e intitolato «Impiego delle Forze armate nella tutela dell’ordine pubblico». Così si apprende che «a seguito dell’insorgere dell’emergenza Covid-19 i militari impegnati nell’operazione Strade Sicure sono stati chiamati a svolgere, oltre ai tradizionali compiti assegnati al dispositivo, anche una serie di attività volte a fronteggiare il diffondersi del virus». Più esattamente, l’ultima funzione a loro assegnata è quella di vigilare sulla formazione di possibili assembramenti.

Nella proliferazione dei decreti leggi di questi mesi, dai nomi evocativi come Cura Italia e Rilancio, il governo ha scelto di sostenere quella che il report definisce «la più capillare e longeva operazione delle forze armate sul territorio nazionale, a fianco delle forze dell’ordine, in funzione anti criminalità e terrorismo in numerose città italiane». «Per l’esercito rappresenta, a tutt’oggi, l’impegno più oneroso in termini di uomini, mezzi e materiali – continua il report della Camera – Il contingente autorizzato fino al 31 dicembre 2020 è di oltre 7.050 militari che, attualmente, coprono 56 province».

Ma cos’è esattamente Strade Sicure? È la risposta a una domanda mai posta, al massimo mal posta, verrebbe da dire. È il 2008 quando il governo Berlusconi IV, da poco insediato, sforna il decreto legge n. 72 «recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica». Dagli anni Novanta l’Istat fa presente che a fronte di una diminuzione del numero di reati commessi è aumentata la percezione di insicurezza. Per questo motivo la politica sceglie l’ostentazione muscolare e armata, mettendo in campo l’esercito a cui affida «servizi di vigilanza a siti e obiettivi sensibili, nonché di perlustrazione e pattuglia in concorso e congiuntamente alle forze di polizia». Questo è un passaggio importante: forse non tutti lo ricordano ma all’inizio i militari, se vogliono muoversi, possono farlo solo se accompagnati. Esclusivamente dai carabinieri, per giunta, che costituiscono una delle quattro forze armate della Repubblica – insieme all’esercito, all’aeronautica e alla marina.

Resta il fatto che per la prima volta l’esercito viene impiegato in pianta stabile nelle città, dato che fino a quel momento i soldati in strada si erano visti esclusivamente in occasioni straordinarie come il brigatismo e le stragi di mafia. Vale la pena ricordare che in ogni caso i  militari, allora come ora, possono fermare, identificare e perquisire persone e mezzi ma non possono procedere all’eventuale arresto, per cui devono poi rivolgersi a polizia e carabinieri. Costituiscono un «effetto deterrente», ha detto a più riprese l’ex ministro della Difesa Ignazio La Russa, principale artefice di Strade Sicure.

Inoltre il primo «piano per l’impiego delle forze armate nel controllo del territorio» riguarda un contingente di tremila unità, con una durata massimo di sei mesi, rinnovabile per una sola volta. Una misura spot, in pratica, è diventata la norma. A forza di estensioni e di proroghe. Da quel momento, infatti, scatta quasi una gara all’utilizzo più disparato dell’esercito: a L’Aquila devastata dal terremoto del 2009, nei cantieri del Tav in Val di Susa, in Campania per sorvegliare le aree della terra dei fuochi, a Milano per l’Expo, a Roma per il Giubileo della Misericordia voluto da papa Francesco. Agli inizi del 2016 in Sicilia i militari di Strade Sicure vengono schierati a difesa della base Nrtf di Niscemi. L’arrivo dell’esercito nostrano coincide con l’accensione di lì a breve del Muos, il sistema di telecomunicazioni satellitare di proprietà della Us Navy, la marina militare statunitense. Negli anni precedenti c’erano state numerose proteste da parte del movimento No Muos, e così da quel momento i militari fanno pianta stabile nei pressi del presidio degli attivisti, identificando chiunque si avventuri per quelle strade (tranne poi non vedere nulla in occasione di incendi e intimidazioni).

Come detto, l’operazione Strade Sicure va avanti di proroga in proroga. Dal 2008 se ne contano 8 in 12 anni – una addirittura, quella relativa a Expo, dura appena tre mesi, dal 31 marzo 2015 al 30 giugno 2015. In ogni caso il fenomeno della militarizzazione della società è in atto già da tempo, come affermano numerosi studi a riguardo, e l’operazione Strade Sicure ne è uno dei segni più evidenti. Innanzitutto perché ha fatto uscire in maniera permanente i militari da quelle istituzioni totali, per dirla con Erving Goffman, che sono le caserme e, soprattutto, perché ne ha fatto interiorizzare la presenza alla cittadinanza. Tute mimetiche e mitra imbracciati alle fermate della metro, davanti ai monumenti, negli aeroporti e nelle stazioni, non suscitano più alcuna sorpresa, alcun senso di estraneità. Giusto un po’ di timore reverenziale, forse, e nulla più. Sono bastati poco più di dieci anni per accettare l’idea di una permanente guerra in casa. Di fronte alla celebre foto di Bergamo risalente allo scorso marzo, in cui decine di furgoni dell’esercito sono in fila per trasportare le bare dei «morti da Covid» verso i forni crematori di altre zone, siamo rimasti tutti certamente colpiti dallo scenario di guerra che quell’immagine evocava. E però in pochi si sono interrogati sull’opportunità di ricorrere a mezzi e uomini non di cura. Un tipico compito da Protezione Civile è stato affidato all’esercito.

Li abbiamo, i militari? Usiamoli. Fosse anche per controllare chi ha la mascherina e chi no, un compito che in teoria è prerogativa della polizia municipale, o per evitare assembramenti davanti a una scuola elementare. È quel che è accaduto a ottobre a Messina, alla scuola Pietro Donato di Paradiso, così come raccontato da Antonio Mazzeo, infaticabile giornalista antimilitarista ed ecopacifista che recentemente è stato insignito del Premio giornalistico Archivio Disarmo Colombe d’oro per la pace. Mazzeo racconta che «la prova che a Messina si sia superato ogni limite in termini di bellicizzazione della sfera pubblica educativa sta nel fatto che mentre a Palermo i controlli armati anti-assembramento delle forze dell’ordine e dei militari di Strade Sicure sono stati riservati dalla prefettura agli istituti superiori di secondo grado, il sindaco e la prefetta del capoluogo dello Stretto ritengono doveroso – senza alcuna preventiva informazione pubblica – di estenderlo pure ai bambini dai tre ai tredici anni d’età».

Pare che qualche bambino, di fronte a uomini in divisa e armati in quello che sembrava più un check-point che l’ingresso di una scuola, abbia detto «mamma, sistemiamoci bene le mascherine che altrimenti ci sparano». Una scena talmente violenta e traumatizzante da far prendere posizione anche a Angelo Fabio Costantino, Garante dell’Infanzia del Comune di Messina, che ha sottolineato come «siamo tutti preoccupati per l’aumento della curva dei contagi ma non è terrorizzando i bambini, già provati da numerose rinunce, che riusciremo a contenere il contagio».

A tifare esercito per le strade non sono solo i sindaci, anche se bisogna sottolineare che gli amministratori locali in questo senso potrebbero essere annoverati tra i capi ultrà. Non passa giorno senza che da qualche ente locale non si invochino i militari di Strade Sicure, trattati ormai alla stregua di una copertura per ogni buco amministrativo. A Brescia si indica la necessità di presidiare i siti industriali dismessi? Serve l’esercito. Come tutelare il patrimonio artistico di Cefalù, diventato parte integrante di un sito Unesco? Con l’esercito. In che modo si può garantire la sicurezza dei richiedenti asilo e dei migranti «irregolari», confinati nei Cara e nei  Cpr, a Bari come altrove? Con l’esercito. I sindaci dicono che i militari sono presenze discrete e non invasive, che servono per aumentare la percezione di sicurezza. Una questione di immagine, insomma, che poi è la cifra costituiva dell’operazione. Se però il Covid ci ha insegnato qualcosa è che di fronte a questioni essenziali come sanità e ambiente non si può rispondere con vessilli ostentativi. Cosa può fare un militare contro un virus? Sparargli?

Se in un certo senso è comprensibile che il presidente della Repubblica, anche in qualità di comandante delle forze armate, vada a pranzo con i vertici di Strade Sicure, stride invece, rispetto alla retorica di un pontefice super pacifista, il saluto che papa Francesco ha voluto riservare a onor di telecamera ai soldati che stazionano a due passi dalla Porta del Perugino lo scorso 8 dicembre. Avvenire osserva che «del resto nella lettera apostolica Patris Corde, pubblicata oggi sulla figura di san Giuseppe, Francesco ha ricordato proprio coloro che restando al proprio posto in questa pandemia hanno garantito servizi essenziali per la collettività: “Medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Dunque anche i militari sono compresi nell’elenco».

Quella che nel quotidiano cattolico è una semplice constatazione dovrebbe essere invece il nostro sbigottimento. Dobbiamo imparare a dirlo: no, i militari non sono i nostri eroi, la cura al Covid non è l’esercito. Non piace neanche ai militari questo impiego trasversale, lo considerano degradante e umiliante: il soldato tuttofare, quello buono solo a mettere le pezze alle mancanze della politica, è considerato segno distintivo della scarsa attenzione al mondo militare. Le condizioni in cui si presta il servizio, poi, sono difficili, come raccontano alcune denunce molto precise. I militari sono costretti a portare un peso di 20 chili addosso, sia d’inverno che d’estate, tra giubbotto antiproiettile, fucile e pistola; sono costretti a stare in piedi per ore e ore senza potersi sedere, e in qualsiasi condizione atmosferica. Non è un caso che i suicidi di soldati appartenenti all’operazione siano in aumento. Il 17 dicembre ricorre l’anniversario di un suicidio che nella Capitale fece molto scalpore, quello di una soldatessa che si sparò nei bagni della stazione metro Flaminio. Non era stato neanche il primo caso, solo per rimanere a Roma. Da allora, però, nulla sembra essere cambiato. Anzi, nel 2020 all’operazione Strade Sicure sono destinati 150 milioni di euro, di cui 147,50 milioni soltanto all’esercito e poco meno di 2 milioni e mezzo alle forze di polizia che, in teoria, concorrono insieme al controllo del territorio.

Allora quando si usa l’espressione «tagliare i costi della politica» bisognerebbe cominciare dalle operazioni propagandistiche come Strade Sicure, operazioni inutili e invise persino da coloro che le praticano ma capaci di costituire un’egemonia della percezione.

Andrea Turco, giornalista siciliano, scrive di ambiente e temi sociali.

da Jacobin Italia

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