Menu

La caccia al “terrorista” nell’Italia del rancore

In tanti, in Italia – appartenenti a diverse generazioni – hanno celebrato i vent’anni dalla morte di Fabrizio De Andrè, voce poetica e iconoclasta contro l’ipocrisia e il perbenismo. Qualche giorno dopo, anche da quello stesso pubblico di sinistra che si era emozionato per le canzoni dell’artista genovese, un coro sguaiato e vendicativo si è levato a chiedere “la forca” per il “terrorista” Cesare Battisti. Alcuni analisti politici (vedi, per esempio, militant-blog) hanno ricordato le strofe di una delle raccolte più famose di De Andrè, Storia di un impiegato. Il disco contiene canzoni sul Maggio francese in Italia, sul carcere, sull’inconciliabile relazione tra il prigioniero e il suo guardiano, sulla complicità di chi non vuole vedere dietro le maschere piccolo-borghesi.

“L’impiegato” di De Andrè sogna o arriva a compiere un attentato (che avrebbe dovuto colpire il Parlamento, invece finisce per far esplodere un’edicola), come conseguenza quasi inevitabile della sua riflessione critica sulla realtà che lo circonda. Fra i testi di un altro cantautore, il bolognese Francesco Guccini, c’è La locomotiva, ove si celebrano le gesta di un anarchico che fa saltare “un treno pieno di signori”: un kamikaze, si direbbe oggi. “Sta nel sogno realizzato/ sta nel mitra lucidato/nella gioia nella rabbia/ nel distruggere la gabbia…”, cantava poi Gianfranco Manfredi nel suo inno alla rivoluzione (sembra che poi lo abbia rinnegato).

E se ne potrebbero citare molte altre, di canzoni, esplicite e dirette com’era quella stagione di lotta, senza sconti e senza mediazioni. La musica restituiva il clima di quegli anni, irrapresentabili per chi è venuto dopo, ma ancora ben presenti nelle paure della borghesia, la classe che ha visto traballare il suo edificio per quasi due decenni. Ben presenti, anche, nei tanti grilli parlanti, negli avvoltoi e nei dietrologi, rimasti a banchettare sui cadaveri, o a costruirsi carriere su chi ha scontato decenni di galera.

Oggi, si può ascoltare quella musica, ripetere quelle parole, ma senza alcun nesso con il significato e con il contesto che le ha ispirate. E questa è la prima considerazione che suscita l’arresto di Cesare Battisti, una vicenda che travalica i confini italiani. Alla caduta dell’Unione Sovietica, è seguito il crollo di un intero mondo basato sulla cultura del movimento operaio e dei suoi valori, compreso quello della coerenza tra il dire e il fare. Da allora, la “leggerezza” del pensiero sembra librarsi oltre i muri, come una piuma strapazzata dal vento, orgogliosa della propria fatuità. A ben vedere, però, questa leggerezza ha risvolti di sinistra solidità. E’ la leggerezza del velo di maya: di quel velo dell’apparenza, che si è rivelato persino più spesso del muro delle “grandi ideologie”.

In Italia, il grande ciclo di lotta iniziato con il biennio rosso, del ’68-69 aveva rilanciato i valori della resistenza armata al nazifascismo nella radicalità delle culture e delle nuove spinte rivoluzionarie che animavano allora il contesto internazionale. Nel post-89, invece, la sinistra ha proseguito la corsa verso la distruzione delle radici e della memoria storica, impedendo con il pentimento e la dissociazione un bilancio critico, ma in positivo, dei limiti e delle soluzioni tentate nel grande Novecento, mentre le contraddizioni di classe si facevano sempre più laceranti.

Ricattata dalla paura della violenza politica e dal “ritorno del terrorismo”, la sinistra che negli anni ’90 si è rimessa in moto dietro il simbolo del comunismo non ha saputo traghettare nel nuovo secolo un efficace blocco sociale anticapitalista capace di agire su più terreni, fuori e dentro le istituzioni. In quegli anni, in un’America Latina stretta nella morsa del neoliberismo, si rimettevano in moto i movimenti di massa che avrebbero prodotto alleanze vittoriose e governi progressisti.

La resistenza di Cuba ha germinato nuove speranze nel Venezuela. Lì, il chavismo ha rimesso in moto un passaggio politico in grado di scompaginare i vecchi assetti politici della IV Repubblica, rilanciando in modo innovativo il socialismo. Come una palla di neve che acquista peso e velocità, quei contenuti hanno influenzato l’intero continente, rivitalizzando anche il dibattito sugli anni delle dittature latinoamericane.

La Ley contra el olvido, che il Venezuela ha approvato dopo un ampio dibattito nel paese, si può considerare il punto più avanzato, perché rivendica il diritto dei popoli alla rivolta, anche armata, e anche contro le “democrazie camuffate”. Una lotta che le organizzazioni guerrigliere hanno condotto dopo la cacciata del dittatore Marco Pérez Jimenez, nel 1958, contro le democrazie gradite a Washington nate dal Patto di Punto Fijo.

In Italia, invece, non c’è stato passaggio del testimone. L’unico “testimone” è stato quello della corona, la cui figura e filosofia continua a soffocare qualunque dibattito vero. Dopo la scomparsa del PCI, una sinistra progressivamente passata dalla difesa degli interessi delle classi popolari a quella delle grandi multinazionali o del “male minore”, è praticamente scomparsa.

Nessuno, però, all’interno di quelle micro-compagini sembra volersi interrogare su quanta parte abbiano avuto le censure e le autocensure di quel ciclo di lotta sulla possibilità che le masse oggi intruppate da Salvini venissero organizzate sotto le bandiere dell’anticapitalismo. Si è preferito il gioco di fioretto e delle “compatibilità” con il sistema, e la progressiva presa di distanza dall’inaggirabile durezza della lotta di classe.

Non c’è da stupirsi, quindi, se l’unico rimprovero proveniente da quelle sponde asfittiche sia la mancanza di “stile” di Salvini nella cattura di Battisti.. Come se i governi precedenti non avessero già pronto il loro “show” con cagnara mediatica annessa: per celebrare quel liberalismo asimmetrico che assolve i potenti e se stesso, sentendosi il migliore di tutti. Creare un demone da perseguire – il terrorista, il migrante, il “dittatore”, lo “stato-canaglia” -, serve per l’appunto a questo: a guardare da lontano le guerre provocate o avallate sentendosi sempre assolti. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete per sempre coinvolti”, cantava De Andrè, oggi ripetuto a pappagallo anche da quella “sinistra perbene”…

Dietro la parola “terrorismo” si è così potuto mettere di tutto: dal palestinese che tira una pietra al guerrigliero delle FARC o dell’ELN, all’occupante di casa o della terra. Per distinguere tra guerriglieri di estrema sinistra o stragisti di estrema destra (quelli sì perennemente impuniti), qualcuno aggiunge la specifica di “rosso” o “nero”. Ma nessuno distingue, indipendentemente dall’essere o meno d’accordo, l’inconciliabile differenza di ragioni e obiettivi degli uni e degli altri. Una tale nebulosa consente a chi detiene il predominio della forza (dunque della legalità) di perseguire chi vi si oppone in quanto “terrorista”, permette agli stati-gendarme del sistema capitalista di bombardare chi si svincola dalla loro tutela bollandoli con lo stesso appellativo.

Di sicuro, il “terrorista” Cesare Battisti non era andato in Bolivia per compiere attentati. Questo, però, non è bastato a garantirgli un iter giudiziario più consono a quanto ci si poteva aspettare da un paese progressista, che ha nei posti di governo anche degli ex guerriglieri e che ha sottoscritto nel vertice dei Paesi Non Allineati (MNOAL) il principio della “cittadinanza universale”. E ci si interroga, anche veementemente, sul perché.

Ha contato la ragion di Stato. Ha influito il contesto internazionale, assai distante dai tempi in cui un Morales umiliato e preso in ostaggio su indicazione degli Usa perché si pensava potesse nascondere nel suo aereo Snowden, la fonte del Datagate, veniva difeso dagli altri presidenti progressisti, diventando il simbolo del nuovo rinascimento latinoamericano. Oggi il clima è cambiato. A premere ai confini, c’è il Brasile governato dal fascista Bolsonaro, per cui gli indigeni valgono meno di niente.

Inoltre, nel frattempo l’Italia ha fatto e sta facendo scuola, esporta la sua “filosofia” giuridica anche in Sudamerica nella forma dell’antimafia, con tanto di legislazione premiale sui pentiti e sulle dissociazioni: il lawfare. Questa Italia non diffonde certo l’idea che alla base dei comportamenti criminali vi sia un deficit di diritti sociali, visto che non prova a colmarlo in casa sua. Non diffonde certo chiarezza sui termini delle relazioni internazionali, essendo un paese subalterno alla Troika e alla NATO (oltre 100 basi militari sul territorio).

Non può farlo perché, a differenza di quanto è avvenuto – con accenti diversi – nei paesi dove ci sono stati conflitti armati, non c’è stato un bilancio, un’amnistia, un voltar pagina, né tantomeno ex guerriglieri che sono andati al governo o sono diventati presidenti della repubblica (Fidel e Raul Castro, Daniel Ortega, Sanchez Ceren, Pepe Mujica, Dilma Rousseff…). E questa è la seconda considerazione che può emergere dalla vicenda Battisti.

In Italia ci sono state condanne pesanti – oltre 5.000 prigionieri politici – centinaia di ergastoli, torture, isolamento e disumane forme punitive che ancora persistono, come il 41 bis. La lotta armata delle Brigate Rosse, a cui si sono aggiunti numerosi gruppi come quello in cui ha militato Battisti, è durata dal 1970 al 1988 e, con qualche strascico, anche dopo: quasi vent’anni. Un fatto storico di particolare significato in un paese non governato da una dittatura, che meriterebbe di essere indagato alla luce delle particolari caratteristiche della società italiana di quel periodo e del contesto internazionale. Invece, si è consegnata la storia ai tribunali e i militanti alle galere, facendone dei mostri per tutte le stagioni.

Certo, in un paese come la Bolivia, che ha un marxista come Alvaro Garcia Linera alla vicepresidenza, presente in tutti i dibattiti politici del continente, i funzionari boliviani avrebbero potuto conoscere la storia della lotta armata e all’occorrenza proteggere Battisti. Ma il problema riguarda prima di tutto la sinistra italiana, che ha evitato di farlo per tutti questi anni, cavandosela con la categoria di “terrorista” e con la teoria del complotto.

Quasi vent’anni di lotta armata si sono svolti nel paese che aveva il PCI più forte d’Europa ormai avviato al compromesso storico con le forze moderate. Un ciclo di grande e diffusa radicalità, incubato da un biennio di lotte studentesche e operaie a cui il potere ha risposto con le stragi e con la strategia della tensione. Ai tempi in cui si cercava di costruire “uno, cento, mille Vietnam” anche in Italia la via da perseguire è stata per molti quella della rivoluzione.

Di quel tentativo, però, anche in America Latina si sa poco. C’erano e ci sono marxisti ortodossi o basisti inveterati che liquidano la lotta armata come una scelta sbagliata, anche in alcuni paesi del loro continente. In Italia – dicono – non c’era una dittatura. E’ vero, la nostra situazione era più simile a quella dell’Uruguay (e anche del Venezuela). Ma quando è lecito avanzare, quando si deve osare?

A cento anni dall’assassinio di Rosa Luxemburg la questione della rottura rivoluzionaria è ancora un dibattito aperto: almeno in America Latina, dove gran parte dei movimenti popolari ha tratto più di una lezione dalla caduta del campo socialista e dal dilagare del neoliberismo. In Italia, invece, una sinistra incapace di riflettere anche in quella chiave sulla propria scomparsa, da una parte dice che la guerriglia non ha contato niente, dall’altra la ritiene responsabile di averla “distrutta”.

Per il resto, impera la “verità dei post”. Ad abbaiare contro “il terrorista” sono personaggi che non hanno mai pagato nessun prezzo, il cui unico atto eroico è stato quello di comparire dietro qualche noto politico, e che se mettessero piede in un carcere comincerebbero a strillare come topi in gabbia.

Per essere “leggeri e flessibili”, è stato necessario liberarsi del bagaglio novecentesco: delle ragioni e della memoria del conflitto. Si è perso il nesso tra cause ed effetti storicamente determinati. E perciò, a applaudire per l’arresto di Battisti – un uomo di 64 anni accusato di fatti politici che risalgono a quasi quarant’anni fa – sono stati anche giovani rappresentanti di quella sinistra istituzionale, teoricamente a sinistra del PD. Con Battisti in galera, questa sinistra praticamente scomparsa dalla scena politica italiana si sente più giusta e vincente?

Questa caccia al “terrorista”, in fondo, ha messo in evidenza la vera natura dello stato borghese. Così si sarebbe detto una volta. Che non si possa andare oltre, che si debba razzolare tutti nel recinto, che non ci siano alternative ma solo palliativi, è un assunto condiviso. I più accaniti sostenitori delle carceri speciali, delle leggi speciali, dell’emergenza infinita e della tortura bianca che continua con il 41 bis non sono stati forse gli eredi del PCI berlingueriano? Quella filosofia dell’”emergenza” continua nelle logiche securitarie e nella guerra contro i poveri di chi preferisce salvare le banche piuttosto che aumentare i salari.

E da quell’assenza di riferimenti alla storia e al contesto deriva la personalizzazione del “cattivo” Battisti: come se si trattasse di un volgare assassino e non del militante di un gruppo che in quel contesto ha portato avanti una delle linee politiche esistenti, nel pieno di una temperie politico culturale in cui venivano prese alla lettera le parole di Brecht: “Che cos’è l’effrazione di una banca di fronte alla fondazione di una banca”?

E si fa un gran parlare di vittime. Vittime? Una parola che, allora, non serviva da scudo: c’era un conflitto, un conflitto di classe, che stava assumendo i caratteri della guerra civile. Attaccavi lo Stato, e potevi essere ammazzato. Il vero rispetto per il nemico era quello: riconoscersi come due entità distinte e contrapposte nello scontro, non il pianto in diretta che oggi fa spettacolo e che esorcizza una realtà ben più feroce e senza sbocchi. Si trova, a volte, più sensatezza dal lato del nemico che conosce la guerra, che dal lato di chi sa bene come siano andate le cose, ma preferisce fare affari sulla dietrologia e sul “lawfare”.

A protestare contro l’espulsione di Battisti, sono rimasti in pochi. Si è anche chiuso il ciclo del garantismo alla francese, caratterizzato dalla presenza degli intellettuali eredi di una cultura politica assai diversa da quella nostrana. I nostri “chierici”, invece, se la sono data a gambe alle prime avvisaglie, allineandosi alla “ragion di stato” come da tradizione. In pochissimi e con motivazioni diverse, quelli che vorrebbero opporre alla canea giustizialista un dibattito sulle conseguenze che l’emergenza e le filosofie securitarie hanno sulle lotte sociali odierne.

Qualcosa, però, sembra mettersi in moto. Diverse organizzazioni popolari si pongono fuori dal coro. Alcuni striscioni sono comparsi sui muri di Roma firmati dalla rete di giovani Noi Restiamo. Davanti al Ministero della Giustizia, è comparso un quadro che raffigura i responsabili della cattura di Battisti come due tronfi inquisitori, che gongolano di fronte a una gogna. Di fianco, una scritta che dice: “Fuori i compagni dalle galere. Amnistia e libertà per gli anni ’70”.

Martedi 22 gennaio, a Roma ore 18, ai magazzini popolari di Casal Bertone (via Baldassarre Orero, 61), dibattito dal titolo: “Amnistia subito!”. Partecipano Sergio Cararo, Davide Steccanella, Caterina Calia, Marco Lucentini, Francesco Romeo, Arturo Salerni, Nunzio D’Erme, Paolo Persichetti

Geraldina Colotti

articolo scritto per Resumen Latinoamericano

Leave a Comment

You may use these HTML tags and attributes: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <s> <strike> <strong>