Palla in rete! Saïd Piramoun fa goal nella finale del campionato di beach soccer degli Emirati a Dubai. La nazionale iraniana vince 2-1 contro il Brasile. Un attimo dopo aver segnato, il giocatore iraniano alza la mano e, con le dita, fa segno di tagliarsi i capelli.

Quel gesto, a sostegno delle proteste, viene ripreso dai telefonini e diventa virale. La nazionale iraniana di beach soccer ha già attirato l’attenzione delle autorità di Teheran per non aver cantato l’inno nazionale, tant’è che la direzione della televisione di Stato iraniana ha interrotto le trasmissioni in diretta. Poi, quando la squadra riceve la coppa, i giocatori restano a braccia conserte, senza festeggiare la vittoria.

IL CAMPIONATO MONDIALE di calcio 2022 si avvicina e, approfittando dei riflettori accesi, i diritti delle iraniane saranno probabilmente in primo piano. In Iran le donne amano il calcio, ma nel 1981 l’ayatollah Khomeini vietò loro di entrare allo stadio e impose una serie di altre misure che limitarono i loro diritti. Le iraniane non si scoraggiarono: come racconta Jafar Panahi nel suo lungometraggio Offside, tante si travestono da maschi per assistere alle partite.

È dalla fine degli anni Novanta che il calcio è pretesto per parlare di politica. È in quel periodo che la nazionale iraniana ottiene i primi successi nell’Asian Cup e, il 21 giugno 1998, contro gli Stati uniti nei Mondiali di Francia. Ma bisognerà attendere la metà degli anni Duemila prima che le iraniane si rivolgano alle federazioni sportive internazionali, reclamando il diritto di entrare allo stadio.

Il gesto coraggioso di Saïd Piramoun non è passato inosservato. «Questa partita e questa vittoria potranno essere dimenticate, ma questo gesto passerà alla Storia. L’onore che avete mostrato è più importante del campionato». Così ha twittato il vecchio giocatore iraniano Mehrdad Poouladi.

Di pari passo Ali Karimi, già nella nazionale iraniana e poi stella del Bayern Monaco, ha postato il video di Piramoun e la scritta: «Una nazionale iraniana che dimostra di avere onore». Di certo, la Federazione nazionale di calcio non gliela farà passare liscia perché, si legge in un comunicato, «il regolamento impone di evitare un qualsiasi comportamento politico sul terreno di gioco». Da parte loro, gli Emirati arabi non hanno preso alcuna misura nei confronti degli spettatori che dopo la partita, sugli spalti, hanno scandito slogan ostili alla Repubblica islamica.

IN CONTEMPORANEA alle manifestazioni di solidarietà verso i manifestanti, continua la repressione di regime. Durante le proteste di venerdì scorso la 35enne Nasrin Ghadri, dottoranda in filosofia, è stata picchiata sulla testa con un manganello, è entrata in coma ed è morta. Come la 22enne Mahsa Amini, che il 13 settembre era stata arrestata dalla polizia morale ed era deceduta dopo tre giorni di coma. Nasrin e Mahsa erano entrambe cittadine iraniane di etnia curda. Mahsa era di Saghez, Nasrin era originaria di Marivan.

Entrambe le località sono nella provincia iraniana del Kurdistan. Come per Mahsa, anche nel caso di Nasrin i manifestanti hanno accusato il governo di aver forzato la sepoltura della donna in fretta e furia e di aver costretto il padre ad annunciare che la causa della morte della figlia era legata a una «malattia» o una «intossicazione».

Indignati da questo ennesimo omicidio, i manifestanti nella città curda di Marivan sono scesi in piazza e hanno bloccato alcune strade. Anche questa volta le forze di sicurezza hanno sparato sui dimostranti, e diverse persone sono state ferite.

Intanto, sono ventisei gli stranieri arrestati per il loro presunto coinvolgimento nell’attentato terroristico, rivendicato dall’Isis, dello scorso 26 ottobre nel mausoleo Shah Cheragh di Shiraz (13 morti). I terroristi avevano colpito in occasione del quarantesimo giorno di commemorazione della morte di Mahsa Amini e, per questo, il presidente iraniano Ebrahim Raisi lo aveva collegato alle proteste.

SECONDO IL COMUNICATO del ministero dell’intelligence, i ventisei terroristi takfiri (un termine che si riferisce ai gruppi radicali sunniti) sarebbero originari di Azerbaigian, Tagikistan e Afghanistan. Sarebbero stati arrestati nelle province del Fars, Teheran, Alborz, Kerman, Qom e Razavi, nonché lungo la frontiera orientale dell’Iran con Pakistan e Afghanistan.

L’attentatore Sobhan Komrouni era morto per le ferite riportate durante l’arresto e, secondo le autorità iraniane, si sarebbe trattato di un cittadino tagiko noto con il nome di battaglia di Abu Aisha. A occuparsi del coordinamento dell’attentato sarebbe stato un cittadino della Repubblica dell’Azerbaigian entrato in Iran con un volo da Baku. Anche lui è stato arrestato.

da il manifesto