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L’Egitto rinnova, per altri tre mesi, lo stato d’emergenza

Nessuno ci ha fatto caso. Come fosse un dettaglio insignificante. Ma a guardarlo bene provoca un torcicollo emotivo. Nelle ore in cui il presidente del consiglio Giuseppe Conte, ieri al Cairo, discuteva amabilmente con il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi della intricata matassa libica, i due terzi del parlamento locale (controllato dal partito del presidente) votavano per l’undicesima volta il rinnovo, per altri tre mesi, dello stato d’emergenza. Che significa? Ce lo spiega Amnesty international: «Le disposizioni d’emergenza conferiscono ampi poteri di limitare la libertà di movimento, svolgere sorveglianza in violazione del diritto alla riservatezza e sottoporre la stampa alla censura preventiva».

Le libertà personali annacquate e sotto scacco per «assicurare le misure necessarie» a esercito e polizia per «fronteggiare i pericoli» e ostacolare «il finanziamento al terrorismo» ha scritto al-Sisi in una nota. Chiunque violerà le disposizioni previste dallo stato d’emergenza «sarà punito col carcere».

Lo stato d’emergenza è scattato per la prima volta sotto il regime di al-Sisi nell’ aprile 2017, dopo il triplice attacco terroristico della Domenica delle palme, quando furono colpite le chiese a Tanta e Alessandria e dove persero la vita 47 persone e 120 furono ferite. La Costituzione lo autorizzerebbe una sola volta. Ma per 30 anni è stato applicato ininterrottamente sotto la presidenza di Hosni Mubarak.

Le conseguenze sono note. Dal settembre del 2019, ad esempio, oltre 4mila persone sono state arrestate. Nella rete sono finiti giornalisti, avvocati, esponenti politici di primo piano, ma anche gente comune prelevata arbitrariamente per strada, compresi circa un centinaio di minorenni. La più vasta ondata di arresti da quando al-Sisi è al potere. Molti sono stati liberati, ma la maggior parte delle persone resta indagata con accuse pesanti. Diverse decine di persone, inoltre, risultano ancora scomparse.

Ed essere detenuti nei penitenziari egiziani è un’esperienze da non consigliare. Secondo un rapportopubblicato dalla Arab Organisation for Human Rights, con sede nel Regno Unito, nel solo 2018 sono decedute 717 persone nei vari centri di detenzione egiziani. Tra queste, 122 a causa delle torture subite, 480 per negligenza medica e altre 32 per sovraffollamento e pessime condizioni.

Perché la coincidenza della visita del nostro presidente del Consiglio con il voto del parlamento non è un dettaglio insignificante? Perché la situazione emergenziale è stato lo strumento per le autorità egiziane per poter prima sequestrare Giulio Regeni poi torturarlo e infine ucciderlo, tra il gennaio e il febbraio 2016.

Il ricercatore italiano oggi, 15 gennaio, avrebbe compiuto 32 anni e sua mamma Paola Deffendi, ha rilanciato su twitter l’hashtag  #veritàegiustiziapergiulioregeni, per poi scrivere sul suo profilo facebook: «Ci sono persone che non rispettano la vita degli altri…non rispettano i diritti umani…e tu (Giulio ndr) lo sai molto bene, purtroppo. La mamma».

Conte si è premurato di precisare che con al-Sisi «abbiamo parlato del caso. Al Cairo ci sono carabinieri e polizia e si fermeranno anche il 15 gennaio. È il segnale positivo che sono ripresi i contatti tra gli investigatori, confidiamo che presto riprendano anche i contatti tra le procure. L’importante è che la collaborazione riprenda, al Sisi mi ha rassicurato che la collaborazione da parte loro sarà massima».

Parole che si ripetono in modo inesausto da 4 anni. Senza frutti concreti.

È evidente, infatti, che neppure Conte ha intenzione di mettere in crisi i rapporti economici con Il Cairo per la morte di Giulio. Troppi gli interessi, compresi quelli petroliferi e armieri. E la verità sotto il tappeto, che pochi vogliono vedere, è che l’Italia è stato il primo paese occidentale a legittimare il governo liberticida del generale.

Dopo il colpo di stato del 2013, al-Sisi (che si presentò, in modo del tutto non convenzionale, come candidato civile in uniforme militare in un discorso trasmesso dalla Tv di stato, il 26 marzo 2014) stravinse il voto del 26 maggio. Tre mesi dopo arrivò al Cairo un sorridente Matteo Renzi, che definì al- Sisi il bastione contro il terrorismo. E, se non fosse sufficientemente chiara la stima tra i due, l’ex presidente del consiglio invitò in novembre a Roma il despota egiziano.

La crisi diplomatica con l’Egitto per la morte di Giulio durò poco più di un anno: ritirato, nel maggio 2016, l’ambasciatore Maurizio Massari per la scarsa collaborazione delle autorità egiziane, il vuoto politico fu riempito il 13 settembre 2017 quando arrivò al Cairo il neo ambasciatore Giampaolo Cantini, raccontato dai media egiziani come la svolta che segna la fine della “crisi Regeni”.

Crisi finta. L’Egitto dello stato d’emergenza e dell’assenza di libertà è un partner affidabile per l’Italietta di oggi.

Gianni Ballarini per NIGRIZIA

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