La guerra contro i migranti che dicono “basta!” è in realtà la guerra del capitalismo. Da quando è cominciata la politica trumpista delle esplusioni, molti si sono chiusi in casa per paura di essere scoperti, arrestati ed espulsi. Ora scendono in piazza.
di Raúl Zibechi da Comune-Info
La caccia ai migranti da parte del governo statunitense, che li insegue persino per le strade, entra nelle loro case e ne abusa, è un’ulteriore prova che le democrazie hanno cessato di esistere, persino nel Nord del mondo, dove sono nate. La vera novità sono le risposte date sia dai migranti stessi che da molti figli di migranti nati negli Stati Uniti e senza problemi legali.
È possibile che i migranti stiano diventando come i cristiani dell’antica Roma. Furono perseguitati, ma ebbero un ruolo di primo piano nella trasformazione e anche nella caduta dell’impero, rifiutandosi di partecipare ai riti ufficiali. Oggi non è più lo stesso, ma potrebbe essere un sintomo della crescente decomposizione della “nazione essenziale”.
Chiamiamo le cose con il loro nome: questa è una guerra del capitalismo. Contro i migranti, contro le persone di colore, contro i popoli indigeni e neri, contro chi è diverso. Sebbene sia condotta in nome della democrazia, è totalitarismo. Il filosofo Giorgio Agamben ha definito il totalitarismo moderno come
“l’instaurazione, mediante lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini che per qualche ragione non risultano integrabili nel sistema politico” (Lo stato d’eccezione, Bollati).
Certo, questa non è una guerra contro tutti i migranti (non è mai “contro tutti”), ma contro quella parte di giovani che dice “basta!”, che non si arrende, che si ribella e resiste. Ciò che è notevole è che siano sempre più numerosi e che abbiano una consapevolezza più chiara che la loro situazione non è dovuta a un governo o a un governatore, ma è il risultato di un sistema globale chiamato capitalismo che li attacca in California, in Messico, in Europa, a Wall Street o ovunque si trovino.
Le proteste in corso riecheggiano quelle di migliaia di giovani messe in scena nel 2024 a sostegno del popolo palestinese, una solidarietà che continua e tende a crescere in questo periodo. I protagonisti sono le stesse giovani generazioni che non hanno futuro nel sistema. Ma sono anche legate alla lunga storia di lotte nello stato della California, sia tra i migranti che tra la popolazione nera, scoppiate quando una giuria assolse gli agenti di polizia che picchiarono Rodney King nel 1991, causando la morte di oltre cinquanta persone.
Ora migranti irregolari, figli di migranti legali e molti bianchi si uniscono, esprimendo la rabbia accumulata per decenni di politiche neoliberiste che avvantaggiano solo i ricchi. Le proteste in corso espongono la dura realtà vissuta da milioni di persone negli Stati Uniti.
In primo luogo, rivelano il vero volto del sistema, che ha mobilitato 2.000 soldati della Guardia Nazionale e poi 700 Marines per contenere le proteste, sebbene il governatore dica che ora i membri della Guardia Nazionale siano 4.000. La brutalità degli ufficiali in uniforme pesantemente armati, l’uso abbondante di gas lacrimogeni e granate stordenti, dimostrano in cosa consiste la tanto decantata democrazia della superpotenza. La militarizzazione della risposta per contenere la popolazione dimostra che ci sono sempre meno differenze tra il Nord e il Sud del mondo.
In secondo luogo, le proteste hanno aperto una frattura istituzionale, poiché il governatore della California e il sindaco di Los Angeles hanno respinto la militarizzazione. È normale che le proteste dal basso aprano crepe nelle istituzioni, soprattutto in uno stato come la California, che si esprime chiaramente contro Trump. Vedremo quanto profonda si spingerà la frattura istituzionale, anche se possiamo aspettarci poco. La cosa più importante, tuttavia, è che i migranti hanno perso la paura. Da quando è iniziata la politica trumpista delle espulsioni, molti si sono chiusi in casa per paura di essere scoperti, arrestati ed espulsi. Ora non solo scendono in piazza, ma non hanno paura di affrontare le forze armate del Paese più potente del mondo.
Qualcosa è cambiato, e questo cambiamento ci riempie di speranza nel momento più buio del dominio capitalista. Per coloro che auspicano la caduta dell’imperialismo e del capitalismo, questo è un momento importante. Non perché crediamo che la sua caduta avverrà da un giorno all’altro. Sappiamo di essere testimoni di un processo storico di aspre lotte tra chi sta in alto e chi sta in basso, che durerà decenni, sarà prolungato e tortuoso.
Ciò che ci incoraggia è constatare che le rivolte non sono state messe a tacere, che ciò che sta accadendo a Gaza non rimarrà impunito e, soprattutto, che le lotte più diverse si stanno collegando. Infine, per coloro che credono che la caduta di un impero avvenga sia dall’interno che dall’esterno, le mobilitazioni in California e in altri stati ci mostrano che ci troviamo di fronte a una possibilità senza precedenti: la continuazione delle lotte negli Stati Uniti, visto che fino ad ora ci sono state grandi fiammate che si sono spente in poche settimane. A quanto pare, ci troviamo di fronte a una nuova realtà.
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