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Il blocco noir

Come i manuali di formazione dei reparti mobili, i romanzi sulla polizia usciti dopo Genova 2001 rimuovono la natura politica dei conflitti: descrivono una società governata da logiche inconoscibili, in cui la repressione è necessaria

Nel ricco panorama del noir italiano, non sono molti i romanzi che vedono come protagonisti gli operatori dei reparti mobili. Le poche opere di finzione che danno voce ai «celerini» sono state pubblicate in un arco di tempo ristretto e piuttosto significativo. Acab. All cops are bastards, di Carlo Bonini, e Genova sembrava d’oro e d’argento, di Giacomo Gensini, escono nel 2009, a cavallo tra le sentenze di primo e di secondo grado per le violenze avvenute la sera del 21 luglio del 2001 all’interno della scuola Diaz, a conclusione del G8 di Genova. A viso coperto, di Riccardo Gazzaniga, vince il premio Calvino nel 2012, poco prima che venga emessa la sentenza di terzo grado, per poi comparire nelle librerie l’anno successivo.

Nei primi due romanzi, gli eventi che hanno segnato le giornate del vertice mondiale sono al centro della narrazione. Un ruolo di rilievo è attribuito a Michelangelo Fournier, alla guida del VII nucleo sperimentale del reparto mobile di Roma, attivo nell’irruzione alla Diaz. L’allora vicequestore aggiunto, che compare con il suo vero nome in Acab e con quello di François in Genova sembrava d’oro e d’argento, è un personaggio chiave a livello giudiziario: nel 2007, a colloquio con gli inquirenti, ha definito quanto accaduto all’interno dell’istituto scolastico una «macelleria messicana». Nel terzo romanzo, ambientato a Genova e popolato da ultrà e operatori del reparto mobile locale, dislocato nella caserma di Bolzaneto, la vicenda del G8 aleggia sullo sfondo, ed è richiamata esplicitamente in diversi passaggi.

Due dei tre libri sono scritti da persone che hanno esperienza diretta della celere: Riccardo Gazzaniga, al momento della pubblicazione, era sovrintendente nel reparto mobile genovese, mentre Giacomo Gensini, qualificato come «ex poliziotto» nella quarta di copertina, ha fatto il militare in polizia prestando servizio come celerino. Carlo Bonini, autore del terzo libro, è invece un giornalista che negli anni, oltre a seguire l’operato delle forze dell’ordine in diversi ambiti – tra cui il conflitto No Tav –, ha avuto accesso a informazioni piuttosto riservate, come le pagine di un blog presente nel portale intranet della polizia di stato, DoppiaVela.

Frutto non soltanto della fantasia ma anche dell’esperienza diretta dei loro autori, i tre romanzi – in parte diversi sul piano stilistico ma simili nell’uso di cliché e retoriche – si presentano come opere di finzione che ambiscono a essere realistiche. Mirano cioè a riprodurre fedelmente la quotidianità del lavoro della celere e i problemi con cui chi ne fa parte si deve confrontare, partendo dall’idea che adottare uno sguardo dal basso sia la modalità privilegiata per comprendere certe dinamiche e gli assunti, etici e antropologici, che ne costituiscono il presupposto. Più che come oggetti letterari, sono interessanti in quanto contengono visioni dell’ordine, assunti valoriali, rappresentazioni di gruppi sociali e descrizioni di pratiche operative. Seppur in maniera indiretta, consentono di gettare uno sguardo sul sapere di polizia, ossia sull’insieme di categorie, cognizioni e rappresentazioni tramite cui gli operatori dei reparti mobili agiscono quotidianamente. Alcuni dei discorsi che veicolano, ad esempio, sono per molti versi simili – anche se espressi con un linguaggio più esplicito ed estremizzato – a quelli che si trovano all’interno dei manuali per la formazione del personale. Altri se ne discostano volutamente, con l’intento di marcare la differenza tra la teoria dell’ordine pubblico e la sua pratica concreta.

La vera protagonista dei tre romanzi è la violenza. La lettura che ne viene fornita è però del tutto schiacciata sul piano antropologico: gli atti «violenti» commessi nelle piazze e negli stadi sono considerati il frutto di impulsi atavici e ricondotti a una natura umana dipinta come intrinsecamente aggressiva, preesistente a qualunque forma di associazione e resistente ai cambiamenti apportati dalla socializzazione. In un quadro del genere, i celerini appaiono simili ai manifestanti e agli ultrà. Si rispecchiano gli uni negli altri in quanto condividono la stessa sostanza antropologica. Come sottolineato da Bonini in occasione di un dibattito pubblico, gli operatori dei reparti mobili si ritrovano nei loro antagonisti e sono tormentati da questa verità: «lo sbirro è sporco della stessa sporcizia di cui siamo sporchi noi, mangia l’ipocrisia di cui sono fatti non solo i rapporti di potere ma anche i rapporti umani».

I celerini, dunque, assorbono le pulsioni e gli atteggiamenti delle persone con cui si relazionano. La metafora del contagio – usata e abusata in molti ambiti, come ha ricordato da poco Franco Palazzi, e al centro di un importante romanzo di Walter Siti pubblicato nel 2008 – gioca un ruolo di primo piano. Nel libro di Bonini, un dialogo tra Fournier e suo zio Antonio, un anziano e aristocratico signore napoletano, come lui convintamente di destra, è piuttosto significativo al riguardo:

Lo sai chi sta soffiando sulla rivolta, o no? Lo hai visto, giusto? Sono neri come te e me, Michelangelo. Plebei di destra, dirai tu. Ma in corpo hanno la tua stessa rabbia borghese. Quegli ultras e quella gente di Pianura stanno incazzati come te. Come i tuoi uomini. Siete la stessa cosa. Il contagio è avvenuto. Parlate, parliamo la stessa lingua. Stessa lingua, stessi desideri, stesso egoismo. Stesso odio.

La società dipinta dai tre romanzi è un organismo malato, affetto da rabbia e aggressività, patologie che contagiano anche chi dovrebbe combatterle. A diffondere il «morbo» non sono soltanto movimenti o soggetti di destra, ma la marginalità e il conflitto in quanto tali:

Fatti qualche domanda, Michelangelo. Oggi sei qui a dare qualche calcio in culo a chi non vuole riaprire la discarica. La domenica sei allo stadio a non farti linciare da ragazzini gonfi di veleno. Durante la settimana ripulisci alla bisogna i marciapiedi da puttane e clandestini, giusto? Poi, magari, ci scappa qualche centro sociale, qualche scuola occupata. Assorbi ogni giorno una dose omeopatica di rabbia. Magari in attesa che qualcuno, di tanto in tanto, ti liberi della museruola.

Adottando una metafora organicistica che attribuisce alla protesta i tratti di un attacco al corpo sociale, l’odio diventa un significante vago che veicola significati tra loro diversi e disparati. A scomparire dietro immagini del genere sono le ragioni di chi «odia» e le loro specificità. Al punto che diventa impossibile praticare una lettura politica del conflitto. La concezione pessimistica dell’umanità esibita dai tre romanzi riconduce infatti le azioni dei manifestanti e degli ultrà a istinti primordiali, non alla credenza in determinati valori.

Un agire definito e delimitato in questo modo non può mai essere veramente politico, anche quando si autodefinisce o appare come tale. In A viso coperto, la spoliticizzazione della violenza è esemplificata in maniera speculare da due personaggi che si trovano in posizioni strutturalmente contrapposte: Nicola, il poliziotto alter-ego dell’autore, e Lollo, il tifoso di sinistra con un passato nei centri sociali e «reduce» del G8:

Avrebbe preferito restarsene a casa a leggere o scrivere. Magari fare l’amore. Però. Però quando era lì, in piazza o allo stadio, davanti a gente con il viso coperto da sciarpe o passamontagna, non volti, solo mani che brandivano cinghie, lanciavano oggetti, o impugnavano bastoni, quando era lì cercava di tener fermi i colleghi e farli resistere alle spinte, alle bottigliate, alle bombe. Aspettando solo che passasse, perché era così che andava, passava sempre prima o poi, come un’onda che ti schiaccia poi arretra. Quando era lì qualcosa dentro si svegliava. Era il figlio illegittimo di istinti primordiali, era un fantasma richiamato alla vita dalla paura, dalla rabbia, dalla confusione. Dall’istinto di sopravvivenza. Era una voce che ti faceva reagire come non avresti mai detto. Così poteva essere che urlassi, che volessi andare in mezzo alla mischia da solo o scappar via dimenticandoti dei colleghi. Potevano capitare tante cose, ma tu sentivi chiara quella voce. Un bravo poliziotto imparava a dominarla, magari a sfruttarla per non cedere alla paura. Qualcun altro ascoltava quella sirena, fracassandosi contro gli scogli.

Forse una parte di lui credeva davvero nell’aspetto «politico» della cosa, nella difesa del diritto a tifare senza essere schedati, controllati, identificati. Forse una parte di lui credeva in quella battaglia ideologica come aveva creduto nel sogno dei no-global. Si batteva per difendere la libertà, che fosse in un centro sociale o in una curva. Ma un’altra parte di Lollo, più buia, parlava una lingua che Clara non poteva capire. Era la parte nascosta dietro il suo sorriso aperto e i discorsi nobili. La parte che chiamava la violenza senza sapere perché. Solo se eri stato nella mischia, in mezzo al fumo e alle bottiglie. Solo se avevi visto gli occhi dell’uomo che ti fronteggiava con una cinghia o un manganello. Solo se avevi lottato per non cedergli neppure un centimetro. Ecco, solo allora potevi capire ciò che nessun altro avrebbe capito. Che fare gli scontri era troppo bello.

I tre romanzi compiono un’operazione simile a quella portata avanti nei manuali per la formazione dei reparti mobili. Qui le soggettività con cui la polizia si confronta e scontra sono descritte facendo ricorso a due strategie discorsive gemelle: la criminalizzazione e la derazionalizzazione. Da prospettive diverse, entrambe hanno l’obiettivo di depoliticizzare l’agire di individui e gruppi: lo svuotano di un contenuto genuinamente politico nel momento in cui, facendo esplicito riferimento alle teorie delle folle tardo-ottocentesche di Le Bon e Sighele, lo descrivono ed etichettano come predatorio o, in alternativa, come la risultante di un contagio emotivo: le persone sono preda di impulsi incontrollabili che derivano dal contatto con la massa e dall’imitazione meccanica dei suoi comportamenti.

Oltre a depoliticizzarlo, i tre romanzi esprimono una visione antipolitica del conflitto. I celerini e i loro avversari non si contrappongono in quanto rivestono ruoli diversi nella struttura sociale e, di conseguenza, sono portatori di interessi differenti e inconciliabili. Piuttosto, occupano una posizione ugualmente subordinata all’interno di un mondo governato da forze anonime o – quando visibili – del tutto incontrollabili. Sono pedine dello stesso gioco, a cui non possono in alcun modo partecipare. Come sottolineato da Dario, il poliziotto protagonista di Genova sembrava d’oro e d’argento:

I potenti e le lobby che li sostenevano si vedevano nella città dei Doria per decidere le loro quote di mondo. Niente di più. Noi e i manifestanti non avevamo alcun ruolo in tutto questo, non eravamo influenti, se non a un livello infinitesimale.

All’interno di una società dipinta come un teatro bellico senza regole, governata da logiche inconoscibili, la repressione è necessaria. A chi la esercita legittimamente deve essere fornito un pieno riconoscimento.

Su questo tema, i romanzi si distaccano dai manuali, compiendo un vero e proprio elogio della «maniera forte». L’uso della forza non è contenuto e disciplinato ma è esaltato, in tutta la sua discrezionalità, come parte del lavoro quotidiano della celere. Immaginare la professionalità del celerino come se fosse separabile dalla violenza sarebbe illusorio e ipocrita. Come riconosce Nicola, poliziotto protagonista di A viso coperto e alter-ego dell’autore, mentre ricorda un dialogo con la sua ex compagna:

«Tu vai a picchiare la gente» diceva poi, e Nicola non era mai riuscito a farle cambiare idea. Del resto lei amava sparare sentenze senza concedere appelli. Lui aveva provato a illudersi di essere un «professionista della sicurezza», come ripetevano al ministero. Di «servire e proteggere», come dicevano gli americani. Ma con il tempo si era convinto che Eleonora avesse ragione: i celerini, in fin dei conti, erano quelli che picchiavano la gente. Probabilmente si trattava solo di accettarlo e smetterla con le seghe mentali. O di scriverlo in un libro.

All’ipocrisia di chi contesta le istituzioni si contrappone la «ruvida sincerità» dei celerini, esaltata dal protagonista di Genova sembrava d’oro e d’argento:

Una società individualizzata non può essere non violenta. L’individuo ha una grande considerazione di se stesso. Alla fine sopporta la violenza solo in astratto e solo se riguarda gli altri, meglio se ipotetici, ma ci mette poco a perdere la testa se riguarda lui. Non ti tiro un sasso per la fame nel mondo e le politiche neoliberiste, te lo tiro se mi dai una manganellata. Il mio dolore fisico insomma, l’offesa a me stesso, è molto più forte di qualsiasi guerra o dramma. Il bene comune, il messaggio, tutto passa in secondo piano. Via Tolemaide è una conseguenza naturale. Noi, se non altro, ci risparmiamo l’ipocrisia di un sorriso falso. Noi non siamo violenti. Noi siamo quello che siamo.

In uno scenario di odio generalizzato e individualismo sfrenato, la polizia svolge una funzione indispensabile: è un ammortizzatore sociale. La presa di coscienza del fatto che la celere è necessaria per la sopravvivenza di un mondo impazzito è esemplificata verso la fine del libro di Bonini. Dopo gli scontri seguenti alla morte di Gabriele Sandri, un giornalista ha una sorta di catarsi: soccorso da Drago, uno dei tre celerini protagonisti, vede precisamente dove è il bene e dove è il male:

Aveva aiutato uno dei due a risollevarsi, e sostenendolo per un avambraccio lo aveva accompagnato vicino a un mezzo per farlo bere. Non era riuscito a trattenersi. – Pensi di essere a Genova? Pensavi forse che le avresti prese anche da noi? Il tipo si era voltato di scatto. – Io a Genova c’ero. – Questo lo avevo capito. – Perché? – Perché a Genova c’ero anche io e perché ho visto come avete reagito quando ci avete visto. – Capisco… – Capisci? Davvero capisci? – Sì, insomma, credo di sì. Ma queste che razza di bestie sono? – Come hai detto? – Bestie. – Ho capito bene, allora. – Certo che hai capito bene. Mi stavano ammazzando. – Sono le stesse bestie che difendete nei Tg della sera. Con quelle belle inquadrature a stringere, magari dal basso verso l’alto. Quelle in cui vedi tre dei nostri contro uno di questi animali. Sai, quelle immagini che chi sta sul divano, dice: «E questi nazisti da dove sono usciti?» Ma forse serate così aiutano a capire, che dici?.

La specularità tra i celerini e i loro antagonisti, dunque, è soltanto apparente. L’odio non è presente in maniera egualmente distribuita nella società e non circola in maniera simmetrica. Come affermato da Riccardo Gazzaniga in un’intervista rilasciata poco tempo dopo l’uscita del suo libro, sebbene a esercitare violenza siano tanto gli operatori quanto coloro che li affrontano, sono i secondi a causarla e i primi a subirla.

Con tutti i loro difetti e i loro eccessi, i celerini che popolano i tre romanzi si trovano in una posizione di superiorità morale rispetto agli individui che affrontano nelle piazze e negli stadi: conoscono la verità sull’essere umano e la accettano senza ammantarla di ipocrisia e giustificarla in maniera retorica. Salvo rari casi, sono mossi da un’idea di bene: pur essendo chiamati a tutelare l’incolumità di attori politici ed economici che in alcuni casi disprezzano, svolgono una missione rappresentata non soltanto come necessaria, ma anche come moralmente positiva. Durante un dibattito pubblico, Gensini ha espresso questa visione in modo esplicito: «dove non ci sono le forze dell’ordine non c’è una società idilliaca, c’è la mafia».

Rileggere i tre romanzi a vent’anni dal G8 di Genova e a pochi mesi dai fatti di Santa Maria Capua Vetere (e di altri che, nel corso del tempo, sembrano essersi verificati con modalità simili) fa un certo effetto. Nel carcere campano, sono i Gruppi operativi mobili della polizia penitenziaria – reparti istituiti formalmente nel 1999 con un decreto ministeriale dell’allora titolare del dicastero di Grazia e Giustizia, Oliviero Diliberto – a «distinguersi» nell’uso della maniera forte e di un linguaggio brutale e animalesco, carico di parole e immagini che dipingono gli internati come animali da domare. In un mondo ideale, le modalità operative e le espressioni verbali impiegate dai Gruppi operativi mobili non dovrebbero caratterizzare l’agire delle forze dell’ordine. In quello reale, dove maltrattare chi occupa i gradini più bassi della scala sociale è legittimo agli occhi di parte della società e delle istituzioni, ne costituisce tuttavia un aspetto strutturale.

Se analizzato in uno scenario che non sembra essere cambiato in maniera sostanziale dopo il G8 di Genova, nonostante le reiterate promesse di una polizia più democratica, il modo in cui i tre romanzi affrontano il tema dell’uso della forza appare lontano da un’autentica presa di coscienza delle sue implicazioni profonde. Il realismo che propongono non è «sovversivo» ma conservativo. È funzionale cioè al mantenimento di un ordine sociale asimmetrico, segnato da disuguaglianze socioeconomiche e di status che, evidentemente, devono essere continuamente ribadite per essere mantenute.

Enrico Gargiulo – sociologo all’Università di Bologna, si occupa di trasformazioni della cittadinanza, integrazione dei migranti e sapere di polizia.

da Jacobin Italia

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