Alimentiamo da molti anni un meccanismo di corruzione che prevede da Italia ed Europa ingenti somme di denaro ai libici in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. «Ricordo bene Elmasry, ci picchiava con un bastone a Mitiga» La testimonianza di chi ha subito le torture: «Avrei potuto testimoniare in un processo, ma è stato liberato. È l’ennesima ferita»
di Alberto Negri, Michele Gambirasi, Mario Di Vito da il manifesto
Altro che piano Mattei per l’Africa. Il caso Almasry è l’esemplificazione che l’Italia in Libia persegue più che roboanti piani di sviluppo (per lo più fumosi, tranne che nel campo energetico) logiche repressive e tribali. E lo fa anche in maniera assai goffa. Come del resto era prevedibile vista la nostra disastrosa politica nella ex colonia che in questi anni abbiamo perso almeno due volte.
LA PRIMA FU quando nel 2011 venne abbattuto – con Francia, Gran Bretagna, Usa, Nato e la nostra attiva partecipazione militare – il regime di Gheddafi che solo mesi prima, nell’agosto 2010, accoglievamo a Roma come un trionfatore. Il governo Berlusconi, così amico di Gheddafi, era sotto pressione e alla fine lasciò la decisione di intervenire all’allora presidente della repubblica Giorgio Napolitano.
La seconda avvenne nel 2019: il governo di Sarraj, insediato proprio con l’aiuto italiano, fu abbandonato al suo destino, pur essendo riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata del generale di Bengasi Khalifa Haftar, alleato di Mosca, dell’Egitto, degli Emirati e corteggiato anche da Parigi. Sarraj fu salvato dall’intervento militare della Turchia di Erdogan che da quell’epoca è il vero “stratega” della Tripolitania e ora, con la caduta di Assad in Siria, rafforza il suo “asse” mediterraneo.
ADESSO, per la terza volta, l’Italia scivola pesantemente in Libia riconsegnando un criminale ricercato dalla corte penale internazionale dell’Aja che avevamo appena arrestato a Torino e poi abbiamo rilasciato con un cavillo e il silenzio farisaico del ministro della Giustizia. Ma non ci siamo limitati a questo: lo abbiamo riportato in patria facendo una figuraccia. Osama al Najem, (nome vero di Almasry), capo delle forze della polizia giudiziaria libica, è stato accolto all’aeroporto internazionale di Mitiga, a Tripoli, come un eroe. Le immagini mostrano il generale scendere da un aereo che appartiene alla flotta di stato italiana.
LE AUTORITÀ ITALIANE non hanno avuto neppure l’accortezza di programmare un volo notturno di rimpatrio per evitare almeno la beffa. A ricevere il generale sulla pista c’era il comandante salafita Abdul Rauf Kara, leader della potente Forza di deterrenza speciale (Rada), un gruppo armato libico attivo “per la lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata” (ovviamente sulla carta). Diversi video sui social media libici documentano il ritorno trionfale del generale di brigata, ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e gravi violazioni dei diritti umani, tra cui torture fisiche e psicologiche e morti sospette mai chiarite. In questi video la colonna sonora sono gli slogan (a volte indistinguibili) contro l’Italia.
Questa vicenda, di cui ci chiede ragione la Corte penale dell’Aja – costituita proprio a Roma nel 1998 – rivela l’insipienza di una classe politica indifferente alle stesse istituzioni di cui fa parte. Ma tutto ha origine dai rapporti, sempre avvolti da ombre, tra l’Italia e la Libia. Dai tempi di Gheddafi i governi italiani hanno mantenuto relazioni ambigue con Tripoli pur di salvare gli interessi energetici dell’Eni e il gasdotto Greenstream, una sorte di cordone ombelicale tra le due sponde del Mediterraneo. Andreotti e Craxi sono intervenuti più volte per salvare il Colonnello da tentativi di golpe o dai raid americani di Reagan. Gheddafi era diventato persino azionista della Fiat e poi anche di banche italiane. Ancora oggi società e banche italiane (Unicredit, Eni ed Mps) sono socie della Libyan Foreign Bank, la banca offshore specializzata in esportazioni di petrolio dalla Libia. I regimi passano, gli interessi restano.
MA IL COLONNELLO libico era anche il “nostro guardiano” in Africa, il controllore dei flussi migratori e il carceriere dei migranti. Lo stessa cosa l’Italia ha provato a fare dopo la caduta di Gheddafi in un Paese precipitato nella guerra civile e nell’anarchia. E i rapporti si fanno ancora più torbidi perché comincia il “sistema libico”. Abbiamo anche una data di inizio: il 31 marzo 2017, quando a Roma il ministro degli interni del governo Gentiloni, Marco Minniti, firma un accordo con un rappresentante del governo di Tripoli e circa 60 capi delle tribù per contenere i flussi migratori a sud (confine con Algeria, Niger e Ciad), mentre a nord viene insediata la guardia costiera contro gli scafisti, grazie alle motovedette pagate dall’Italia. Un reportage del New York Times dell’epoca mostrò come le operazioni della guardia costiera libica rappresentassero una grave violazione dei diritti umani dei migranti, molti dei quali morirono in mare proprio per colpa della guardia costiera libica. In realtà anche la guardia costiera è coinvolta nel traffico di esseri umani, così come le tribù e vari ministri libici.
Ammantato e imbellettato da accordi internazionali che dovrebbero fornire una copertura di legalità, il sistema libico consiste in un meccanismo di corruzione che prevede il versamento ai libici di somme di denaro da parte dell’Italia e dell’Europa in cambio della repressione violenta dei flussi migratori. Il generale Alsmary fa parte a pieno titolo di questo sistema. L’uomo è noto come il torturatore dei migranti e il capo del carcere di Mitiga, dove ha costruito la sua fama con un regime del terrore fatto di abusi, stupri e omicidi. È chiaro che il generale è una presenza imbarazzante: in un eventuale processo all’Aja Almasry potrebbe rivelare verità assai scomode e complicità indicibili, mettendo in discussione le politiche migratorie di molti Paesi. Meglio liberarsene anche a costo di una figuraccia.
«Ricordo bene Elmasry, ci picchiava con un bastone a Mitiga»
«L’ho visto, più volte. Sia ad Al Jadida che a Mitiga, sono stato in entrambi i posti per più mesi. Appena sono arrivato aveva un grande bastone, e ha cominciato a colpirci con quello». Lo racconta una delle persone che Osama Najeen, noto come Elmasry, «l’egiziano», lo ha visto da vicino in Libia, dopo essere stato catturato dalla guardia costiera libica e detenuto nelle prigioni dove migranti e libici vengono quotidianamente torturati. Specialmente a Mitiga, base militare e centro di comando degli uomini di Elmasry, gli uomini vengono costretti ai lavori forzati.
«ELMASRY È UN CRIMINALE a capo di un’organizzazione criminale, e i primi a temerlo sono i cittadini libici oltre che i migranti, che vengono imprigionati senza la possibilità di alcun processo, con accuse talvolta infondate e non potendosi difendere» prosegue l’uomo, che chiede di rimanere anonimo per motivi di sicurezza. Al Jadida ufficialmente è una prigione di riabilitazione destinata a persone che hanno commesso i reati più gravi. Le torture nei centri di detenzione libici sono testimoniate da chi riesce a uscirne, spesso dietro il pagamento di grandi somme di denaro, e proseguono anche mentre viene liberato e rimpatriato.
IERI SU X, mentre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi giustificava il rimpatrio di Elmasry, parlando di «pericolo per lo Stato», Refugees in Lybia, l’associazione che riunisce migranti e richiedenti asilo passati per la Libia, pubblicava un video in cui vengono mostrate le torture quotidiane nelle carceri libiche. Nelle immagini, una ragazza etiope diciassettenne, Rahma Abdo, viene colpita ripetutamente con un bastone, mentre è legata mani e piedi e incapace di reagire. «È stata catturata a Kufra (nel deserto libico, ndr) ad aprile 2024. Ogni giorno viene stuprata» si legge. Per la sua liberazione, gli aguzzini, di cui Elmasry è a capo, chiedono un milione e mezzo di birr etiopi, circa 11mila euro. In un altro video due carcerieri torturano un uomo. Sdraiato nudo a terra con un fucile puntato, mentre uno degli aguzzini lascia cadere sul suo corpo materiale infiammato. L’uomo si dimena e ripete solo «halas», «basta».
IL NOME DI ELMASRY è noto ovunque nei paesi di partenza, ed è «l’uomo più temuto di tutta la Libia» spiega. «Non appena ho saputo del suo arresto ho avvertito degli amici in Sudan, che non potevano crederci. Era l’opportunità di poterlo giudicare davanti a una corte per i crimini che ha commesso, il contrario di quanto avviene nelle sue carceri. Ora questa possibilità è semplicemente sfumata». A regnare il giorno dopo la liberazione del miliziano, festeggiato al suo arrivo all’aeroporto di Mitiga, è la rabbia e lo sconforto. «Non posso avere giustizia, dopo quello che mi ha inflitto fisicamente e psicologicamente, ed è l’ennesima ferita. Fosse ancora qui le mie dichiarazioni potrebbero servire da testimonianza in un processo, ma non sarà così, è tornato a commettere i suoi crimini».
L’Aja attende i chiarimenti di Roma, il rischio di una procedura d’infrazione
Un inedito che appare destinato a diventare un precedente pericolosissimo: la decisione dell’Italia di non eseguire il mandato d’arresto della Corte penale internazionale contro il capo della polizia giudiziaria libica Osama Najeem Elmasry Habish apre una serie di scenari complessi ben al di là della figuraccia di livello internazionale. Per il momento siamo alla richiesta ufficiale di spiegazioni dei giudici dell’Aja e solo quando qualcuno da Roma deciderà di spiegare cosa sia successo si capirà nel dettaglio quali sono i rischi. «Ci sono le procedure di infrazione che si attivano quando uno stato viene meno ai suoi obblighi di cooperazione con la corte», spiega al manifesto Chantal Meloni, professoressa associata di diritto penale internazionale all’Università di Milano.
Una volta all’anno si riunisce l’assemblea degli stati che aderiscono alla Cpi ed è in questa circostanza che eventualmente si può arrivare all’apertura di procedimenti formali. «Ci possono però essere altri passaggi, come la dichiarazione fatta dalla Corte contro la Mongolia perché, nonostante ci fosse un mandato, non arrestò Vladimir Putin quando era andato lì – prosegue Meloni -, ma comunque bisogna aspettare che arrivino i chiarimenti richiesti dall’Aja a Roma».
Al di là di quanto deciso dalla Corte d’appello di Roma – che ha scarcerato Elmasry a causa del suo arresto definito «irrituale» -, nella vicenda ha di certo un ruolo centrale il comportamento del ministro degli Interni Matteo Piantedosi: l’espulsione dall’Italia dell’aguzzino libico è un atto che ricade interamente nell’alveo delle sue responsabilità dirette. C’è peraltro un precedente che lo riguarda: lo scorso ottobre Mediterranea aveva denunciato Piantedosi perché, in un post su X, si era vantato di aver «intercettato» 16.220 migranti e di averli poi «riportati in sicurezza in Libia» grazie alla «collaborazione dell’Italia con i paesi di origine e transito dei migranti». Il fatto è che la collaborazione con quel paese configura una palese violazione delle convenzioni di Ginevra e di Amburgo. L’atto della ong, ovviamente, aveva un valore simbolico, ma nel contesto del rimpatrio di Elmasry spiega molto bene i motivi per cui l’Italia ha chiuso gli occhi di fronte alla richiesta d’arresto della Cpi. Un atto che, peraltro, è arrivato a pochi giorni di distanza da un altro smacco fatto da Roma contro L’Aja: la sostanziale ammissione che nel caso di un eventuale passaggio del premier isrealiano Benjamin Netanyahu sul suolo italiano nesssuno lo arresterebbe, evitando anche qui di dare esecuzione a un mandato della Corte. Siamo nel campo delle astrazioni, e in fondo questa è la versione dei fatti data da Israele, con l’Italia che non ha smentito le parole del ministro degli Esteri Sa’ar.
Al di là delle mezze smentite del governo, appare ormai confermato che le autorità italiane fossero comunque perfettamente a conoscenza della presenza di Elmasry a Torino e delle operazioni per arrestarlo. Il mandato d’arresto è stato autorizzato dalla Cpi nella giornata di sabato e la Digos di Torino è entrata in azione domenica, nell’ambito di un’operazione coordinata dall’Interpol e che ha coinvolto sei stati europei in totale, con una certa mole di lavoro che si è reso necessario per costruire il fascicolo che ha dato esecuzione alla richiesta d’arresto avanzata dal procuratore della Cpi il 2 ottobre dell’anno passato. Elmasry, infatti, era arrivato in Europa dodici giorni prima del blitz torinese ed era passato nel Regno Unito, in Belgio e in Germania, dove aveva affittato la macchina con cui infine è giunto in Italia assieme ad altre due persone per assistere alla partita tra Juventus e Milan.
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