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Guerra globale permanente. Attacco aereo degli Usa all’Iran. 17 morti

Raid aerei al confine con l’Iraq contro postazioni delle milizie sciite filo-iraniane, in risposta al lancio di missili su basi Usa a Erbil e Baghdad. Per Washington una risposta proporzionata e necessaria a calmare la tensione, ma che giunge nel mezzo di un braccio di ferro con Teheran sull’accordo nucleare del 2015

Il primo concreto atto di politica estera di Joe Biden è un bombardamento. Ieri notte gli Stati Uniti hanno lanciato raid aerei su postazioni di gruppi militari legati all’Iran nella Siria dell’est al confine con l’Iraq, in risposta – dice il Pentagono – al lancio di missili contro basi Usa nel Kurdistan iracheno.

usa

“Bombardamenti difensivi di precisione”, li ha definiti il dipartimento della Difesa americano che hanno preso di mira “infrastrutture” e che avrebbero provocato 17 morti tra i miliziani, secondo quanto riportato dall’Osservatorio siriano per i diritti umani, associazione basata a Londra e vicina alle opposizioni al governo di Bashar Assad: “I bombardamenti hanno distrutto tre camion che trasportavano munizioni – dice il direttore Rami Abdul Rahman all’Afp – Ci sono molte vittime. Le indicazioni iniziali parlano di almeno 17 miliziani uccisi, tutti membri delle Forze di mobilitazione popolare”.

Sarebbe stata colpita anche la base aerea Imam Ali, vicino Al Bukamal, zona di frontiera tra Siria e Iraq. Più specifico il portavoce del Pentagono, John Kirby, che parla di distruzione di “diverse strutture al confine usate da gruppi sostenuti dall’Iran, tra cui le Kataib Hezbollah e le Kataib Sayyid al-Shuhada”, parte delle Pmu, l’ombrello di milizie sciite irachene legate a Teheran. E Teheran reagisce con una telefonata alle autorità siriane e una nota online in cui fa sapere che insieme alla Siria “chiede all’Occidente di rispettare le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu”.

Fonti americane definiscono l’attacco la risposta più limitata a disposizione e diversa dalle operazioni condotte dal predecessore Donald Trump (il riferimento è all’uccisione, il 3 gennaio 2020, del generale iraniano Qassem Soleimani), necessaria a “calmare la tensione sia nell’est della Siria che in Iraq”, dopo il lancio di razzi su una base americana a Erbil del 15 febbraio scorso  (un contractor straniero ucciso e nove feriti, tra cui un soldato americano) e quello di domenica a Baghdad, contro l’ambasciata statunitense in Zona Verde. Di certo Baghdad era stata avvertita: Joe Biden aveva telefonato martedì al premier iracheno Mustafa al-Khadimi, primo leader arabo a ricevere una chiamata dal neo presidente.

Il luogo colpito non era collegato ai due lanci di missili, ma il segretario alla Difesa Austin si è detto “certo” che fosse usato dalle stesse milizie responsabili degli attacchi a Erbil e Baghdad per contrabbandare armi alla frontiera: l’obiettivo era dunque quello di ridurre le capacità militari dei gruppi considerati responsabili.

Sembra però difficile che la decisione di Biden possa stemperare le tensioni con l’Iran, che da parte sua ha sempre negato ogni responsabilità diretta e indiretta nel lancio di razzi nel Kurdistan iracheno e a Baghdad. Una convinzione che aleggia anche tra i Democratici con il deputato Ro Khanna, membro del Comitato della Camera per gli affari esteri, che dà voce alle perplessità: “Il presidente non ha alcuna giustificazione per autorizzare un attacco militare che non sia di auto-difesa contro una minaccia imminente, serve l’autorizzazione del Congresso”.

L’attacco giunge in un periodo denso di botta e risposta tra Washington e Teheran, in pieno tentativo di ricucire gli strappi della precedente amministrazione intorno all’accordo sul nucleare iraniano del 2015 da cui Trump uscì riattivando le sanzioni alla Repubblica islamica e inserendone di nuove. Da settimane i due paesi giocano un pericoloso braccio di ferro che sembrava essere giunto a una soluzione in questi giorni con la decisione di Washington di tornare al tavolo del negoziato.

Ma diverse sono le posizioni di partenza: se Teheran insiste che nessun dialogo è possibile se permangono le sanzioni, gli Stati Uniti vogliono prima ottenere dagli iraniani il rispetto completo dell’accordo (che Teheran ha in parte violato tornando ad arricchire l’uranio in risposta alle picconate di Trump), sanzioni o no. L’intervento dei paesi europei coinvolti nell’accordo – Germania, Francia e Gran Bretagna – aveva riaperto la partita diplomatica.

da Nena News

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Biden bombardante dà il benvenuto al papa in Iraq

È tornata l’America. E non ci si può nascondere che Biden è l’emblema di alcuni dei fallimenti internazionali dei democratici negli anni di Obama, di Hillary Clinton e di Kerry («mister clima»), anni in cui lui era un vicepresidente noto soprattutto per le gaffe

Certo che il mondo è strano. La «speranza democratica», il cattolico Joe Biden, esattamente come Donald Trump, mette mano alla pistola e bombarda la Siria, proprio alla vigilia della visita del papa in Iraq del 5 marzo. Un viaggio durante il quale papa Francesco dovrebbe incontrare anche la massima autorità religiosa irachena, il Grande Ayatollah Alì Sistani, che nel 2014 aveva dato la sua benedizione alla milizie sciite per condurre la lotta contro i tagliagole dell’Isis e che furono essenziali nella liberazione di Mosul, città martire musulmana e cristiana che il papa dovrebbe visitare tra qualche giorno nella sua missione irachena.

Ora i raid Usa rischiano di «consigliare» se non ammonire in modo pesante che lì il clima non deve essere proprio di pace. Il mondo è strano davvero: l’agenda non dovrebbe essere la guerra ma l’emergenza sanitaria sul covid 19. E poi Biden non ha ancora fatto i conti con il disastro della democrazia americana assaltata dai «terroristi interni» – così li ha definti lui – che hanno fatto scempio del Congresso, che già ricomincia a scaricare la crisi interna «esportando» con le armi la democrazia.

Stavolta Biden colpisce un po’ a casaccio, pur facendo oltre venti morti tra le milizie filo-sciite, quelle che hanno comunque sostenuto Assad e il governo iracheno a sconfiggere un Califfato, che per altro è ancora pericolosamente in azione ai confini tra Siria e Iraq. L’anno scorso era Trump a colpire in Medio Oriente uccidendo il generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad, ora è Biden: ma potevamo aspettarcelo da un presidente che nel 2003 votò per l’attacco di Bush junior all’Iraq .

È un tipo contraddittorio Biden. Da una parte vorrebbe riprendere le trattative con Teheran sull’accordo nucleare del 2015 voluto da Obama e cancellato da Trump nel 2018, ma allo stesso tempo bombarda gli alleati dell’Iran colpevoli secondo gli americani di avere colpito la base Usa in Iraq e l’aereoporto di Erbil e nel Kurdistan iracheno. Naturalmente tutto avviene senza lo straccio di una prova. Ma anche questo fa parte del «doppio standard» mediorientale: americani e israeliani non devono dimostrare nulla, quello che fanno è sempre tutto giusto.

Meno male che Biden si è presentato agli europei come il campione del multilateralismo e dei diritti umani scagliandosi contro Russia e Cina: con queste premesse come minimo dovrebbe accoppare con un drone anche il principe saudita Mohammed bin Salman visto che secondo la Cia è il mandante dell’assassinio del giornalista Khashoggi. E mentre si aspetta – ma arriverà davvero? – il rapporto della Cia che lo prova, si ha notizia di una telefonata notturna «ammorbidente» di Biden a re Salman sui crimini del figlio erede.

In realtà sulle vacillanti buone intenzioni di Biden pesa il Patto di Abramo tra Israele le monarchie del Golfo, cui anche il nuovo presidente come Trump tiene tanto. E non ci si può nascondere che Biden è l’emblema di alcuni dei fallimenti internazionali dei democratici negli anni di Obama, di Hillary Clinton e di Kerry («mister clima»), anni in cui lui era un vicepresidente noto soprattutto per le gaffe.

La prova vivente di questi fallimenti è proprio il suo braccio armato, il generale Lloyd J. Austin, l’attuale capo del Pentagono che ieri si è detto fiducioso «di avere fatto la cosa giusta colpendo le milizie sciite» che negano ogni coinvolgimento negli strikes in Iraq. Davanti al Senato nel 2015 il generale Austin, allora comandante del Centcom, il comando militare del Medio Oriente, ammise di avere speso 500 milioni di dollari per addestrare e armare solo qualche dozzina di miliziani siriani sui 15mila previsti per combattere l’Isis – Isis che si appropriò di tutto quel prezioso armamento Usa.

Austin testimoniò inoltre che in Giordania era stato avviato il piano Timber Sycamore per sbalzare dal potere Assad da 1 miliardo di dollari gestito dalla Cia, poi decimato dai bombardamenti russi e cancellato a metà del 2017.

Il generale Austin sollevò l’irritazione e l’ilarità degli americani nello scoprire una serie di fallimenti spaventosi degni di una repubblica delle banane. Ma c’è poco da ridere pensando a tutti i disastri combinati dagli Usa nella regione. Per esempio la decisione del ritiro del contingente americano dall’Iraq: dopo avere distrutto un Paese con i bombardamenti e l’invasione del 2003 per abbattere Saddam Hussein – provocando la fuga di milioni di esseri umani -, sulla scorta delle menzogne sulle armi di distruzione di massa irachene, lo abbandonò al suo destino ben sapendo che non aveva i mezzi per stare in piedi da solo. Austin assecondò la politica di Obama e della Clinton.

Nel 2014 l’Iraq venne travolto dall’ascesa del Califfato che dopo avere occupato Mosul, seconda città del Paese, stava per prendere pure Baghdad: l’esercito iracheno era allo sbando e fu il generale iraniano Qassem Soleimani, con le milizie sciite, a salvare la capitale. E Soleimani è stato ucciso da un drone americano a Baghdad. Ancora peggio fu quello che accadde in Siria dopo la rivolta del 2011 contro Assad. La guerra civile si trasformò presto in una guerra per procura e gli Stati uniti, guidati da HIllary Clinton, diedero via libera a Erdogan e alle monarchie del Golfo tra cui il Qatar per appoggiare ribelli e jihadisti che avrebbero dovuto abbattere il regime.

Come è andata a finire è noto: i jihadisti invasero la Siria e poi ispirarono attentati in tutta Europa mentre Assad è ancora al suo posto con il sostegno dell’Iran e soprattutto della Russia di Putin entrata in guerra il 30 settembre del 2015 bombardando le regioni di Homs e Hama. Poche ore prima Obama apriva al ruolo di Putin in Siria incontrandolo a margine dell’assemblea generale Onu a New York.

In questa storia fallimentare Biden ha avuto un ruolo anche se non di primo piano: e oggi in Siria fa il pistolero accogliendo il papa con un rumoroso «benvenuto in Medio oriente».

Alberto Negri, Tommaso Di Francesco

da il manifesto

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