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Giulio Regeni, 365 giorni senza verità

365 giorni fa, alle 19,41, il ricercatore italiano Giulio Regeni veniva rapito al Cairo, barbaramente torturato per giorni e poi ucciso.

Intorno al suo omicidio il regime egiziano dell’ex generale Al Sisi ha costruito una fitta cortina di nebbie e depistaggi, volta a volta annunciando verità di comodo o falsità. Dal delitto passionale, alla criminalità comune presentata su un «piatto d’argento», il governo egiziano ha indicato falsi colpevoli per allontanare le responsabilità del suo braccio operativo, la polizia e i servizi segreti. Impegnati ora nell’ultimo depistaggio, quello sul corrotto Abdallah capo dei sindacati degli ambulanti, che da solo magari con l’aiuto di «mele marce» avrebbe ordito il crimine. Dei sindacati egiziani Giulio Regeni si occupava. Una questione sensibile, vista la dura repressione dell’opposizione – politica e delle ong dei diritti umani – finita quasi tutta in galera dopo il sanguinoso golpe dell’estate del 2013.

Sfacciatamente il regime del Cairo ha insistito – mentre mostra a parole disponibilità verso gli inquirenti italiani – a dichiarare che di «fatto isolato» si sarebbe trattato. Al contrario, in questo lungo e triste anno è sempre più emerso – anche per il nostro contributo, nonostante tante incomprensioni che ci hanno riguardato – che il caso Regeni corrisponde ad una pratica diffusa e consuetudinaria: quella delle sparizioni forzate e violente.

Delle quali Al Sisi è protagonista da anni. Secondo i dati degli organismi egiziani dei diritti umani dall’estate 2015 all’estate 2016 la sparizioni forzate sono state ben 912. Non è un caso che i giovani egiziani considerino Giulio «uno di noi».

Su un argomento il manifesto ha voluto sempre rompere il silenzio: quello delle gravi responsabilità del governo italiano.

È stato infatti l’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi il primo leader europeo a sdoganare il golpista Al Sisi prima con un suo viaggio d’affari al Cairo e poi con il ricevimento e l’abbraccio in Italia dove lo ha accreditato come l’«uomo nuovo del Medio Oriente». Così, dopo l’assassinio di Giulio Regeni, quanto ad iniziativa dell’Italia siamo nel limbo. L’ambasciatore è stato ritirato e resta sospeso l’invio del nuovo. È una situazione anormale, ma è meglio che resti così. E manca ancora quella definizione di «Egitto Paese non sicuro» da sempre chiesta dalla famiglia Regeni che oggi rinnova il suo dolore. Mentre gli affari petroliferi non si sono certo fermati. Anzi.

Questi i contenuti che oggi saranno riaffermati e gridati a Roma, a Fiumicello e in molte città italiane. (Tommaso Di Francesco da il manifesto)

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Giustizia non è fatta: un anno di depistaggi

A un anno esatto dal suo rapimento, nel giorno dell’anniversario di piazza Tahrir, un video mostra Giulio Regeni mentre svolgeva il proprio lavoro. Girato dalla polizia. Dall’incidente stradale alla banda criminale, le piste false e le bugie fino ai riflettori puntati di recente su Abdallah

Lo abbiamo rivisto appena qualche giorno fa, Giulio Regeni, in un video che, al di là dei motivi per cui è stato diffuso (dalla procura egiziana, prima ancora che da quella italiana), mostra un ragazzo che il 15 gennaio scorso avrebbe compiuto 29 anni appassionato del proprio lavoro, rigoroso, professionale, e insieme empatico, umano.

A un anno esatto dal suo rapimento – oggi, anniversario dei moti di Piazza Tahrir – dal quel giorno in cui sparì a pochi metri dalla sua abitazione al Cairo dopo l’ultimo contatto telefonico avuto con il suo amico Gennaro Gervasio alle 19:41, il ricercatore friulano ritrovato morto sulla strada per Alessandria il 3 febbraio 2016 è riapparso in quelle immagini inedite girate con una telecamera nascosta dal sindacalista degli ambulanti cairoti, Mohammed Abdallah, l’uomo che per sua stessa ammissione consegnò Regeni «agli Interni».

La procura di Roma, che è in possesso di quella lunga registrazione (un’ora e 55 minuti) dall’ultimo vertice con gli inquirenti egiziani a Roma, all’inizio di dicembre, ha sempre sospettato che quel video (girato il 6 gennaio 2016) fosse stato realizzato grazie a microspie fornite dalla stessa polizia egiziana al capo degli ambulanti.

A dimostrazione del fatto che anche riguardo la durata delle indagini svolte dagli inquirenti cairoti su Regeni («dal 7 gennaio, dopo la segnalazione di Abdallah, e per soli tre giorni», aveva assicurato il procuratore generale Sadek) non sia mai emersa tutta la verità.

Ma le autorità giudiziarie di Al Sisi ci hanno abituato a depistaggi e bugie malgrado le promesse di «collaborazione». Tanto che suona quasi una beffa il recente via libera della procura egiziana dato finalmente – e dopo molti rifiuti – alla richiesta dei magistrati italiani di inviare al Cairo Ros e Sco, insieme agli esperti di un’azienda tedesca specializzata nel recupero dei dati delle telecamere di sorveglianza, per analizzare gli impianti delle stazioni metropolitane della zona di Dokki, il quartiere dove Giulio viveva e dove passò (secondo i dati delle celle telefoniche) prima di sparire, il giorno dell’anniversario della caduta di Hosni Mubarak.

I depistaggi iniziarono subito, appena poche ore dopo il ritrovamento del cadavere orrendamente martoriato del ricercatore, a poche centinaia di metri da una prigione dei servizi segreti. In quelle ore Al Sisi riceveva la ministra delle Attività produttive Federica Guidi, in visita istituzionale per tutelare gli affari di centinaia di imprese italiane nel Paese nordafricano.

Di «incidente stradale» parla subito il capo della polizia di Giza, Shalaby, un servitore dello Stato condannato in via definitiva nel 2003 per aver torturato un detenuto. Da quel giorno in poi le “piste” fatte trapelare dagli ambienti giudiziari cairoti e accreditate sui media egiziani (e non solo) sono le più disparate: un gioco omosessuale finito male, il linciaggio di un depravato, un atto di criminalità comune, un omicidio passionale, un regolamento di conti tra spacciatori e drogati (anche se nel corpo di Regeni non venne trovata traccia di sostanze stupefacenti), l’eliminazione di una spia, il risultato di una faida interna ai sindacati o ai movimenti di sinistra, il tradimento di un dirigente della Oxford Analytica, la società alla quale il ricercatore prestava la propria collaborazione…

Tutto fuorché il «movente politico». Anzi, il movente politico a un certo punto viene fuori: il governo egiziano paventa prima un sabotaggio messo in atto dai Fratelli musulmani, poi, all’inizio di marzo, una «fonte di alto rango della presidenza egiziana» prova ad accollare la responsabilità dell’omicidio di Giulio direttamente allo Stato Islamico. In fondo, sarebbe stata una verità di comodo per tutti, italiani, europei ed egiziani.

E se non fosse stato per la forza e la dignità della famiglia Regeni, per l’attenzione sollevata dalle associazioni per i diritti umani, Amnesty in testa, per il battage della stampa internazionale e della comunità accademica, e per il rigore del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, forse qualcuno anche in Italia sarebbe stato disposto a chiudere un occhio e ad accettare la pista più accreditata da Al Sisi.

Ma nessuno abbocca, anzi, la campagna «Verità per Giulio Regeni» prende piede ogni giorno di più, con la denuncia puntuale della violazione sistematica dei diritti umani sotto il regime del generale golpista. Il 24 marzo allora viene messa in scena il più teatrale dei depistaggi: cinque criminali comuni vengono trucidati in un conflitto a fuoco con la polizia egiziana e in uno dei loro «covi» verranno poi fotografati su un piatto d’argento, tra oggetti che non gli appartenevano, anche il passaporto, due tesserini universitari e il bancomat di Giulio.

Si prova così a chiudere il caso dando tutta la colpa alla «banda specializzata in sequestri di stranieri». Anche se invece l’episodio rivelerà alla procura di Roma – che ancora ieri dissentiva dalla versione egiziana – il coinvolgimento di agenti della National Security nella pianificazione dei depistaggi.

«Il caso giungerà presto a conclusione, siamo vicini a una svolta», avevano fatto trapelare qualche settimana fa gli uomini vicini ad Al Sisi. E di nuovo ieri il presidente della commissione Affari esteri egiziana, Ahmed Said, a margine di un’audizione in Parlamento europeo, ha rilanciato: «Presto mi aspetto annunci, tra uno o due mesi. Siamo disposti a fare tutto il possibile perché la questione si risolva una volta per tutte».

Staremo a vedere in che modo, ma la verità è scritta – purtroppo – sul corpo di Giulio. «L’ho riconosciuto solo dalla punta del naso», disse sua madre, Paola Deffendi, minacciando di pubblicare le foto di quel volto se il governo italiano non avesse messo alle strette le autorità cairote. «Hanno usato il suo corpo come una lavagna», riferì mesi dopo quando le vennero trasmessi gli ultimi risultati dell’autopsia italiana, che naturalmente non combaciavano affatto con quelli egiziani.

«Abbiamo visto e stiamo vedendo proprio tutto il male del mondo. Questo male continua a svelarsi pian piano», ha ribadito ieri commentando gli ultimi tentativi di spostare l’attenzione sul ruolo di Abdallah. C’è una sola verità da tenere a mente: Giulio è stato ucciso da «esperti torturatori», come spiegò il prof. Fineschi che eseguì l’esame autoptico. Un «lavoro» non certo da mercanti ambulanti.

Eleonora Martini da il manifesto

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Giulio Regeni, vogliamo la «verità di scomodo»

C’è poi la verità che da 365 giorni in tantissimi, e non solo in Italia e in Egitto, chiedono: la «verità di scomodo». Quella che contenga i nomi di chi ha ordinato la tortura e l’uccisione di Giulio, di chi ne è stato materialmente esecutore, di chi ha coperto, di chi ha depistato. Fino a quando quella verità non verrà fuori, i rapporti tra Egitto e Italia dovrebbero restare «anormali»

Oggi, mercoledì 25 saranno trascorsi 365 giorni, un anno esatto, dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo.

«Scomparsa» è un termine che rende male e poco ciò che è accaduto a Giulio, indica una causalità, una circostanza naturale, un imprevisto. Usiamo allora un termine che appartiene alla storia delle violazioni del genere, trasportandolo dalla seconda metà dello scorso secolo al secondo decennio di questo: la «desaparición», la sparizione forzata di Giulio Regeni.
Nell’aggettivo «forzata» c’è la verità storica sulla fine di Giulio.

Che è stato arrestato, trattenuto in detenzione, torturato e infine ucciso. Su ordine di chi, da parte di chi e con la copertura di chi, da un anno non si sa. La storia delle violazioni dei diritti umani in Egitto, che hanno conosciuto un nuovo picco a partire dal marzo 2015 con l’arrivo al ministero dell’Interno di Maghdi Ghaffar, ci dice che quello che è accaduto a Giulio Regeni è ciò che è accaduto a migliaia di egiziani. Lo sanno bene in Egitto e per questo dicono «Giulio è uno di noi».

Lo sappiamo bene anche in Italia, seppur tardivamente, seppur dopo che l’assassinio di un nostro connazionale ha mostrato la reale e terribile dimensione delle sparizioni e della tortura, fatti ormai pluriquotidiani, in Egitto.

I 365 giorni trascorsi dal 25 gennaio 2016 hanno visto una mobilitazione straordinaria del nostro paese. In ogni parte d’Italia enti locali, università, scuole hanno esposto lo striscione «Verità per Giulio Regeni» (qualche sindaco ha pure provato a toglierlo, secondo il nefasto principio che la solidarietà dura qualche mese, poi inizia la storia). Centinaia di migliaia di persone, individualmente o riunite in account collettivi su Twitter e Facebook, hanno popolato i social di messaggi, richieste, proteste, inviti, appelli. I mezzi d’informazione hanno tenuto viva l’attenzione, contribuendo a resistere all’inesorabilità del tempo che passa e dell’oblio che porta.

Questo paese si è stretto intorno ai familiari di Giulio e si è innamorato di questo ragazzo che oggi avrebbe poco più di 29 anni. Sono stato testimone più volte della passione con cui le alunne e gli alunni delle scuole superiori hanno reagito alla narrazione della sua vita, della sua curiosità di «ragazzo globale»: senza schemi, senza filtri hanno preso pennarelli e hanno disegnato centinaia e centinaia di cartelli.

Come sappiamo, questi 365 giorni sono trascorsi nel conflitto tra tre verità. Soprattutto nei primi mesi, dall’Egitto sono arrivate verità false, depistanti, offensive, da cui è stato necessario difendersi anche in Italia: una serie di piste inverosimili, tutte con l’obiettivo di scagionare le istituzioni egiziane da ogni responsabilità.
Ne hanno fatto le spese, tra l’altro, cinque egiziani del tutto estranei e innocenti, nella messinscena del «vassoio d’argento» propinatoci dal Cairo il venerdì di Pasqua.

Negli ultimi mesi, mentre veniva fin troppo esaltata la collaborazione della procura egiziana alle indagini, si è palesata quella «verità di comodo» che l’Italia ha sempre dichiarato di voler rifiutare e che invece – in base ai triti luoghi comuni che poco è meglio di niente e che il meglio è nemico del bene – potrebbe venire, per l’appunto, comoda a entrambi i governi: la verità delle mele marce in un cesto sano. Quella per cui qualche poliziotto potrebbe aver agito da solo, senza una catena di comando, senza riferire a nessuno. Una verità cui sarebbe difficile credere: arrestare, trattenere in vari luoghi di detenzione, torturare con macabra professionalità ed efficienza, uccidere infine Giulio non è roba da «volontariato del male».

Quella verità potrebbe normalizzare i rapporti tra i due paesi. Si tornerebbe alla situazione pre-Giulio di un paese dall’altissimo tasso di violazioni dei diritti umani, ignorate o condonate in nome della «stabilità», della «strategicità», dei rapporti economici e commerciali.

C’è poi la verità che da 365 giorni in tantissimi, e non solo in Italia e in Egitto, chiedono: la «verità di scomodo». Quella che contenga i nomi di chi ha ordinato la tortura e l’uccisione di Giulio, di chi ne è stato materialmente esecutore, di chi ha coperto, di chi ha depistato. Fino a quando quella verità non verrà fuori, i rapporti tra Egitto e Italia dovrebbero restare «anormali».

Che rimanga questa «anormalità» dunque. Lo chiederanno le persone che il 25 gennaio si raduneranno alle 12.30 all’Università La Sapienza di Roma e quelle che alle 19.41 – l’ora della sparizione forzata di Giulio – accenderanno le candele a Fiumicello (il paese dove Giulio era cresciuto e dove era stato eletto «sindaco dei giovani»), a Roma in piazza Montecitorio e in decine di altre città italiane. I dettagli della giornata sono sul sito www.amnesty.it

Riccardo Noury  – Portavoce Amnesty International Italia

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Fame e repressione: il modello al-Sisi

Al-Sisi ha plasmato un paese disfunzionale e contraddittorio. Le debolezze della vecchia dittatura si ampliano: disuguaglianze socio-economiche, repressione delle opposizioni, alleanze forzate, diktat esterni

Quello che al-Sisi ha plasmato negli ultimi tre anni di regime militare è un paese disfunzionale e contraddittorio. Le debolezze della vecchia dittatura si ripetono uguali a se stesse e si ampliano: disuguaglianze socio-economiche, repressione delle opposizioni, alleanze forzate, diktat esterni. Il Cairo di al-Sisi non è tornato a fare da guida al mondo arabo, ma va a rimorchio.

Domenica il Consiglio Nazionale di Difesa ha esteso la partecipazione dell’esercito egiziano alla coalizione sunnita anti-Houthi in Yemen, creatura saudita che devasta in silenzio il paese più povero del Golfo.

Pochi giorni prima, il 16 gennaio, l’Alta Corte amministrativa rigettava in via definitiva la cessione delle isole Tiran e Sanafir a Riyadh (regalo del presidente golpista a re Salman), sconfessando l’impalcatura delle ultime ondate repressive: nella prima vera sollevazione contro al-Sisi migliaia di persone sono state arrestate per aver difeso Tiran e Sanafir, semplici cittadini e attivisti, mentre il sindacato della stampa subiva un attacco senza precedenti nella storia.

Intanto il 18 gennaio il capo della missione in Egitto del Fondo Monetario Internazionale, Chris Javis, elencava i primi risultati dell’accordo tra Fmi e Il Cairo e delle riforme attuate nel paese per assicurarsi un prestito triennale di 12 miliardi di dollari.

Facendo riferimento alla pericolosa fluttuazione della sterlina egiziana che ha impoverito le classi medio-basse, Javis ha parlato di progresso positivo e di riforme che porteranno a breve stabilità macroeconomica.

Parole asettiche che nulla hanno a che vedere con la realtà dei fatti, un mix di miseria crescente e annullamento del potere d’acquisto, un’inflazione alle stelle e un tasso di povertà che si moltiplica. I tre eventi insieme – prosieguo della guerra in Yemen, bocciatura della cessione delle due isole e dichiarazioni del gigante finanziario – danno il quadro dell’Egitto che si affaccia al 2017.

Un paese impoverito e soffocato dalla repressione, in cui la macchina statale (l’intreccio disfunzionale di potere economico e politico in mano a forze armate, governo militare e servizi segreti) usa la violenza strutturale e istituzionalizzata per mettere una pezza alla propria debolezza.

A sostenere gli sforzi di al-Sisi pensano gli alleati storici che continuano a garantire rapporti economici e politici al paese, necessario ad affrontare il flusso di rifugiati e migranti verso l’Europa, la crisi libica e la guerra al terrorismo islamista.

Nessuno pare guardare alla realtà egiziana a sei anni da piazza Tahrir. Eppure il quadro è inclemente. Basta dare un occhiata ai numeri, che seppur valori freddi, definiscono il perimetro d’azione del regime. Tra l’agosto 2015 e l’agosto 2016 l’Egyptian Committee for Rights and Freedom (consulente della famiglia Regeni) ha registrato almeno 912 casi di sparizioni forzate.

Tra il gennaio e l’ottobre 2016, il Nadeem Center (dagli anni ’90 impegnato nella tutela delle vittime di abusi da parte dello Stato) ha documentato 433 casi di torture in prigioni e caserme. Ad oggi, scrive il Committee to Protect Journalists, sono 30 i giornalisti dietro le sbarre, con l’Egitto al terzo posto della classifica dopo Cina e Turchia.

Oltre 60mila i prigionieri politici su 106mila detenuti, più del 56% del totale secondo i dati dell’Anhri (Arabic Network for Human Right Information); sono reclusi in 504 centri detentivi (erano 485 prima del 2011). Infine, dal luglio 2013 – data del golpe di al-Sisi – a metà 2016 si sono registrati 2.978 omicidi extragiudiziali, secondo i calcoli dell’Ecrf: 2.581 durante proteste, 91 per tortura, 180 per mancanza di assistenza medica in prigione, 17 in attacchi ai campus universitari e 7 per pena di morte.

Così la paranoia del complotto – che passa per le psicotiche accuse a Giulio Regeni di essere spia straniera o pedina del movimento nemico dei Fratelli Musulmani – permea la vita quotidiana, politica, socio-economica del popolo egiziano, costretto in una morsa di repressione e povertà. Perché la natura disfunzionale del governo golpista si traduce anche in una crisi economica di ampissime proporzioni.

Con la sterlina in caduta libera – da 8,83 sul dollaro a 18 – a dicembre il tasso di inflazione è schizzato al 24,3% dal già preoccupante 19,4% di novembre. I beni più colpiti sono quelli di prima necessità: cibo e bevande (+28,3%), salute e medicinali (+32,9%) e trasporti (+23,2%). E quando si parla di beni alimentari si fa riferimento a quelli basilari: il pane e i cereali costano il 54,1% in più, il riso il 77% e la farina quasi il 53%.

Il tutto accompagnato dal taglio radicale dei sussidi statali, la riduzione di numero e stipendi dei dipendenti pubblici, l’introduzione dell’Iva. Queste le riforme chieste dall’Fmi mentre nel paese non si produce quasi più per i costi troppo elevati e il settore turistico è piombato ai minimi storici.

Chiara Cruciati

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Giulio Regeni, un’inadeguata diplomazia

L’attività diplomatica non ha superato la regolare routine e la torbida indifferenza del regime di Al Sisi

Un anno fa, alle 19:41 del 25 gennaio del 2016, un italiano di 28 anni – «un giovane contemporaneo» lo avrebbe definito sua madre – spariva nel nulla sconosciuto e feroce di una città mediorientale. Così iniziava l’agonia di Giulio Regeni nei misteriosi sotterranei (la metropolitana, le stanze segrete, le celle illegali o legali) di quel grande agglomerato urbano che è Il Cairo. Se quello è stato l’inizio di una tragedia, la sua fine è nota ed è – se possibile – ancora più drammatica: perché il corpo di Regeni, dopo oltre una settimana, è stato restituito segnato dalle tracce di una efferata tortura.

Nel corso dei mesi, i soggetti di questa storia hanno seguito, tutti, una loro rigorosa coerenza. È proprio il caso di dire: nel male come nel bene.

Le autorità politiche e giudiziarie egiziane, per tutta una lunghissima fase hanno oscillato tra negazionismo assoluto (Regeni vittima di un incidente o di sordide relazioni o comunque di faccende private) e depistaggi fraudolenti (l’uccisione attribuita a una gang di criminali comuni), realizzati con trucchi da baraccone e rappresentazioni paranoiche.

Solo negli ultimi tempi si è avuto qualche riconoscimento nei confronti dell’innocenza e della limpidezza morale di Giulio Regeni e qualche promessa di concreta collaborazione. Risoltasi, generalmente, in ammissioni striminzite e annunci modestissimi, spesso con un doppiofondo di dettagli poco significativi e di rivelazioni deformate.

Allo stato attuale, siamo ancora nel campo degli impegni di una cooperazione tutta da verificare e della consegna di una quantità indistinta di documenti, dei quali è difficile verificare qualità e rilevanza.

E anche il presidente Al Sisi è passato da un atteggiamento di totale minimizzazione a qualche stiracchiato riconoscimento dell’onestà di Regeni.

E per quanto riguarda le indagini, anche quella che è stata presentata nelle ultime ore come una «clamorosa novità» è, in realtà, materiale già conosciuto, che conferma quanto si sapeva: Giulio Regeni è stato “tradito” e “venduto” da uno di quei leader sindacali dei venditori ambulanti, sulla cui attività svolgeva la sua ricerca.

In questo caso, il dato davvero significativo è quello che prova come il giovane italiano fosse spiato da molte settimane prima che, quel 25 gennaio, venisse rapito. Il secondo soggetto di questo dramma è costituito dal governo italiano. Molte dichiarazioni importanti (Paolo Gentiloni, allora ministro degli Esteri: «Non ci accontenteremo di una verità di comodo») e un solo gesto davvero incisivo: il richiamo dell’ambasciatore italiano al Cairo, l’8 aprile del 2016.

Poi, tantissime dichiarazioni di amicizia verso l’Egitto e Al Sisi, e altrettanti argomenti per motivare il ritorno dell’ambasciatore italiano in quel paese e il ripristino di ordinarie regolari relazioni diplomatiche.

L’attuale premier, che è persona né insensibile né sprovveduta, nella sua conferenza stampa di fine anno ha dichiarato: «Ho visto segnali di cooperazione molto utili dall’Egitto, spero si sviluppino e il governo lavorerà in questo senso».

Fatte salve tutte le esigenze della indispensabile riservatezza, mi sento di dire che di questo “lavoro” non si è avuta alcuna manifestazione, se non quella legata ad un’attività diplomatica che è sembrata inadeguata a superare la regolare routine e a scuotere la torbida indifferenza degli apparati politico-amministrativi del regime di Al Sisi.

D’altra parte, il ruolo della Procura italiana, la sola autorità davvero costantemente impegnata, è di per sé assai limitato non potendo agire in alcun modo in territorio straniero.
Resta il terzo soggetto di questo dramma, e sono i familiari. Dico, con profonda e documentabile convinzione, che senza di loro questa vicenda sarebbe caduta nell’oblio già da tempo.

Il nitore delle parole così straordinariamente efficaci dei genitori, quella loro inaudita, posso dire?, eleganza – di gesti, toni e linguaggio -e la rara chiarezza del ragionamento e dell’azione, hanno fatto sì che il loro dolore più intimo diventasse una testimonianza pubblica ineludibile e irriducibile.

È nostro compito evitare che tutto ciò risulti vano, e che tanta indicibile sofferenza venga dissipata. Ancor più che sullo sfondo resta un dato davvero atroce, documentato da Amnesty International e da tutte le organizzazioni per la tutela dei diritti umani: centinaia e centinaia di egiziani che, nell’ultimo anno, hanno subito la stessa sorte di Giulio Regeni.

Luigi Manconi

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