«La cosa che ci preme di più è poter tornare in Ucraina per lavorare come abbiamo sempre fatto e che il nostro caso non diventi un precedente», hanno spiegato Andrea Sceresini e Alfredo Bosco, nel corso della conferenza stampa nella sede romana della Stampa estera.

«Essere stati in Donbass dalla parte separatista o in Russia non può rappresentare un discrimine per accettare o meno i giornalisti in territorio ucraino, anche perché non si tiene conto del fatto che molti dei colleghi che sono stati ‘dall’altro lato’ negli anni scorsi sono spesso stati critici contro il governo russo».

INVITATI a parlare del caso mediatico che li ha visti coinvolti nell’ultimo mese, Sceresini e Bosco hanno raccontato nei particolari i fatti accaduti dalla sospensione del loro accredito giornalistico in Ucraina.

«Sia io sia Andrea – ha spiegato Bosco – abbiamo lavorato in Ucraina negli anni passati, quando l’attenzione mediatica su ciò che avveniva in Donbass era quasi nulla. Siamo stati più volte in territorio separatista perché sentivamo che quella storia non poteva che essere raccontata in modo corale, dando voce a entrambi gli schieramenti. Dopo il 24 febbraio 2022 abbiamo subito deciso di tornare in Ucraina per continuare a occuparci di ciò che negli anni avevamo visto incancrenirsi nel disinteresse generale della comunità internazionale. Durante l’ultimo anno abbiamo lavorato in diverse zone dell’Ucraina, siamo stati testimoni dell’assalto ai treni di Leopoli i primi giorni dopo l’invasione, abbiamo documentato le conseguenze dei bombardamenti nel sud e nell’est, intervistato decine di persone, raccolto testimonianze di volontari e militari impegnati al fronte e il nostro lavoro non è mai stato segreto… non credo che nessuno possa, in nessun modo, accusarci di aver svolto un compito diverso da quello di documentare la realtà che ci circondava».

«Il 6 febbraio, di ritorno da Bakhmut, dove ci eravamo recati per raccogliere delle testimonianze sulla resistenza dell’esercito ucraino e sulla drammatica battaglia che sta costando la vita a centinaia di soldati ogni giorno, riceviamo un messaggio da uno dei fixer».

IL FIXER, nei contesti di crisi una figura fondamentale per i giornalisti, si occupa di tradurre le conversazioni e i documenti necessari per ottenere i permessi e accompagna i reporter nel lavoro quotidiano, magari facilitandoli grazie alla sua rete di contatti. Il problema, spiegano i giornalisti, è che con il tempo diversi fixer hanno iniziato a organizzarsi in modo «un po’ troppo corporativista».

«Comprensibile se si ragiona sull’aspetto economico – spiega Bosco – In guerra il 90% della popolazione coinvolta soffre enormemente ma c’è una piccola percentuale che trae vantaggio dal contesto: l’Ucraina non è certo il primo Paese a vivere un conflitto, tutti possono immaginare a cosa mi riferisco e anche la tendenza dei fixer a fare ‘cartello’ rientra in questa dinamica».

Sergij, il fixer che doveva accompagnare i due colleghi al fronte il giorno dopo, scrive a Sceresini: «Ho appena parlato con un rappresentante dei servizi di sicurezza dell’Ucraina. Uno di voi ha l’accredito non valido ed è sospettato di collaborare con il nemico. Non mi interessa chi sia, ma non ho né la possibilità né la voglia di continuare a lavorare con voi».

ALLE OVVIE RICHIESTE di spiegazioni, Sergij non ha risposto ed è sparito. Poco dopo, sia lui sia Bosco hanno ricevuto un’email nella quale l’Sbu, i servizi segreti ucraini, comunicava la sospensione dei loro accrediti militari. «Da quel momento lavorare è stato impossibile – racconta Bosco – C’era il rischio che in qualsiasi momento un militare ci fermasse per chiedere i nostri permessi e, non trovandoli, ci arrestasse».

In Ucraina dal febbraio scorso vige la legge marziale: «Abbiamo provato in ogni modo a metterci in contatto con le autorità ucraine per risolvere la questione, per capire le motivazioni di tale provvedimento ma, ad oggi, non abbiamo ancora ottenuto alcuna risposta».

da il manifesto