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Genova 2001/2021: Cogliere l’Occasione!

I due giorni di riflessione e dibattito; “Genova 2021, navigando in mare aperto” organizzati da USB, Cambiare Rotta, Osservatorio Repressione e CALP, hanno segnato un punto di svolta importante rispetto all’approccio commemorativo e un poco “reducista” con cui generalmente si sta affrontando il ventennale delle mobilitazioni del luglio 2001 contro il G8.

Quel luglio fu la tappa conclusiva di un secondo ciclo di “contro-vertici” che caratterizzarono il periodo successivo alla fine del mondo bipolare, in cui una sempre più ampia fetta di popolazione mondiale prendeva coscienza di come alcuni istituti di governo sovra-nazionale erano divenuti strumenti di una controffensiva di classe maturata all’interno della Guerra Fredda.

Un attacco che minava sia le conquiste ottenute con i processi di decolonizzazione nei Paesi del Tricontinente, sia le acquisizioni del movimento operaio nei paesi a capitalismo maturo.

Un offensiva che, sconfitta l’Unione Sovietica, si approfondì ulteriormente ed ebbe come principale attore gli Stati Uniti, fino all’emergere di altri attori rilevanti nella competizione globale.

Il tentativo largamente riuscito di questi due giorni è stato quello di intrecciare le riflessioni critiche su quella stagione di mobilitazioni che vanno dall’inverno del 1999 a Seattle al luglio 2001 e l’agenda politica attuale, facendo parlare sia chi ha attraversato quelle giornate da protagonista – continuando nel corso di questi anni la propria lotta -, sia coloro che anche anagraficamente non hanno potuto partecipare, o addirittura non erano ancora nati, cioè buona parte di coloro che hanno riempito la sala del Circolo dell’Autorità Portuale in via Albertazzi, intervenendo puntualmente nel dibattito.

Se “il movimento dei movimenti” è morto nelle giornate genovesi non solo a causa della repressione, e la traduzione politica nostrana di quella genuina spinta alla lotta contro globalizzazione neo-liberista non è stata all’altezza della sfida del mondo che stava prendendo forma, e delle contraddizioni che generava (si pensi alla quasi assenza della critica al costituendo polo imperialista europeo o alla NATO), incontrando ben presto le secche del riflusso, non si può certo buttare il bambino con l’acqua sporca.

È necessario capirne errori e limiti di impostazione, oltre che le ragioni obiettive – dovute alla fase – che ne hanno impedito lo sviluppo, e come un episodio importante di una lunga “guerra di posizione” non l’abbia trasformata, al di là della volontà del variegato mondo no global, in “guerra di movimento”.

Questo tentativo di bilancio e rilancio è stato possibile grazie all’impianto politico dell’iniziativa teso a delineare un possibile terreno comune di lotta organizzata che facesse i conti con la propria “preistoria”, senza toni declamatori ed incensanti né disfattisti, ed in irriducibile antagonismo con chi – sfruttando l’occasione del ventennale – ha scelto un percorso di confronto e di interlocuzione con parti dell’attuale establishment e quegli apparati repressivi che continuano a mietere vittime, oltre a ripropone la divisione fittizia tra “buoni” e “cattivi”, e perpetuare accuse infamanti nei confronti di una parte di quel variegato movimento.

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Difficile fare la sintesi delle differenze che segnano due fasi diverse e del contesto in cui si inseriscono, ma dal punto di vista soggettivo forse il maggiore filo rosso è costituito dalla continuità di quello “spirito di rottura” – come l’ha giustamente definito Guido Lutrario di USB nel suo intervento iniziale – che ha caratterizzato quelle giornate in cui era diffusa la percezione di “combattere la gabbia nella quale siamo”.

Una gabbia, oggi come allora, non scalfibile solo con la bontà delle proprie ragioni o il proprio attivismo, ma che ha bisogno innanzitutto di essere decostruita dall’analisi, da una azione conseguente, da efficienti e ambiziosi livelli organizzativi.

Una gabbia che in vent’anni non è divenuta meno opprimente e che anzi ha visto affinarsi le tecniche pregresse di una controrivoluzione preventiva (affiancate allo sviluppo di politiche neo-liberiste) che chi animò quelle giornate generalmente non aveva messo in conto, trovandosi in un contesto bellico imposto dal nemico di classe. Trattato come “nemico”, ma non consapevole di esser visto così.

Quel movimento ha dovuto fare le spese di un ingombrante apparato repressivo di cui, ancora oggi, alcuni compagni che parteciparono a quei giorni pagano le conseguenze penali per tutti.

In questo senso, come ha mostrato con un ragionamento articolato e dovizia di particolari, Italo di Sabato dell’Osservatorio Repressione, Genova 2001 è uno “spartiacque” per le misure di restrizione della libertà, che quest’anno e mezzo di pandemia ha ulteriormente inasprito erodendo “la possibilità di sviluppo delle azioni collettive”, come ha sottolineato Salvatore Palidda.

Spesso nella narrazione edulcorata o “vittimistica” di quei giorni viene espunto un nodo centrale che fa da bussola anche all’iniziativa attuale e cioè – sempre per citare Lutrario – “senza conflitto non emergono le ragioni” di chi ha un cuore un progetto trasformativo della società.

E proprio il conflitto e la sua possibilità di promuoverlo, di dargli concretamente forma, è stato al centro gravitazionale dei lavori; articolato sia rispetto lotta alla repressione ed ai dispositivi giuridici che la rendono possibile, sia alla battaglia contro il traffico d’armi che sta prendendo i connotati di una iniziativa coordinata internazionalmente.

È emersa una agenda di lotta che comprende inoltre l’attività internazionalista che oggi ha il suo centro nella difesa nella Cuba socialista, e l’organizzazione di uno sciopero generale indetto dal sindacalismo di base per il 18 ottobre.

Sciopero generale che dovrà uscire forzatamente da una dimensione testimoniale e quasi liturgica, per andare oltre i perimetri di chi ha l’indubbio merito di averlo proclamato, com’è stato puntualizzato in più interventi.

Uno sciopero che assume un aspetto eminentemente politico, anche come tappa imprescindibile per la costruzione dell’opposizione al governo Draghi, un antagonismo che fino ad ora ha avuto notevoli difficoltà ad articolarsi nonostante il blocco dei licenziamenti e degli sfratti.

Tutte battaglie specifiche ma che hanno un senso politico generale, quindi, e che non possono appoggiarsi solo sulle spalle di coloro che le hanno fino ad ora condotte, ma devono avere una traduzione più ampia ed impattare quei pezzi di blocco sociale che proprio le mobilitazioni del 2001 non riuscirono, in un contesto diverso, a toccare e che ora nonostante la condizione sociale notevolmente immiserita stentano tutt’ora a coinvolgere.

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Tre sono stati i momenti di riflessione principale, e quattro i nodi specificatamente affrontati, durante le due giornate.

Il primo momento del venerdì pomeriggio si è soffermato su quella gabbia giuridica che si è tramutata, in questi venti anni, in una vero e proprio “diritto penale del nemico”.

Una gabbia che ha visto ulteriormente sedimentarsi – oltre all’arsenale repressivo mutuato prima dal fascismo e poi dalla legislazione emergenziale – una e vera propria camicia di forza che pone una seria ipoteca allo sviluppo del conflitto e fa pagare un prezzo altissimo agli attivisti che per un ventennio hanno condotto lotte coraggiose su più fronti. Si pensi a quella contro la TAV in Val Susa o contro il TAP in Puglia, o alle recenti sentenze passate in giudicato, come quella a Giovanni Ceraolo di USB.

È chiaro che l’amnistia per i reati sociali e politici ed il superamento dell’attuale assetto legislativo che ingabbia il conflitto, a cominciare dal diritto di sciopero e le forme di lotta criminalizzate come il blocco stradale, torna ad essere una battaglia generale che deve trovare un ampio fronte di forze politico-sindacali.

Queste forze vedono infatti quotidianamente minate la possibilità di incidere realmente sui processi sociali da questo sistema giuridico e dal fardello repressivo fatto di sproporzionate condanne penali e gravose pene pecuniarie, e da una giustizia che si muove con spirito di vendetta, come dimostra la vicenda ricordata da Eugenia – di Cambiare Rotta – contro gli esuli politici italiani in Francia e chi tenta di ricostruire una storia della lotta di classe nel nostro Paese fuori dal coro della “storia dei vincitori”, com’è successo a Paolo Persichetti.

Il combinato disposto di politiche neo-liberiste e rafforzamento dell’apparato giuridico-repressivo ci ha portato infatti alla situazione per cui viviamo in uno “Stato sociale minimo ed in uno Stato penale massimo”, per citare le parole di Italo di Sabato.

Il secondo momento, nella serata di venerdì, è stata l’assemblea internazionale “virtuale” di lavoratori portuali ed attivisti contro la guerra, intervenuti dai quattro angoli del Pianeta, oltre che dagli scali italiani: dalla penisola iberica al SudAfrica, dagli Stati Uniti all’Australia.

Un incontro che segna il tentativo di darsi un coordinamento per una giornata internazionale di lotta da tenersi in autunno in continuità con una campagna fatta propria dal coordinamento dei lavoratori portuali di USB (nato alcuni mesi fa proprio a Genova), e che ha trovato la maggiore ragion d’essere con le azioni di blocco a livello mondiale delle navi israeliane in diversi scali internazionali.

Un incontro che, dopo quelli di Genova dell’8 maggio e 5 giugno Livorno, pone le basi per la rinascita di un movimento contro la guerra che parta dalla possibilità concreta di inceppare la macchina bellica, partendo dal complesso militare industriale ed all’apparato logistico a cui si appoggia.

Se finora si è sperimentata una forma di cooperazione virtuosa che si va consolidando, è chiaro che le forze politiche, le realtà associative, ed i raggruppamenti comunisti devono assumersi la responsabilità di potenziare questa iniziativa tenendo conto del fatto che la “tendenza alla guerra” appare una costante dell’attuale fase dello scontro geo-politico, caratterizzata da “nuova guerra fredda”.

È chiaro che accanto alle azioni concrete va costruito un ampio movimento d’opinione che riguadagni la legittimità politica tra le fila dei subalterni.

Il terzo momento, del sabato mattina, ha tenuto insieme un ragionamento più ampio sulle caratteristiche dell’attuale ciclo di accumulazione del capitalismo – sintetizzate da Luciano Vasapollo – ed i percorsi organizzativi che si stanno sviluppando dalla storica lotta No Tav (con l’intervento di Nicoletta Dosio), allo sciopero generale del 18 ottobre; dalle più generali lotte sull’emergenza climatica ai tentativi di organizzare una parte importante del blocco sociale, su cui si sono particolarmente soffermati gli interventi di Francesco Caruso, del Collettivo Vedo Terra e dell’Organizzazione Studentesca d’Alternativa.

Nelle conclusioni, Guido Lutrario e José Nivoi hanno giustamente segnalato la percezione di una rinnovata volontà di iniziativa, di cui tre ravvicinate scadenze di lotta sembrano tra l’altro dare una configurazione immediata che precede l’autunno:

l’iniziativa dei portuali genovesi il 22 luglio in contemporanea con l’arrivo di una nave della compagnia di navigazione saudita Bahri, addetta al trasporto d’armi nello scalo ligure;

la manifestazione nazionale promossa il 24 luglio dal Collettivo di Fabbrica dei Lavoratori della GKN a Firenze, di fronte ai cancelli dell’azienda che rischia di chiudere licenziando tutti gli operai;

il 26 luglio il presidio di fronte all’ambasciata cubana a Roma contro le iniziative promosse dagli anti-castristi.

Un messaggio chiaro esce da questi due giorni: cogliere l’occasione per costruire un ampio ed unitario movimento di classe.

Giacomo Marchetti

da contropiano

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