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Gaza: Missile sul café della stampa

A Gaza oltre ottanta uccisi, 33 uccisi ieri mattina dal missile israeliano che ha colpito il porto di Gaza City. Sono almeno 66 i bambini gazzawi morti di fame dallo scorso 2 marzo. 

di Chiara Cruciati da il manifesto

Un uomo è seduto a gambe incrociate, ha una macchia di sangue sulla camicia e la bocca aperta in una smorfia di dolore. Un tavolino di plastica distrutto lo divide dalla moglie. Lei ha la testa appoggiata su un muretto, è morta. Sullo sfondo si vede il mare, placido testimone di una carneficina. A Gaza, lo dicono tutti, il mare è l’idea di libertà: da quasi due anni è solo un’altra barriera alla salvezza, un muro d’acqua invalicabile.

SONO 33 I PALESTINESI uccisi ieri mattina dal missile israeliano che ha colpito il porto di Gaza City. Ha centrato la caffetteria al-Baqa, sedie di plastica marrone, internet e un tendone per fare ombra: da tempo è il luogo di ritrovo di giornalisti e attivisti, una sorta di co-working al tempo del genocidio. Tra loro c’è il 228esimo reporter palestinese ammazzato dal 7 ottobre 2023, il fotografo e regista Ismail Abu Hatab. Un nome noto a Gaza e fuori: la sua ultima mostra, Between sky & sea, era stata ospitata da una galleria di Los Angeles lo scorso aprile.

La giovane pittrice Frans Al-Salmi aveva ritratto Ismail un mese fa e pubblicato il quadro nel suo portfolio su Instagram, un viaggio dentro i volti di Gaza. Ieri Frans è stata ammazzata alla al-Baqa insieme all’amico. «Corriamo, non sappiamo dove – aveva scritto la pittrice un mese fa – Portiamo con noi ogni ricordo possibile, ci stringiamo ai nostri gatti come fossero le uniche creature viventi di cui possiamo fidarci».

E poi la giornalista Bayan Abu Sultan, ferita nel raid. Nelle foto la si vede con il volto coperto di sangue. Sangue c’è anche sulla maglietta, sopra c’è scritto «Normal is boring», la normalità è noiosa. L’ironia nera palestinese, una delle tante forme di resistenza, necessarie a non impazzire. Intorno a lei e all’enorme cratere, giovani uomini portano via i corpi delle vittime. «Stavo andando al café per usare internet, ero a pochi metri quando c’è stata l’esplosione – racconta alla Bbc il cameraman Aziz Al-Afifi – I miei colleghi erano là, persone che vedo ogni giorno. La scena era orribile: corpi, sangue, urla ovunque».

NON È STATA l’unica strage di ieri. Tredici palestinesi sono stati uccisi, come altri 600 prima di loro, mentre si avvicinavano a uno dei quattro centri della fondazione Gaza Humanitaria Foundation. È successo a Khan Younis, con le stesse identiche modalità denunciate per un mese dai palestinesi e confermate nel fine settimana da un’inchiesta di Haaretz: i soldati sparano sui civili dopo averli attirati nei centri Ghf con la fame che ha raggiunto livelli insopportabili (a Gaza non entrano aiuti, se non quelli Usa, dal 2 marzo scorso).

«La folla era posizionata lontano del centro – racconta il giornalista Hani Mahmoud – Non rappresentava una minaccia. Le persone stavano solo aspettando i pacchi alimentari». Bombardato anche il cortile dell’ospedale Martiri di Al-Aqsa (senza nessun avvertimento preventivo) e due scuole-rifugio, una nel quartiere di al-Tuffah e una in quello di Zeitoun. In totale sono almeno 85 i palestinesi uccisi ieri; il bilancio ufficiale in 20 mesi sale così a 56.500, a cui vanno aggiunti per lo meno 15mila dispersi.

Sono almeno 66 i bambini gazzawi morti di fame dallo scorso 2 marzo. Il dato arriva dal ministero della Sanità di Gaza, ed è in linea con quanto comunicato dall’OMS lo scorso mese, che parlava di almeno 57 bambini morti di fame. Dieci giorni fa, anche l’UNICEF ha lanciato un allarme carestia, sostenendo che 5.119 bambini fra i sei mesi e i cinque anni risultavano ricoverati per malnutrizione acuta, il 150% in più rispetto allo scorso febbraio. Intanto, continuano anche i bombardamenti israeliani nella Striscia. Solo nella giornata di ieri, Israele ha ucciso almeno 80 palestinesi; tra questi, figurano due giornalisti, uccisi in seguito a un bombardamento che ha preso di mira un bar di Gaza City usato come ritrovo per lavorare dagli operatori mediatici.

In questo scenario si arena il negoziato che il presidente Trump dice di aver rilanciato. Ieri il Qatar si è detto impegnato nel raggiungimento di un accordo tra Israele e Hamas ma non ha nascosto le difficoltà. Nonostante – aggiunge Doha – le intenzioni Usa, l’intransigenza israeliana sul fronte umanitario impedisce passi avanti. La distanza resta la stessa: Hamas vuole il ritiro israeliano e il cessate il fuoco permanente, Israele si ferma allo scambio di ostaggi per qualche settimana di tregua. Ne potrebbe parlare Trump con il premier israeliano Netanyahu, dato in visita alla Casa bianca la prossima settimana.

INTANTO il genocidio palestinese rimbomba nel resto del mondo. Ieri l’Alta corte di giustizia della Gran Bretagna ha rigettato la richiesta mossa da organizzazioni per i diritti umani: costringere Londra a bloccare la vendita di armi a Israele, in particolare i pezzi di F35 della Lockheed Martin. Pur riconoscendo che «possono essere state usate per commettere serie violazioni del diritto internazionale a Gaza», nelle 72 pagine di sentenza i giudici Stephen Males e Karen Steyn scrivono che non spetta alle corti decidere in merito ma al governo «democraticamente responsabile di fronte al parlamento e all’elettorato».

Il giorno prima, invece, il più grande fondo pensionistico norvegese, Klp, aveva annunciato l’interruzione dei rapporti con due compagnie che vendono equipaggiamento militare a Israele, la statunitense Oshkosh Corporation e la tedesca ThyssenKrupp. La prima perde 1,8 milioni di dollari, la seconda un milione. Già nel 2021 Klp (un fondo che vale 114 miliardi di dollari) aveva disinvestito da 16 compagnie, tra cui Motorola, e lo scorso anno da Caterpillar per i legami che intessono con le colonie israeliane in Cisgiordania e per l’uso dei loro prodotti per le politiche di occupazione.

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