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Fermati ed identificati al sit-in di solidarietà. Chiedevano la liberazione di sei profughi afgani

In Italia, l’emergenza sicurezza fa passare in second’ordine anche i più elementari diritti umani: così si è malamente conclusa la mobilitazione svoltasi ieri mattina a Roma per la liberazione di sei persone afgane dal CPTA di Ponte Galeria, e terminata nelle stanze del commissariato di zona. Indetta da associazioni territoriali e sostenuta da parlamentari e rappresentanti delle istituzioni locali, la manifestazione chiedeva il riconoscimento del diritto d’asilo per gli afgani, rinchiusi a Ponte Galeria ormai da diverse settimane ed in attesa di essere espulsi verso la Grecia, paese per cui sono transitati scappando dall’Afghanistan. Arrivati in Italia via terra o via mare, speravano di essere accolti da un paese, quello italiano, che ha fama di essere democratico. La fine di un viaggio drammatico, iniziato perché queste persone, nel loro paese, svolgevano lavori legati alla presenza occidentale: chi mediatore verso le popolazioni locali, chi traduttore delle forze multinazionali. Attività non ben viste dagli afgani: per questo hanno subito torture e sevizie, sono stati minacciati e «perseguitati in un contesto di guerra civile», come dichiara Giovanna Cavallo dell’Agenzia Diritti del Municipio X di Roma, che ha seguito le vicende dei rifugiati afgani. Appena sono giunti nel territorio italiano, la risposta istituzionale è stata quella solita: un foglio di via verso la Grecia, il paese per cui erano passati scappando. Secondo la legislazione internazionale, i sei cittadini afgani avrebbero dovuto richiedere l’asilo umanitario in Grecia, lo stato dell’Unione Europea attraverso cui erano entrati nell’area Schengen. Ma ritornare in Grecia comporterebbe per loro almeno la prigione, se non addirittura il rimpatrio forzato verso l’Afghanistan e, quindi, la morte. Da qui l’impegno dei Municipi romani, di Action e dei centri sociali La Strada e Corto Circuito, dei parlamentari del Prc Giovanni Russo Spena e Francesco Martone, di Anna Pizzo e Francesco Caruso. Tutti presenti ieri mattina davanti al Viminale, anche loro fermati ed identificati, come i manifestanti che solidarizzavano con i profughi.Invece di essere ricevuti dalla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiati, i sei sono stati imprigionati per essere allontanati dal territorio nazionale. Questa volta ci si sono messi di mezzo i movimenti, che chiedono a gran voce che l’Italia la smetta di praticare espulsioni di chi teme per la propria vita, come prescrive l’articolo 10 della Costituzione. Gli operatori che hanno seguito le sorti dei profughi afgani sostengono che si potrebbe applicare il Regolamento di Dublino, che riconosce la richiesta di asilo per motivi umanitari, considerando la continuità e l’inserimento già avviato insieme alle istituzioni e alle associazioni: queste persone hanno studiato l’italiano, hanno iniziato delle relazioni, potrebbero finalmente sentirsi al sicuro.Dopo il commissariato, la trattativa è passata, grazie all’impegno della deputata Mercedes Frias, nelle stanze dell’onorevole Lucidi, sottosegretaria all’Immigrazione del ministero dell’Interno e persona competente per concedere l’audizione per il riconoscimento dello status di rifugiato agli afgani. Resta aperto il grave problema della concessione dell’asilo politico: l’Italia non ha ancora una legge specifica, pur avendo sottoscritto la Convenzione Onu sui rifugiati; secondo i dati 2003 dell’Acnur (l’agenzia ONU per i rifugiati), l’Italia ha ospitato solo 12.440 rifugiati, poca cosa rispetto al dato europeo, 5.368.405 profughi sull’intero territorio comunitario. Ed ancora più assurdo, rimane il destino di queste sei persone: in Afghanistan, mediatori per gli occidentali in una brutta guerra che continuiamo a chiamare intervento umanitario; in Occidente, ospiti indesiderati da mandare via, senza alcun interesse per la loro sorte.

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