Gli scontri di Milano hanno lasciato il segno ovunque o quasi: vi è l’indignazione popolare, il fatalismo menegufino, l’intraprendenza meneghina, il ping pong politico, lo smarrimento movimentista, la retorica forcaiola, e l’oltranzismo frontalista e antagonista.

Insomma, più o meno tutto ciò che accade quando accade ciò che s’è visto a Milano.

Eppure, ‘sto giro servirebbe uno sforzo di comprensione e di analisi ulteriore poiché ciò che si è visto nella Noexpo Mayday è intriso di elementi di novità e indicazioni profetiche.

SCONTRI, GLOBALIZZAZIONE E CRISI

Chi ha buona memoria si sarà reso conto che il primo maggio Noexpo Mayday è intriso di elementi particolari, anzi si può dire che ci sono abbastanza novità poter pensare a un diversa fase della contestazione politica. Chi ha creato i disordini lo ha fatto con un preparazione tecnico militare veramente notevole, qualitativamente superiore a ciò che si era visto in altre manifestazioni (Genova 001, Roma dicembre 012, Roma ottobre 013).

La capacità di comparire dal nulla e scomparire in nebbie fumogene, fino al cambio d’abito in tempi addirittura minori di quelli con cui le Ferrari cambiano le proprie ruote, la particolare velocità con cui gruppi affini si aggregavano e si disgregavano, inseguendo i diversi obiettivi, la sistematicità, la precisione tecnica dell’uso di diversi strumenti di scontro; tutto questo indica una capacità molto alta di coordinazione e preparazione, evidentemente affinata, discussa e preparata approfonditamente.

Non basta dire che la polizia ha lasciato fare… Si può leggere quindi una tendenza… A Genova 001 a Roma 12/012, e ancora a Roma 10/013 le “tute nere” (utilizzo questa espressione giornalistica per semplificare, sarebbe meglio dire: l’area anarchica intransigente) sono state infatti l’innesco di una più generale rivolta diffusa, vuoi per l’esasperazione sociale, vuoi per l’incrudimento dello scontro che tende a colpire un po’ a caso, coinvolgendo parti sempre più ampie del corteo, che magari reagiscono anche solo per legittima difesa.

A Milano, il gruppo delle cosiddette Tute Nere ha agito con una precisa sequenza di azioni e reazioni rendendo complicata la generalizzazione dello scontro poiché introdursi in modo estemporaneo all’interno di un’omogeneità estetica e comportamentale risulta chiaramente rischioso, come effettivamente è stato.

La facile riconoscibilità, la mancanza di conoscenza delle dinamiche, dei momenti e dei movimenti coordinati rende vulnerabile chi prova ad mescolarsi in un corpo omogeneo che si muove in modo dinamico. Infatti, il confronto muscolare è rimasto limitato alla falange nera e a un numero relativamente limitato di individui che si sono aggiunti: e proprio fra questi sono avvenuti i fermi contestuali.

Ma ciò non deve trarre in inganno, e le facili conclusioni della stampa (e non solo della stampa) rispetto alla presunta assenza di legittimità politica (e addirittura morale) di questo spezzone (e chi lo stabilisce questo?) sono completamente sballate dall’euforia ossigenante della ragion di stato.

Un alto livello tecnico nella gestione dello scontro non significa un intento criminale e un assenza di visione politica. Anzi, il progetto sotteso alle giornate di Milano è assolutamente chiaro e anche plausibile e dice, in parole povere: se durante ogni meeting internazionale invece di chiacchierare e fare azioni simboliche di nessun impatto (che hanno fatto il loro tempo) si facesse pagare alla città lo scotto più alto possibile, allora i meeting non si terrebbero più.

L’obiettivo chiaramente è quello di passare dai 500 di ieri, ai 1000 della prossima volta, ai 5000 di un futuro più o meno vicino. E il danno alla città crescerebbe esponenzialmente. Inoltre, bisogna valutare bene anche le parole. Anche se in questa forma di guerriglia urbana l’estetica è importante in ogni caso non si tratta di sola “estetica del conflitto” ma essa rientra pienamente in quelle forme mitopietiche di contestazione comunicazionale. Anzi, la difficoltà di interpretare i pensieri del blocco nero permette una gestione del mito ancora più efficace.

Si può desumere che già da un pezzo i più giovani siano attratti da questa radicalità non impantanata, apparentemente, dal burocratismo e politicismo, e decisamente più efficace nel rispondere alle frustrazioni sociali.

L’Expo fa schifo, i commenti dei quotidiani sono stati indecenti e ridicoli, con dei passaggi ignobili (poi parleremo di quelli sinistrorsi) e questo genera un circolo vizioso…

Vista la crisi, viste le lacrime di coccodrillo, visto il finto buonismo, i sacrifici, le false speranze, la sordità verso le istanze dei più deboli, ma soprattutto il cattivo funzionamento dei meccanismi della rappresentanza (siamo ancora una democrazia? ci sono ancora stati democratici?), piaccia o meno, il progetto non sembra così velleitario, soprattutto perchè non si propone assolutamente un cambiamento dell’esistente, ma solo il suo annichilimento (smash capitalism).

Ciò non significa che un progetto del genere non abbia grosse falle (anzi, ne ha e di enormi, ma non è questo il momento di parlarne), ma visto il contesto è un piano semplice che può funzionare, quasi per inerzia, soprattutto se gli altri movimenti rimangono impantanati nelle proprie contraddizioni.

Non è apologia: è solo una costatazione.

REAZIONI POLITICHE E FORZE DELL’ORDINE

Preso atto di ciò che si è scritto, per avere un’idea complessiva bisogna analizzare anche ciò che è successo nel campo istituzionale. Nel mare – tutto – nostrum dell’indignazione a comando alcune reazioni politiche potrebbero stupire, almeno di primo acchito.

Vuoi Alfano e vuoi il Corriere, alla fine in molti han confessato che per ciò che è successo si è pagato un dazio ragionevole. E qua, bisogna dirlo, non solo sono sinceri, ma hanno anche ragione.

D’altronde è grazie a queste affermazioni che possiamo intuire quali sono state le dinamiche circostanziali in cui è avvenuta la Noexpo Mayday.

È evidente che la presenza di un blocco nero era nota alla Digos, ed è altrettanto chiaro che la stessa Digos non nutriva nessun dubbio sul fatto che una parte degli organizzatori non aveva idea di ciò che sarebbe successo. Chi invece era a conoscenza della situazione non aveva il potere di impedirlo.

Facendo un paio di calcoli gli Interni, con le forze dell’ordine e il sindaco di Milano hanno giustamente valutato che un centinaio di vetrine (in gran parte assicurate) e qualche decine di vetture sarebbero state un conto ben solvibile.

Al limite il sindaco a cosa s/fatte (come è stato) avrebbe potuto stanziare dei fondi facendo anche bella figura: in ogni caso si sono sprecati così tanti miliardi per l’Expo che qualche milione in più e in meno non avrebbe fatto nessuna differenza.

Ma la parte più fine del ragionamento inizia proprio da questo punto. Scontri di questo tipo, ben indirizzati, hanno tre elementi che possono anche essere rivoltati virtuosamente nella gestione politica della piazza presente e futura, talmente positivi da costituire una priorità nella gerarchia delle decisioni:

Primo: intervenendo e caricando il blocco nero si sarebbe rischiata la generalizzazione lo scontro coinvolgendo sia il ventre molle della manifestazione sia i servizi d’ordine preparati degli spezzoni più organizzati e quindi si sarebbe ottenuto un effetto boomerang diffondendo il conflitto, trasformando uno scontro di posizione fra bande militarizzate (come è stato in pratica) in scontro diffuso.

Ciò implica che a posteriori si sarebbe dovuto fare i conti con uno scenario che avrebbe dovuto includere considerazioni socio-politiche più problematiche (la rabbia diffusa, la precarietà, lo spreco di risorse eccetera).

Secondo: il fatto che una falange nutrita ma ben definita abbia devastato la città consente a tutti (i soggetti sopracitati) di nascondersi dietro la retorica degli scontri operati da un gruppo di facinorosi, in gran parte stranieri e bla bla bla. Così si è potuta giocare la carta del corpo estraneo e criminale.

Massima autogiustificazione politica per i Potenti (semplificazione narrativa efficace).

Terzo: questo consente anche di annoverare (con candido democraticismo) i poveri organizzatori e gli ignari partecipanti fra le vittime, ma facendo questo implicitamente si afferma e sottolinea la loro impotenza, la loro ingenuità, e il fatto che debbano essere loro stessi tutelati e protetti dalle istituzioni. Questo è l’obiettivo politico principale: la delegittimazione di un gruppo autorevole.

In questo senso il blocco nero e le forze dell’ordine hanno giocato la stessa partita – con obiettivi diversi e su fronti diversi, sia chiaro. I primi per delegittimare la componente da loro considerata un competitor politico e accusata di essere in fondo una componente riformista. Dei secondi abbiam già detto.

En passant è già chiaro che il Potere (anche questa semplificazione, non giornalistica, ci aiuta) sta già prendendo le misure verso il blocco nero, verso le sue tattiche e le sue debolezze. Chi usa chi? È chiaro che le dinamiche di piazza sono state incredibilmente mutevoli… e significative.

NOEXPO MAYDAY

Da quello che si è scritto risulta chiaro che dire che la polizia non è intervenuta è una valutazione completamente sbagliata: lo ha fatto, prima con un’opera di intelligence evidentemente accurata, poi ha messo in campo una tattica dettata da un’analisi costi e benefici (tenendo conto degli avvenimenti caldi degli ultimi 15 anni, della sentenza europea sulla tortura al G8 di Genova, delle priorità legate all’inaugurazione) e lo ha fatto soprattutto mettendo in campo una strategia complessiva di minimizzazione dei danni e massimizzazione degli obiettivi politici.

Si noti che tutti parlano della minimizzazione, nessuno della massimizzazione, poiché farlo significherebbe ammettere implicitamente che lo Stato gioca duro per difendere l’interesse di pochi (magari risarcendo le vittime, ma solo come secondo fine, nella voce: gestione effetti

collaterali). Quindi le “tute nere” hanno fatto il loro gioco e le istituzioni, con il loro braccio armato, hanno risposto con le proprie carte. Ma gli organizzatori? La galassia Noexpo cosa ha pensato di fare?

(I pareri espressi in questa parte che criticano l’organizzazione della Mayday riguardano alcuni punti politici e sono formulati senza lingua biforcuta e senza false diplomazie, ma si devono prendere come elementi di discussione e non come giudizi. Sono note perfettamente le insidie di piazza e tutte le difficoltà annesse e connesse)

E qua viene la parte dolente e la parte più interessante. La Mayday è nata come manifestazione del protagonismo precario, il suo senso più pregno probabilmente si era esaurito con le prime dieci/dodici edizioni (non la necessità del protagonismo precario, si badi bene, solo la necessità della Mayday).

È sopravvissuta, giustamente, solo in vista della concomitanza con l’inaugurazione Expo, e quindi si è riproposta ogni anno in attesa del big bang. Ma per strada ha perso un certo mordente, riducendo le proprie prospettive intorno ha un’indignazione (giusta, ma non sufficiente) legata agli sprechi, alla corruzione e catalizzando la propria azione nella critica delle grandi opere, della cementificazione, concentrandosi contro lo sviluppo in/sostenibile legato alle politiche di sfruttamento delle risorse territoriali (anch’esse tutte cose condivisibili).

Però l’impressione è che si sia perso per strada il nodo centrale: le dinamiche della precarizzazione (che è un altro piano rispetto a quello dell’intervento nel lavoro precario e gratuito dell’Expo, intervento legittimo, ma uno dei tanti interventi legittimi).

L’Expo è sbagliata per tutte le cose sopra elencate ma l’esposizione universale, come altre grandi opere, deve essere combattuta soprattutto poiché sottrae risorse a ciò che dovrebbe invece essere fatto: cambiare il workare state, introducendo politiche di reddito capaci di ridurre le precarizzazione. Ovvero, la necessità è quella di riproporre con continuità l’orizzonte di un nuova civiltà di diritti per i nuovi soggetti precarizzati. In questi tempi della precarietà se ne parla di meno – poiché nella crisi qualsiasi lavoro va bene – ma rimane la madre di tutti i mali (compresa la crisi).

È la causa della pauperizzazione generale, della perdita dei diritti, dell’impoverimento della produzione italiana, della fuga di cervelli, dello spreco delle capacità e delle conoscenze accumulate dalle generazione precarie e smarrite in lavori dequalificati, della criminalizzazione dei migranti, e del razzismo strisciante. E non ultimo – volendo fare i liberal – la precarietà è anche causa della generale perdita d’importanza del capitalismo nostrano (poiché le imprese se possono guadagnare abbassando il costo del lavoro eviteranno di investire sull’innovazione).

Quindi l’Expo è un male poiché sottrae risorse a una visione più giusta e più ampia del futuro che dovrebbe addirittura unire in un tratto antagonisti e sinceri democratici (sempre che esistano)

Il primo obiettivo della Mayday avrebbe dovuto essere quello di una redistribuzione della ricchezza prodotta, prima ancora di porre il problema legittimo della qualità di questa ricchezza.

Finché ci sono sacche estesissime di povertà e precarietà subordinare la riappropriazione della ricchezza alla critica qualitativa dello sviluppo è un errore politico monumentale… chi non percepisce le implicazioni pratiche di questo passaggio è miope o non si misura quotidianamente con le contraddizioni del presente.

Perso di vista questo punto, la contestazione all’Expo è diventata molto più debole, unione di spezzoni separati, di lotte importanti ma locali, unite da piccole assemblee, ma non da una visione comune. La Mayday del 2015 è sempre stata percepita come una data rischiosa, eppure l’unico modo per tutelare un corteo senza dover mettere in campo legioni di servizi d’ordine – cosa difficile e anche, forse, dispersiva di energie – è quello di caricare politicamente l’evento esigendo l’appropriazione delle ricchezze da parte dei più, costi quel che costi, unito alla minaccia profetica di una ferma ritorsione verso i responsabili delle speculazioni e dello sperpero di ciò che ci spetterebbe, rilanciando un progetto reticolare potente con queste indicazioni.

Più è alto l’obiettivo e più alta è la tensione, più chiara è anche la gestione successiva (ma non per questo è facile). È già successo – in condizioni diverse, certo.

La “rabbia precaria” sarebbe dovuta rimanere come architrave del corteo per rappresentarne l’unità progettuale, forse avrebbe allontanato qualcuno, ma avrebbe anche imposto un’autorevolezza a un corteo che impostato come sommatoria di micro-macro-vertenze è diventato fortemente penetrabile e vulnerabile con tutte le conseguenze che abbiamo visto [le ripetiamo: gli scontri in piazza sono diventati una guerra fra bande (questo è il problema, non gli scontri!), e la Reazione (in questo termine non c’è nessuna semplificazione) ha potuto giocare le sue carte terrificanti della totale delegittimazione della contestazione Noexpo nella forma peggiore possibile “difendendo” le povere vittime dei comitati che hanno preso parte alla Mayday che avrebbero voluto, ed avrebbero dovuto, poter manifestare pacificamente!”].

L’Expo rimane il vero blocco di interessi a cui imputare la devastazione territoriale di Milano e il saccheggio di risorse più che mai necessari ai territori e precari/e per autogovernare se stessi e la propria vita. La Mayday poteva diventare un problema in questo senso, un’azione continua di condanna avrebbe creato difficoltà e seminato inquietudine.

Il senso è chiaro: la corruzione, i ritardi, l’infiltrazione mafiosa, i posti di lavoro promessi e mai arrivati, i buchi di bilancio eventuali devono rimanere motivo di indignazione, al limite possono essere imputati allo stile tipico della superficialità e approssimazione italiota, ma non devono assolutamente essere visti congiuntamente come un Sistema organico e organizzato che leva risorse ai più per dare a pochi. La situazione è così diventata critica per i movimenti e favorevole per i Poteri Forti: il peggior pericolo è diventato il Capro Espiatorio…

FEDELI ALLA LIRA: OVVERO, NON CREDERE NEI MEDIA!

Una nota d’obbligo. Ciò che è successo colpisce duramente chi si era esposto come organizzatore, ma la responsabilità è in verità limitata da un contesto in cui pochi (chi?) potrebbero affermare, senza essere ridicoli, di poter dominare una situazione così difficile e complessa. Semplicemente le contraddizioni devono essere affrontate anche prevedendole e non solo sperando che non si manifestino.

Inoltre parecchi punti dolenti vengono da lontano: i movimenti faticano a trovare una lettura unica delle dinamiche perverse della società contemporanea, troppe le divergenze forse alimentate dalla diffidenza fra le diverse realtà, che è alta, come la gelosia dei propri percorsi. Poi, nella cosiddetta sinistra tradizionale – e non aiuta – vi è un vuoto culturale e politico imbarazzante, e una mancanza di coraggio ancora più eclatante: basti leggere i pezzi sui quotidiani storici (tipo Manifesto) o ascoltare (fatelo se non ne avete avuto la possibilità) la registrazione della diretta su Radio popolare, oppure il microfono aperto successivo alla manifestazione. Oppure i vari commenti politici…. Anzi di più: non solo mancano la lucidità o il coraggio, ma vi si nota un atteggiamento addirittura pre-giudicante!

Non bisogna mai stancarsi di far notare ciò: fa specie che chi è oggettivamente corresponsabile del dilagare della precarietà (che tutto ha distrutto… una generazione dopo l’altra, le nostre generazioni, ma anche l’influenza dei partiti e dei media sinistrorsi – guarda te il destino quanto è beffardo!) giudichi con durezza i tentativi di autorganizzazione in un contesto obiettivamente difficilissimo.

Si pretendono risultati chiari, politici, immediati, si chiede con una certa impazienza che ciò che è stato fatto dalla classe operaia in decine e decine di anni, venga riproposto dai precarizzati in un decennio, e si ignora (ma perché lo ignorano? possibile che non rileggano criticamente la storia?) quali difficoltà umane, culturali, sociali siano necessarie per un’accumulazione originaria del sapere sperimentale, elemento vitale per rifondare una scienza politica.

Vista anche e soprattutto l’eredità poco consistente del patrimonio politico passato (anche questa è colpa nostra?). Con lo stesso metro, facendo il confronto fra possibilità economiche, organizzative e esperienza storica dovrebbero pretendere parimenti che la Cgil prendesse il potere alle Nazioni Unite ?!

Vabbè, questo, a ben vedere, è quasi scontato…

ERRARE O PERSEVERARE?

Per quanto il primo maggio non sia stata una buona giornata per le lotte sociali che si sono rappresentate nella Noexpo Mayday lo sforzo compiuto da queste realtà è enormemente più importante delle critiche e dei piagnistei moralisticheggianti che si sono uditi successivamente.

I precari e le precarie fanno quello che possono, sbagliando molte volte, imparando altre.

Errare è umano, ai precari non resta che perseverare, basta non rimanere 40 anni dalla parte del torto…

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Dalla parte del mostro: sul primo maggio e oltre – Hobo Bologna 

Iniziamo con un punto fermo, con una scelta di campo, con un’assunzione di parte: noi siamo stati nello spezzone delle lotte sociali, in quello spezzone cioè che a Milano si è organizzato per provare a determinare punti di rottura con l’Expo e la sua logica. Solo a partire da questa presa di posizione è possibile cominciare a discutere delle valutazioni del primo maggio.

La prima valutazione da fare è che il primo maggio contro l’Expo è stata una giornata importante. Lo è stata per la partecipazione, per i livelli di conflitto, per la multiforme tensione di rifiuto espressa e anche per le questioni che pone. I commenti a caldo e del giorno dopo circolati nei media ed espressi dai rappresentanti politici non stupiscono, vi è una ricorrenza che non merita qui particolare attenzione: è infatti inutile sprecare parole sui tentativi di criminalizzazione, falsificazione e mistificazione, ognuno fa il suo lavoro per la parte a cui fa riferimento. L’elemento che va invece sottolineato è un altro: l’ormai completa autonomizzazione di media e istituzioni politiche rispetto al contesto sociale. Dentro la crisi, gli uni e le altre si pongono sempre meno il problema di consenso e di comprensione dei contesti sociali (anche di quelli da controllare e all’occorrenza criminalizzare), assumendo invece l’irreversibile distacco rispetto ai soggetti colpiti dalla crisi. Il loro problema diventa esclusivamente quello del mantenimento e riproduzione delle proprie forme di comando e privilegio: il potere diventa definitivamente autistico. Questa autonomizzazione si riflette anche tra opinionisti e realtà di movimento che, di fronte alle profonde trasformazioni e terremoti prodotti dalla crisi, scelgono la scorciatoia dell’autoreferenzialità. Meglio conservare quello che si ha: se non è il potere, almeno è una cattedra da cui parlare o una struttura da mandare avanti. Non è un caso che più o meno tutti parlano delle “ragioni del No Expo oscurate”, anche coloro a cui di quelle ragioni è mai fregato nulla. Come se le ragioni vivessero disincarnate dai corpi che lottano per affermarle, nel cielo delle idee e non nella dura materialità della terra.

Ecco allora la specularità delle versioni. È stata rovinata la festa, ci dicono in coro Renzi e Repubblica, Mattarella e il Corriere della Sera, riferendosi alla loro fiera internazionale. È stata rovinata la festa, ripetono in coro “il manifesto” e vari compagni ricordando i bei tempi delle sfilate colorate. Ma piaccia o non piaccia, quelle sfilate non torneranno più, perché legate a un’altra fase e ad altri pezzi di composizione sociale. Perché in mezzo c’è una crisi divenuta permanente, un impoverimento di massa, precarietà e disoccupazione come elementi strutturali. In chi concretamente non arriva alla fine del mese, in chi non ha i soldi per pagare l’affitto, in chi per tirare a campare è costretto a lavoretti per nulla creativi e completamente serializzati, nei giovani che di un futuro non hanno nemmeno sentito parlare, la voglia del colore tende a spegnersi.
Una parte di queste figure era presente al corteo del primo maggio. Molti di questi componevano lo spezzone delle lotte sociali, forse il più numeroso, sicuramente quello più giovane e più europeo – dell’Europa reale, non di quella che popola i sogni degli europeisti di sinistra. Chi parla riduttivamente di “blocco nero” è ancora una volta ostaggio della mania dei colori: una felpa è una felpa e un passamontagna è un passamontagna, indipendentemente dal loro colore servono innanzitutto per impedire l’identificazione. Sotto – ed è la sostanza che conta – vi sono la determinazione politica a rompere divieti e compatibilità, la rabbia sociale di chi non accetta le condizioni di impoverimento e privazione imposte. Chiariamo ancora una volta: la rabbia non è né buona né cattiva, è un dato di realtà. Non è in sé un progetto politico, ma è difficile immaginare un progetto politico che non dia forma anche alla rabbia.
Lo spezzone delle lotte sociali si è mosso in questa direzione, provando a praticare l’obiettivo (la conquista dell’agibilità del centro cittadino) e rivendicando un legittimo uso della forza. In questa direzione, è definitivamente tramontata quella fobia dell’immaginario simbolico che per tanti anni – anni molto diversi da questi, ripetiamo – ha caratterizzato il movimento e le sue pratiche, nella ricerca del connubio tra conflitto e consenso, che talora diventava connubio tra simulazione ed elezioni. Quell’immaginario ha condotto a una sostituzione dei soggetti sociali con una loro rappresentanza simbolica; ora, nella durezza della crisi, i primi irrompono sulla scena, in forme spesso caotiche e contraddittorie, non colorate e maledettamente crude. Il problema che adesso ci dobbiamo porre è come evitare di ricadere in altre dimensioni puramente simboliche, in cui il luccichio della vetrina da infrangere sostituisce quella dei media da compiacere. Rompere con l’Expo significa anche rompere con l’attrazione per la merce-evento. Colpire un simbolo fa male alla controparte solo se si incarna in un processo di lotta e possibilità sociale (e ovviamente colpire una gelateria non fa male nemmeno ai diabetici). L’obiettivo da praticare il primo maggio erano le recinzioni d’acciaio e di scudi che impedivano di conquistare il cuore della metropoli, e i livelli significativi del conflitto si sono raggiunti nelle ripetute occasioni in cui migliaia di persone hanno provato a forzarle. Senza arretrare di fronte ai lacrimogeni e senza farsi abbagliare dai luccichii, che distraggono lo sguardo e non permettono di praticare l’obiettivo.

Ancor più dopo il primo maggio di Milano, è evidente come l’alternativa sia tra una scommessa in avanti e una scelta di marginalità. E in questa fase marginalità vuole innanzitutto dire ritrarsi nei propri orticelli di fronte ai nodi sociali e politici, scegliere cioè di adagiarsi nei propri colori e rifuggire da una composizione mostruosa, che non si capisce e spaventa. Chi parla di devastazione di Milano o è in malafede, oppure non ha idea di cosa sia la devastazione della crisi. In ogni caso, preferisce guardare altrove, al proprio ombelico, alle proprie certezze, a quello che non c’è più. A chi parla di movimento asfaltato chiediamo: chi è questo movimento a cui fate riferimento? Le sue rappresentanze politiche? Chi aspetta il sole della coalizione sociale? Chi ha nostalgia di quando i precari erano creativi e colorati? Prima ancora di ogni critica o distanza politica, c’è un problema di composizione di riferimento: la composizione a cui fanno riferimento coloro che piangono sulla MayDay No Expo rovinata è marginale politicamente, non espansiva, certo non scomparsa ma in tendenza non passano da lì i potenziali punti di rottura e generalizzazione. Il punto è che la crisi ha prodotto nuovi soggetti, caotici e mostruosi com’è la crisi, che possono passare dall’accettazione del lavoro gratuito al nichilismo della vetrina fine a se stessa. Ma è di qui che dobbiamo passare, dalla scelta del mostro: non per esaltarlo, ma per trasformarlo. Per trasformare cioè l’apparente rassegnazione in rifiuto e la rabbia in progetto di rottura e costruzione di autonomia. Chi non accetta questa sfida e si volta da un’altra parte, come è successo a Milano, non solo sta al gioco dei buoni e dei cattivi, ma non dà alcun contributo alla trasformazione di quelli che – belli o brutti che siano – sono i soggetti reali.

Il primo maggio contro l’Expo non è stato un riot, perché le rivolte sono fatte da soggetti sociali che si ribellano alla condizione di marginalità, non da un insieme di realtà militanti che si coordinano e provano a dare direzione all’eccedenza. Le rivolte avvengono, le lotte si organizzano. Le une possono essere alimento delle seconde, nella misura in cui la politicità delle prime trova forma organizzata e si generalizza. Sicuramente, però, dobbiamo porre i problemi all’altezza di una fase storica in cui la rivolta – dalle banlieue a Londra fino ad arrivare a Baltimora – diventa piano della politicità per fette crescenti del proletariato metropolitano. All’oggi sappiamo quello che non c’è più (e onestamente non ne sentiamo neppure la nostalgia), non abbiamo ancora trovato quello che ci può essere – e di questo ne sentiamo l’urgenza. Quello di cui c’è bisogno sono nuove pratiche di lotta e radicamento progettuale adeguate alla fase e alla composizione sociale colpita dalla crisi. C’è bisogno di reti e connessioni non solo sull’evento, ma sostenute dalla produzione di discorso politico avanzato e metodi comuni, da tensione strategica e intelligenza tattica.

A chi osserva il proprio ombelico, voltando sdegnato lo sguardo dal mostro per cecità o opportunismo, diciamo con il buon senso materialista: benvenuti nel deserto del reale. In questo deserto dobbiamo organizzarci, perché l’unico mondo possibile è quello che passa dal rivoluzionamento di quello che viviamo. Ben sapendo, come ci ricordava il leader delle pantere nere Huey P. Newton, che “il deserto non è un circolo. È una spirale. Quando siamo passati attraverso il deserto, niente sarà più lo stesso”.

Ps: due giorni dopo la manifestazione contro l’Expo, a Bologna insieme a tante e tanti abbiamo contestato il ducetto Renzi a una Festa dell’Unità svuotata di qualsiasi legittimità. Abbiamo resistito alle cariche della polizia e al dispositivo di militarizzazione del PD, abbiamo dimostrato ancora una volta che attaccare il partito della nazione è possibile e necessario. E che l’opposizione alla logica dell’Expo si costruisce il primo maggio a Milano e tutti i giorni sui nostri territori.