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Diritto penale del nemico, criminalizzazione dei movimenti

Il contributo dell’avvovato Claudio Novaro al convegno “Lo stato penale di polizia: modello di gestione dell’ordine sociale e programma politico in atto”, che si è tenuto a Genova il 19 luglio 2019

Sono da tempo convinto che il ricorso a paradigmi generali, quali il diritto penale del nemico, per descrivere le modalità di criminalizzazione dei  movimenti sociali, comporti il forte rischio di impoverire la decifrazione e l’interpretazione dei fenomeni reali.

Il significato che a tale modello ha attribuito il suo “inventore,  il giurista tedesco Günther Jakobs, mi pare molto diverso dall’uso che se ne fa nel dibattito italiano.

Jacobs ipotizza uno schema di tendenziale de-giurisdizionalizzazione nell’applicazione della risposta sanzionatoria, orientato verso soggetti che, rompendo il patto sociale e ponendosene al di fuori, devono essere trattati come veri e propri nemici dell’ordinamento giuridico, attraverso la perdita dei diritti propri del cittadino.

Fulcro di tale concezione è la contrapposizione tra un modello di legalità penale indirizzato ai cittadini, con le garanzie e i diritti tipici degli stati democratici, e uno riservato a coloro ai quali  si nega l’appartenenza alla propria comunità e a cui, in forza della loro pericolosità sociale, vanno applicate risposte ispirate alla logica di guerra.

Ora, mi pare evidente che si tratti di un’ accezione in cui possono rientrare esperienze diverse (dalla detenzione amministrativa utilizzata nei territori occupati da Israele nei confronti dei palestinesi, sino alle riforme legislative introdotte in America con il Patriot act e applicate a Guantanamo) ma non certo quella italiana.

Per quanto concerne il nostro paese, a tale modello teorico possono forse avvicinarsi, ma solo avvicinarsi, il cosiddetto diritto penale dell’immigrazione, cioè la normativa speciale forgiata e utilizzata nei confronti dell’immigrazione clandestina, coltivata con solerzia da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi anni, e, almeno in parte, i circuiti di  differenziazione penitenziaria, amministrativi e giudiziari, applicati per tipo d’autore a soggetti pericolosi.

Certo alcuni aspetti del modello di Jacobs, in particolare in tema di progressiva soggettivizzazione del diritto penale, sono riscontrabili anche da noi.

Ma gli strumenti utilizzati sono normalmente quelli dell’ortodossia giudiziaria, che vengono piegati a particolari esigenze di controllo sociale.

Quel che caratterizza la realtà italiana in tema di processi legati alla conflittualità sociale è, piuttosto, un progressivo allontanamento dai principi del garantismo giuridico, da quello di legalità (per cui si punisce per ciò che si è fatto e non per chi si è) a quello di offensività, sino ad un pericoloso slittamento verso funzioni meramente preventive e neutralizzatrici degli strumenti sanzionatori.

Credo, allora, che sia necessario, tanto più in tempi bui come gli attuali, segnati anche sul terreno dell’ordine pubblico dai cosiddetti decreti sicurezza imposti dal ministro dell’interno, uno sforzo di definizione e analisi.

Se la letteratura in tema di movimenti sociali è in Italia ormai molto ampia, più ridotta è, invece, quella che ha cercato di analizzare le dinamiche di piazza, le modalità di condotta dei diversi attori sociali e istituzionali nel corso di un conflitto sociale dispiegato, e ancor più limitata  è quella che si è interrogata sulle modalità di attuazione della repressione giudiziaria, sull’articolazione e la pluralità di strumenti e strategie utilizzati.

Penso che per affrontare tali profili ci sia bisogno, anzitutto, di un paziente lavoro di raccolta di informazioni, che punti a descrivere le tendenze in atto.

Sotto questo profilo, più che di repressione penso si debba parlare di strategie repressive o punitive, nel senso che, se la risposta giudiziaria continua ad essere uno dei pilastri fondamentali di tale strategie, sono andati nel tempo affinandosi e articolandosi gli strumenti utilizzati, non più solo il processo penale ma anche una pluralità di dispositivi aggiuntivi, soprattutto sul terreno della risposta preventiva (fogli di via, avvisi orali, sorveglianza speciale).

Se il fine ultimo resta comunque quello della eliminazione di qualsiasi forma di conflittualità sociale, le modalità con cui avvicinarsi al risultato restano le più diversificate.

In questi ultimi anni, sul piano strettamente processuale, si possono un po’ grossolanamente individuare due modelli distinti largamente applicate dagli inquirenti.

Il primo, applicato con continuità ma senza particolari risultati nei confronti delle aree anarchiche, si fonda sulla contestazione di reati associativi.

Si tratta di una modalità che permette di effettuare un numero davvero esorbitante di intercettazioni ambientali e telefoniche, ispirate non solo all’acquisizione di informazioni sui fatti oggetti del procedimento in cui vengono disposte, ma alla prospettiva di  mantenere un monitoraggio, un controllo, investigativo continuo su di una specifica area politica.

I risultati di tal attività captativa potranno poi essere utilmente utilizzati in uno dei tanti processi avviati dalle Procure disseminate per l’Italia.

E’ quello che è successo nel cosiddetto processo Scripta Manent a Torino, chiusosi ad aprile con 5 condanne (due delle quali di particolare entità) e 18 assoluzioni, in cui si sono recuperate intercettazioni effettuate  da 5/6 Procure diverse in un arco di circa 13 anni.

Il secondo assume invece le caratteristiche di un modello, verrebbe da dire con un ossimoro, di alluvione selettiva.

Alluvione perché si avvia e si istruisce un’enorme mole di processi, anche per fatti bagatellari, spesso con qualificazioni giuridiche incongrue o sovradimensionate, contro le aree ritenute più pericolose per l’ordine pubblico (centri sociali, movimenti radicati sul territorio), con la consapevolezza che anche modeste condanne, quanto a sanzioni irrogate, se ripetute nel tempo hanno l’effetto di inibire e disattivare la partecipazione collettiva.

Selettiva perché, di fronte a reati collettivi, di folla, commessi o astrattamente addebitabili ad una pluralità di persone, non si svolgono indagini per individuare tutti i possibili autori del fatto ma ci sia accontenta dell’identificazione dei soli soggetti conosciuti appartenenti alle aree antagoniste, con l’evidente prospettiva di eliminare, attraverso la neutralizzazione dei militanti più attivi, qualsiasi forma di conflitto.

In entrambi i casi, questo almeno rivela l’esperienza torinese, le misure cautelari giocano un ruolo rilevante e vengono richieste, e spesso disposte, sulla base di una torsione fortemente sostanzialistica e soggettivistica del modello di legalità penale.

Non è un caso che le esigenze cautelari in genere richiamate nei provvedimenti applicativi  si fondino in genere non su ragioni endo-processuali, di tutela della genuinità della prova o per evitare il pericolo di fuga dell’indagato, ma su esigenze di tutela della collettività, connesse alla pericolosità sociale del presunto autore del reato.

Ed è proprio su questo terreno che si sperimentano quegli evidenti scivolamenti verso il diritto penale d’autore (per cui ciò che conta non sono tanto le circostanze e le modalità del fatto quanto la personalità dell’indagato) e, soprattutto, quel pressoché esclusivo affidamento al sapere della Polizia, che si arroga il compito di definire, attraverso il computo delle denunce e la ricostruzione del percorso biografico della persona sottoposta ad indagini, il suo grado di pericolosità e i rischi di recidivanza connessi alla sua permanenza in libertà.

E’ su questo crinale che le misure applicate finiscono per perdere la loro caratteristica appunto cautelare, per acquisire quella punitiva, di anticipazione della sanzione futura, e/o preventiva, vale a dire orientata all’incapacitazione sociale dell’indagato.

Si tratta di uno snodo particolarmente inquietante, segnato oltretutto da un’evidente difficoltà culturale della magistratura giudicante, spesso ossequiente rispetto alle richieste che provengono da quella inquirente o dall’autorità amministrativa e sempre meno consapevole delle funzioni di filtro e di difesa delle garanzie ad essa assegnate dall’ordinamento.

Claudio Novaro

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