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Denunciamo Libia e Italia al Comitato Onu antitortura

Dopo giorni di notizie frammentarie provenienti da alcuni siti somali, e dopo la smentita ufficiale del governo libico, sembra confermata da fonti indipendenti la notizia – pubblicata il 13 agosto in prima pagina da Liberazione – della uccisione di un numero imprecisato di migranti somali detenuti nel carcere di Bengasi, alcuni, forse cinque, durante un tentativo di fuga, altri, sembrerebbe quindici, che nella fase successiva alla fuga sarebbero stati percossi a morte. Nelle proteste scaturite dalla repressione violenta del tentativo di fuga, culminato con la strage, altre decine di somali (sembrerebbe 50) detenuti all’interno della stessa struttura detentiva di Bengasi, sarebbero stati gravemente feriti con manganelli elettrici, bastoni e coltelli, utilizzati da parte della polizia libica che si scagliava contro tutti coloro che si riteneva avessero partecipato alla sommossa. Una vicenda tragica sulla quale occorre indagare. Quanto è successo a Bengasi lega direttamente Italia e Libia nelle responsabilità per gli abusi commessi ai danni di migranti dopo i recenti accordi di collaborazione. I migranti somali uccisi a Bengasi erano probabilmente detenuti da mesi ma potrebbero anche essere gli stessi somali consegnati in queste settimane dalle autorità italiane alle forze di polizia libiche impegnate nel pattugliamento congiunto nel canale di Sicilia. In ogni caso, come tutti i somali in fuga da un paese dilaniato dalla guerra civile e senza una autorità statale centrale, avrebbero comunque diritto al riconoscimento di una forma di protezione internazionale. Non si tratta certamente di “questioni interne” sulle quali la Libia è libera di decidere come crede. La Commissione Europea, così propensa ad avvalersi della Libia nelle pratiche di contrasto dell’immigrazione irregolare, dovrebbe nominare al più presto una Commissione di inchiesta al fine di verificare il rispetto dei diritti umani in quel paese, precondizione per la stipula di qualunque accordo tra l’Unione Europea ed i paesi terzi.L’Italia dovrebbe inviare al più presto una propria commissione parlamentare, così come stabilito in un ordine del giorno approvato all’unanimità dal Parlamento nel febbraio del 2009, in occasione della ratifica del Trattato di amicizia italo-libico. Ma si può dubitare che Berlusconi, in occasione della prossima visita a Tripoli per il primo anniversario della firma del Trattato di amicizia voglia (o possa) aprire la questione del rispetto dei diritti umani dei migranti in quel paese. Diritti umani dei migranti che anche in Italia, dopo l’approvazione degli ultimi provvedimenti sulla sicurezza, sono sempre più sottomessi alla discrezionalità delle forze di polizia.Il governo italiano, come altri governi europei, è sempre più convinto che “esternalizzando” le pratiche dei controlli di frontiera e ricorrendo a prassi informali, senza alcuna documentazione delle attività di respingimento sommario e collettivo poste in essere, qualunque abuso commesso ai danni dei migranti potrà restare impunito. La Libia, del resto, non fa parte del Consiglio d’Europa o della Unione Europea, e dunque le regole comunitarie o la giurisdizione della Corte Europea dei diritti dell’uomo non sono applicabili nei confronti di quello stato, a meno che le stesse unità militari europee non abbiano fatto ingresso nel territorio libico per riconsegnare migranti soccorsi in acque internazionali (come avvenuto peraltro il 7 e 8 maggio di quest’anno, quando la Marina Militare italiana ha sbarcato sul molo del porto di Tripoli decine di migranti, inclusi donne e minori ).Una volta respinti in Libia, o quando sono stati rastrellati in quel paese, a seguito degli accordi conclusi con l’Italia nel dicembre del 2007 (Protocolli operativi) e nell’agosto 2008 (Trattato di amicizia italo-libico), per i migranti rinchiusi nelle carceri e nei centri di detenzione libici sembra non esserci più scampo, soprattutto se provengono dall’africa sub-sahariana, come dalla Somalia o dall’Eritrea, o se sono di fede cristiana. Per loro mesi, talvolta anche anni di detenzione senza alcun controllo giudiziario, violenze ed abusi di ogni genere, con la prospettiva, talvolta il miraggio altre volte la minaccia, di un rimpatrio che in molti casi non avverrà mai. Tuttavia, anche se i governanti di Libia ed Italia si sentono al sicuro, coperti da una opinione pubblica disinformata e sempre più xenofoba, certi che le loro malefatte non verranno mai scoperte o sanzionate dagli organismi della giustizia internazionale, entrambi questi paesi hanno aderito a varie Convenzioni internazionali sui diritti umani e tra queste, oltre al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, al quale la Libia ha aderito dal 1970, alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la Tortura, e potrebbero essere dunque sanzionati dal Comitato per i diritti dell’Uomo e dal Comitato per la prevenzione della tortura (Cat) delle Nazioni Unite per le violazioni del Patto e di questa Convenzione. Da testimonianze raccolte da fonti diverse (tra tutti, Human Rights Watch ed Amnesty International) si ricava infatti che nelle carceri libiche la tortura ed i trattamenti inumani o degradanti, come gli abusi ai danni di minori e giovani donne, sono eventi diffusi e generalizzati, soprattutto con riferimento ai migranti di fede religiosa cristiana o provenienti dai paesi dell’Africa sub-sahariana.Si può dunque ritenere che la pratica dei “trattamenti inumani o degradanti”, che può assimilarsi alla tortura, nei confronti dei migranti rinchiusi nelle carceri o nei centri di detenzione libici, e che nei casi più gravi, come a Bengasi, è giunta fino alla uccisione dei detenuti, sia un fatto quotidiano, malgrado da anni siano avviate attività di collaborazione e di formazione congiunta tra la polizia libica e quella italiana, presente in quel paese con missioni tecniche e ufficiali di collegamento. Per questa ragione sia l’Italia (che respinge in Libia i migranti bloccati nel Canale di Sicilia), che la stessa Libia (che li respinge nei paesi di provenienza o li detiene in condizioni inumane) andrebbero deferite davanti agli organi delle Nazioni Unite che vigilano sull’applicazione delle Convenzioni a difesa dei diritti dell’uomo, tra queste una delle più importanti, la Convenzione contro la tortura.Non sembra che in questo momento sia possibile presentare ricorsi dalle carceri libiche, viste anche le difficoltà incontrate nella presentazione di un ricorso individuale alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, da parte degli avvocati dei richiedenti asilo respinti a maggio dall’Italia in Libia e tuttora detenuti a Tripoli. I “ricorsi individuali” al Cat possono essere esaminati solo se lo Stato accetta l’indagine del Comitato. In diversi casi ricorsi individuali presentati al Comitato contro la Tortura sono stati respinti perché i ricorrenti non erano riusciti a fornire le prove necessarie. La via dei ricorsi individuali è dunque assolutamente impervia e potrebbe anche esporre i ricorrenti a gravissime ritorsioni da parte di quegli stessi paesi nei quali si trovano (e verso i quali fanno ricorso). E’ tuttavia possibile che lo stesso Comitato nomini un relatore speciale per svolgere una indagine approfondita, che potrebbe portare all’apertura di un procedimento, e poi eventualmente alla condanna degli stati responsabili delle violazioni.Per questa ragione chiediamo a tutte le organizzazioni internazionali umanitarie, ed alle associazioni di migranti, di inviare al Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite atti e materiali di denuncia per le violenze e gli abusi commessi ai danni dei migranti non solo nel carcere di Bengasi, dove sarebbero avvenuti gli ultimi più tragici eventi, ma in tutta la Libia, come nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, in modo da sollecitare l’apertura di indagini da parte del Comitato e giungere finalmente ad un accertamento ufficiale, se non ad una sanzione, delle violazioni del diritto internazionale da parte di questo paese, e di tutti quei paesi che collaborano nella cd. “guerra all’immigrazione illegale”. Una “guerra” che non potrà mai avere vincitori, ma che vedrà soltanto aumentare sempre più il numero delle vittime, perché è una “guerra” contro i migranti in fuga, e non contro le organizzazioni criminali che li sfruttano.
Fulvio Vassallo PaleologoUniversità di Palermo
Il testo integrale dell’appello e le notizie sulla strage su fortresseurope.blogspot.com

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