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Dei conflitti e delle pene

La magistratura italiana picchia duro sui movimenti: migliaia di denunce per reati connessi a fatti di piazza e lotte di massa, di cui anche solo un censimento completo è difficilissimo vista la mole. Già questo sarebbe sufficiente per interrogarci su come rispondere collettivamente, ma la realtà che abbiamo di fronte, purtroppo non presenta solo un dato quantitativo preoccupante, ma anche e soprattutto un salto qualitativo.

La prima tendenza che balza agli occhi è l’abuso da parte della Magistratura di misure cautelari completamente sproporzionate rispetto ai fatti contestati. L’utilizzo di aggravanti e fattispecie di reato molto gravi, che quasi sempre cadono durante la fase dibattimentale del processo, rende le misure cautelari uno strumento direttamente e impropriamente punitivo e spesso di inibizione e violazione della libertà di manifestare.

Lo vediamo con l’uso oramai indiscriminato, dopo la sentenza per il G8 genovese, del reato di devastazione e saccheggio, quanto con l’aggravante di terrorismo usata in Val Susa contro quattro giovani attivisti No Tav in carcere da mesi con un regime detentivo molto duro. Mentre gli studenti che nel 2010 sono andati a bussare alle porte del Senato con i loro libri scudi stanno affrontando un processo con l’aggravante di “attentato agli organi costituzionali”. Anche nell’ultima ondata repressiva che ha toccato Roma e Napoli, da una parte il movimento di lotta per la casa e dall’altro i disoccupati organizzati del comitato Precari Bros, le misure cautelari sono state comminate anche grazie all’ipotesi nel primo caso del reato di rapina aggravata, per il mancato ritrovamento di manganelli e scudi durante la manifestazione del 31 ottobre scorso, nel secondo dell’ancora più fantasioso reato di “estorsione del lavoro”.

La seconda tendenza all’opera in questi anni è l’utilizzo di dispositivi non penali ma amministrativi. Ad esempio, il blocco della circolazione in questi anni è diventata una forma di lotta e di sciopero metropolitano molto frequente. Ma aprire un procedimento per “blocco del traffico” o “interruzione di pubblico servizio” vuol dire dare il via ad un processo che con tutta probabilità finirà nel dimenticatoio dei nostri tribunali ingolfati. Molto meglio in termini punitivi l’utilizzo della sanzione amministrativa che permette di comminare subito multe salatissime, come accaduto anche ad Alberto Perino per l’invasione di un cantiere in Val di Susa nel 2010, o come successo più recentemente con le multe milionarie ai lavoratori del trasporto pubblico locale, colpevoli di sciopero. In tempo di austerity e di povertà la sanzione pecuniaria, che accorcia i tempi della giustizia penale, sta diventando la norma per impedire il conflitto sociale.

In questo quadro di alta punibilità sociale, è necessario sottolineare invece la sostanziale impunità di cui godono le forze dell’ordine, anche quando sono evidenti le responsabilità in episodi gravissimi come le torture e i pestaggi. Qui vige un meccanismo esattamente opposto, di derubricazione e “depenalizzazione” di reati, che dovrebbero avere l’aggravante di essere commessi dai corpi dello Stato, come nei casi paradigmatici della Diaz e Bolzaneto, fino ad arrivare ai tanti casi violenze e omicidi nelle caserme o nelle carceri. Un’impunità de facto, confermata dall’introduzione di un reato di tortura edulcorato, proprio per tutelare gli uomini in divisa, che non fa che alimentare la cultura autoritaria e fascistoide sempre più diffusa tra le forze dell’ordine.

Tutti i dispositivi sopra descritti si dispiegano poi in un contesto culturale e politico segnato fortemente dagli anni dell’anti-berlusconismo, da quel “populismo penale”, fatto di retorica e mantra della legalità e dalla delega in bianco alla magistratura di risolvere i conflitti politici. Il giustizialismo di centro-sinistra e il giustizialismo anti-casta sono così diventati pericolosi alleati.

Il 15 marzo saremo in piazza insieme a tanti, per affermare che la legittimità delle lotte sociali non può essere messa in discussione dalla fredda applicazione di una legalità a senso unico. Il diritto e la giustizia non sono dogmi immutabili ma il risultato di dinamiche sociali e rapporti di forza. Quello che crediamo necessario è la costruzione di una nuova cultura garantista, capace di essere culturalmente egemone nella società, per tutelare il conflitto sociale e garantire il diritto alla resistenza. Non bastano più generiche dichiarazioni d’intenti o la lotta a una indistinta “repressione sociale”, ma campagne, proposte, vertenze che riescano a ottenere delle vittorie. Non è sufficiente avere ragione, ma bisogna conquistare spazi di libertà per tutti.

da Dinamo Press

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