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Cosa non torna nella sentenza su Mimmo Lucano

Le motivazioni della sentenza dipingono un uomo assetato di denaro e di potere, che ha utilizzato l’accoglienza come semplice pretesto per perseguire i propri interessi personali. Ma molte cose non tornano: e una lettura attenta delle 904 pagine scritte dai giudici di Locri rivela una verità molto diversa

di Sergio Bontempelli

«Avevamo definito l’ex Sindaco di Riace un gran pasticcione. Invece i giudici del Tribunale di Locri lo considerano un gran furbacchione, dotato di “furbizia travestita da falsa innocenza”». Così Marco Travaglio, in un articolo sul Fatto Quotidiano, riassume le motivazioni della sentenza su Domenico Lucano, depositate pochi giorni fa dal Tribunale di Locri (qui il testo integrale Sentenza 607_21 LUCANO ).

Il direttore del Fatto non ha dubbi: i magistrati, che hanno «letto e valutato le carte», hanno stabilito che Lucano ha «reinvestito in forma privata» gran parte delle risorse stanziate dallo Stato per l’accoglienza dei migranti. Insomma, quel fiume di soldi riversatosi su Riace non è stato usato per i richiedenti asilo, e neppure per gli abitanti del piccolo Comune calabrese, come ha sempre sostenuto Domenico Lucano: al contrario, è andato ad arricchire l’ormai ex Sindaco, e a costruire la sua fortuna politica.

Da dove trae questa granitica convinzione, il direttore del Fatto Quotidiano? Ma naturalmente (dice lui) dalla lettura attenta delle 904 pagine scritte dai giudici: mentre invece certa sinistra – lamenta Travaglio – «sproloquiava di complotti politici e persecuzioni giudiziarie senza aver letto una riga delle carte».

Su una cosa possiamo dargli ragione: fino a pochi giorni fa, dato che le «carte» non erano disponibili, nessuno poteva averle viste. Solo che, adesso che sono uscite, il giornalista torinese sembra averle lette a righe alterne, una riga sì e una no. Se invece quelle righe si leggono tutte da cima a fondo – come ha fatto ad esempio Marco Revelli  – si arriva a conclusioni molto diverse.

Righe pari e righe dispari

Marco Travaglio si è affidato – potremmo dire – solo alle righe pari, quelle in cui si esprimono giudizi sull’operato degli imputati. Così, per esempio, i giudici osservano che Lucano si rifiutava di allontanare i migranti dai centri di accoglienza, allo scadere del periodo di ospitalità previsto, perché voleva continuare a guadagnare i famosi 35 euro al giorno a persona erogati all’epoca dal Ministero (pag. 161): e sostengono che questo suo movente economico emergerebbe molto chiaramente dalle intercettazioni.

Poi però – ed ecco le righe dispari che contraddicono quelle pari – viene riportata l’intercettazione che dovrebbe «inchiodare» il Sindaco. E si sente Lucano che, parlando con i suoi stretti collaboratori, dice:

«[Dalla Prefettura mi dicono] “non hanno diritto, se ne devono andare!”, e vogliono applicare una regola precisa, quando gli conviene. Io non posso fare questo, io devo avere uno sguardo più alto» (pagg. 180-181).

Si è mai visto un criminale che, per alludere a un traffico illecito di soldi pubblici, parla di «sguardo più alto»? Non è più ovvio interpretare questa affermazione alla luce di quel che Lucano ha sempre detto e sostenuto in pubblico, e cioè che sbattere una famiglia in mezzo a una strada significa tradire i principi a cui dovrebbe ispirarsi l’accoglienza?

Questa discrepanza tra righe pari e righe dispari è una vera e propria costante delle 904 pagine scritte dai giudici di Locri. Per fare un altro esempio tra i tanti possibili, i magistrati si soffermano sulle ispezioni effettuate a Riace dal Ministero dell’Interno, e lasciano intendere che l’ex Sindaco avesse molte cose da nascondere. Eppure, nell’intercettazione riportata a pag. 164 si sente Lucano che dice, ancora una volta a un suo stretto collaboratore:

«[L’ispettore] ha fatto una relazione limitandosi a elencare solo gli aspetti negativi. Ora io chiedo al Prefetto, ufficialmente chiedo, non voglio una visita a campione, voglio una visita integrale… approfondita… approfondita».

Si è mai visto un criminale che, invece di affrettarsi a nascondere tutto, chiede agli ispettori un controllo approfondito sul suo operato?

Pasticci amministrativi

Intendiamoci: le «carte», quelle che Travaglio dice di aver letto con grande attenzione, non restituiscono un quadro idilliaco della situazione a Riace. Incalzato dall’emergenza, il piccolo Comune calabrese versava in una situazione di grave difficoltà, che si traduceva in un clima di vero e proprio caos: secondo quanto raccontano gli inquirenti, molte spese non venivano rendicontate, le risorse destinate ai centri prefettizi venivano spesso usate per i centri Sprar e viceversa (con una inevitabile confusione nei rendiconti dei due sistemi), e alcune associazioni avevano aperto dei centri di accoglienza senza avere alcuna convenzione formale con il Comune o con la Prefettura.

Questa situazione di caos era dovuta a vari fattori. In primo luogo, alla gestione «emergenziale» degli sbarchi da parte delle autorità centrali: dato che Riace si era detta disponibile ad accogliere tutti i migranti che arrivavano sul territorio, la Prefettura aveva finito per convogliare nel piccolo Comune jonico una quantità cospicua di richiedenti asilo. Ogni giorno, ogni settimana venivano inviate decine e decine di nuove persone a cui funzionari comunali e operatori dovevano trovare un posto in accoglienza: si dovevano perciò aprire in fretta e in furia nuove strutture, attrezzarle, individuare gli enti gestori e gli operatori, acquistare generi di prima necessità per accogliere i nuovi arrivati. Ed è naturale che in una situazione del genere «saltassero» procedure, bandi, regole di contabilità e atti amministrativi formali. A ciò si aggiunga che i fondi provenienti da Prefettura e Ministero dell’interno venivano accreditati al Comune con sistematico ritardo, rendendo molto difficile la gestione quotidiana dell’accoglienza.

In secondo luogo, l’arrivo di così ingenti risorse aveva portato ricchezza nel piccolo borgo calabrese, ma non tutti condividevano i principi e le idealità di Lucano: dalle intercettazioni emergono spesso conflitti tra l’ex Sindaco e alcuni abitanti di Riace che sembravano interessati unicamente a «fare cassa» con i soldi dell’accoglienza. In alcuni momenti Lucano manifesta sfiducia anche nei confronti di alcuni suoi collaboratori, che gli paiono dediti più al proprio tornaconto personale che all’impresa politica complessiva. Su questo punto torneremo tra poco, perché – come vedremo – è quello che ha generato i maggiori equivoci.

L’accoglienza come volano di sviluppo: la questione del frantoio

Infine, a provocare questa situazione di «caos amministrativo» c’era, paradossalmente, lo stesso progetto politico di Lucano. Come sappiamo, l’ex Sindaco intendeva l’accoglienza non come semplice «aiuto» a persone venute da altri paesi, ma come strumento e volano di giustizia sociale, di inclusione, di eguaglianza e di sviluppo economico.

Non si trattava cioè di dare solo un posto letto e un pasto caldo ai migranti, cosa pur doverosa: era necessario anche costruire percorsi concreti di inserimento sociale, che valorizzassero saperi, competenze e capacità dei nuovi arrivati, e producessero ricchezza e sviluppo per tutti. Di qui le iniziative che hanno trasformato Riace in un modello conosciuto e studiato in tutto il mondo: le botteghe artigiane aperte dai richiedenti asilo, le borse lavoro, il turismo sostenibile, le imprese e le cooperative costituite insieme da migranti e cittadini «autoctoni», e così via.

Tra i progetti di punta, finiti poi nel mirino della Procura, c’era il famoso «frantoio». Lucano pensava di poter riattivare una delle più antiche e «tradizionali» attività economiche di Riace – la produzione di olio di oliva di alta qualità – valorizzando proprio la presenza dei richiedenti asilo. Voleva perciò acquistare un frantoio, e darlo in gestione a un gruppo di migranti e di cittadini riacesi: dimostrando così che accogliere persone venute da fuori poteva essere un arricchimento per tutti, anche per gli italiani.

Ma per avviare quell’attività servivano soldi. E Lucano pensò di trovarli attingendo ai fondi che lo Stato destinava all’accoglienza. Questo era non solo assolutamente legittimo, ma persino coerente con il concetto di «accoglienza integrata» che è uno dei pilastri del programma SAI (il sistema di accoglienza gestito dai Comuni, un tempo chiamato Sprar). L’ex Sindaco di Riace ha però avuto la «colpa» di non chiedere alle autorità centrali l’autorizzazione ad avviare il frantoio: così, ha cercato di ricavare – dai soldi che arrivavano via via per la gestione dei centri di accoglienza – un po’ di «economie», cioè di risparmi da destinare al suo progetto. E questo, come si diceva, ha contribuito a generare confusione, perché leggendo i bilanci non era chiaro il fatto che una parte delle risorse serviva a finanziare il frantoio.

Irregolarità amministrative o reati penali?

Non spetta a noi stabilire se questo sistematico utilizzo di fondi pubblici per il progetto del frantoio configurasse un reato penale, o una semplice irregolarità amministrativo-contabile. Quel che è certo, anche dalla lettura delle «carte» tanto osannate da Marco Travaglio, è che il Sindaco Lucano non aveva alcuna intenzione di arricchirsi: il frantoio faceva parte del suo ambizioso progetto politico, che intendeva trasformare Riace in un modello di sviluppo solidale e sostenibile.

E invece, per i giudici di Locri, Domenico Lucano non aveva finalità ideali: il frantoio gli serviva per fare soldi, per crearsi una ricchezza personale. A sua volta, la ricchezza personale gli serviva per garantirsi pacchetti di voti, per conquistare visibilità e potere politico. Che è una tesi abbastanza difficile da sostenere, visto che Lucano era ed è rimasto poverissimo, e ha rifiutato a più riprese la candidatura in tornate elettorali – nazionali ed europee – nelle quali sarebbe stato sicuramente eletto.

Per i magistrati, però, l’idea che Domenico Lucano sia un delinquente comune sembra quasi un articolo di fede: tutti i fatti che potrebbero smentirla sono sistematicamente omessi, oppure distorti al punto da diventare irriconoscibili. In questo senso la sentenza sembra davvero il frutto di una tesi precostituita. E l’esempio del frantoio è ancora una volta illuminante.

Quando i fatti sono piegati al servizio delle teorie: ancora sul frantoio

Per i magistrati, si diceva, il progetto del frantoio serviva per l’arricchimento personale di Domenico Lucano. A riprova di questa tesi, nella sentenza si cita un’intercettazione ambientale (pagg. 311 e ss.), nella quale l’ex Sindaco sembra fare due conti: spiega che il frantoio appena acquistato ha un buon valore immobiliare (attorno ai 700-800mila euro), e dichiara la sua volontà di ritirarsi dalla scena pubblica.

Per i giudici non ci sono dubbi: da questi stralci di conversazione emergerebbe chiaramente la finalità esclusivamente privata del frantoio, che servirebbe a garantire una rendita al primo cittadino di Riace dopo la fine del suo mandato. Questa lettura, però, è in aperto contrasto con quello che Lucano dice pochi minuti dopo, sempre nella stessa intercettazione:

«Tutto sommato a me conviene chiudere (…). Basta. Ho dato il mio contributo per vent’anni. Perché poi Chiara mi ha detto (…): “abbiamo pensato a un lavoro con noi sulla cooperazione internazionale” (…). A me basta che mi danno uno stipendio di 1.200 euro al mese, quello che prenderei anche a scuola (…). Tutto sommato se mi danno questo lavoro, a me piace (…). Sul mio conto corrente ho 700 o 800 euro, per pagare la rata della macchina (…). Non ho conti in banca da nessuna parte…».

Come mai un Sindaco che si sarebbe arricchito in modo fraudolento, fino ad accumulare un patrimonio di 800mila euro, dichiara poi – in una conversazione privata – di voler vivere con appena 1.200 euro al mese? E come mai nel corso del colloquio non aggiunge che, accanto a quel modesto stipendio, può vivere con la rendita del frantoio? La risposta potrebbe essere molto semplice: perché le 800mila euro del frantoio non sono una ricchezza personale, ma un patrimonio dell’associazione Città Futura, destinato a promuovere un’attività sociale. I giudici non la pensano così, benché tutti i fatti depongano chiaramente a favore di questa lettura.

In un’altra intercettazione (pagg. 405 e ss.), Lucano discute con la sua compagna e con un’amica sull’avvenire del progetto politico di Riace. L’ex Sindaco suggerisce di rivedere tutti gli assetti dell’associazione Città Futura, quella che dovrebbe gestire materialmente il frantoio: vuole allontanare il Presidente, di cui non si fida, e nominare un nuovo gruppo direttivo inserendovi persone di sua fiducia. Chiede perciò alle due donne la loro disponibilità a entrare negli organi dirigenti dell’associazione. Secondo i giudici, questo colloquio dimostrerebbe la volontà di Lucano di «appropriarsi» in forma privata del frantoio.

Ma basta seguire passo passo le intercettazioni per capire che questa lettura è forzata e implausibile. Lucano non si fida del Presidente dell’associazione, e vuole allontanarlo proprio perché sospetta che lui voglia appropriarsi del frantoio per fini privati. E ha ragione a non fidarsi: il Presidente, in un colloquio privato con sua moglie (pagg. 429-430), dice chiaramente che «sono soldi dello Stato, però se lui [Lucano, ndr.] la imposta come laboratorio per… per gli immigrati… mica quello è un frantoio per l’integrazione agli immigrati».

Queste parole sono in evidente polemica col Sindaco («però se lui la imposta…»): i giudici, però, ne distorcono il senso, e le usano per dimostrare che era lo stesso Lucano a volersi arricchire col frantoio. E tutta la sentenza è percorsa da questa convinzione incrollabile. Persino in un colloquio privato con il figlio (pag. 416), Lucano continua a dire che il frantoio serve per l’integrazione degli immigrati: ma questo colloquio, per i giudici, è la prova che Lucano mentiva a tutti, anche ai suoi familiari più stretti. Tutte le prove che potrebbero, se non proprio scagionare l’ex Sindaco, almeno dimostrare la sua assoluta buona fede, vengono distorte e usate contro di lui.

Un processo a tesi precostituita

Insomma, leggendo attentamente le «carte», si ha davvero l’impressione amara che il processo sia servito non ad accertare la verità, ma a far rientrare i fatti all’interno dei limiti angusti di una tesi precostituita.

Forse ha ragione Cataldo Intrieri, quando sul giornale Il Dubbio segnala che proprio la lunghezza della sentenza finisce per coprire l’inconsistenza delle sue conclusioni: «900 pagine sono tante e (…) chi scrive così tanto in fondo coltiva la speranza che nessuno se le legga tutte, e che la mole schiacciante svolga una funzione dissuasiva».

da ADIF

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