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Coronavirus e diritti dei detenuti. I rischi nei nuovi provvedimenti

Il virus si diffonde in queste ore con maggiore velocità nel paese, e anche a Napoli attraversa città e provincia, anche se per ora la metropoli sembra resistere – non si sa per quanto ancora – più che al contagio, alla paura. Le mascherine si contano sulle dita di una mano, così come gli assalti ai supermercati, e non c’è ancora nessun lockdown dei quartieri, a parte l’autoisolamento della comunità cinese.

Le contraddittorietà emerse negli ultimi giorni dalle decine di provvedimenti dei vari organi istituzionali, prima del decreto ministeriale di ieri, lasciano intravedere tutti i timori dei vertici delle catene di comando, in particolare riguardo l’assorbimento da parte del sistema sanitario nazionale degli infetti più gravi, colpiti da complicazioni respiratorie. Un’angoscia che si manifesta anche in Campania – nonostante il “miracolo” annunciato a dicembre 2019 dal governatore De Luca con l’uscita dal commissariamento – che soffre la mancanza di quindicimila unità di personale medico, specializzato e non, e la carenza di presidi sanitari pubblici. Eppure, sebbene il servizio sanitario nazionale sia in serio pericolo di collasso, il governo ha emanato un decreto legge il 2 marzo al cui capo 2, Misure in materia di lavoro privato e pubblico, si predispone un finanziamento urgente di euro 4.111.000 solo per la copertura degli straordinari delle forze di polizia e delle forze armate causati dall’epidemia. Nessun finanziamento straordinario per aumentare il personale medico e infermieristico, in prima linea negli ultimi giorni, nessuna fonte straordinaria in bilancio per incrementare le postazioni rianimatorie. La contenzione e il mantenimento dell’ordine rimangono le uniche linee di investimento.

L’emergenza presenta il conto anche all’universo penitenziario. I focolai settentrionali hanno da subito stressato il sistema di esecuzione penale. I sindacati autonomi di polizia allertavano in maniera compulsiva, con diverse note, il ministero e i provveditorati per difendere la categoria da eventuali contagi, dimenticando che in un sistema chiuso ma allo stesso tempo estremamente permeabile loro stessi rappresentano un primo possibile fattore di diffusione. Il capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria Basentini si sta esprimendo da giorni con numerose circolari, che contengono altrettante “linee guida”, quelle che spesso si annunciano quando le istituzioni faticano a gestire avvenimenti che si susseguono più velocemente rispetto alle capacità di risposta.

Le direttive del Dap risultano piuttosto pilatesche e cambiano a seconda del contesto: “Può risultare funzionale e idoneo assumere provvedimenti che tendano a sospendere le attività trattamentali per le quali sia previsto o necessario l’accesso della comunità esterna; contenere le attività lavorative esterne e quelle interne per le quali sia prevista la presenza di persone provenienti dall’esterno; sostituire i colloqui con familiari o terze persone, diverse dai difensori, con i colloqui a distanza mediante le apparecchiature in dotazione agli istituti penitenziari (Skype) e con la corrispondenza telefonica, che potrà essere autorizzata oltre i limiti”, disponeva una circolare il 26 febbraio 2020. Con la stessa nota si invitava a rivalutare la semilibertà dei detenuti e venivano sospese “le traduzioni dei detenuti verso e da gli istituti penitenziari rientranti nella competenza dei provveditorati di Torino, Milano, Padova, Bologna e Firenze”. A Milano, in particolare, la situazione è gestita in modo drastico: sospensione dei permessi premio, dei lavori all’esterno e della semi-libertà fino al 9 marzo; sospensione dell’ingresso dei volontari; sospensione dei colloqui familiari (non con gli avvocati); estensione dei colloqui telefonici e via Skype; udienze in sorveglianza con videoconferenza senza traduzione dei detenuti. Al Mammagialla di Viterbo i divieti più evidenti riguardano l’ingresso dei volontari: uno per ogni associazione.

Demandare ai singoli istituti comporta la realizzazione di soluzioni diverse, spesso influenzate dalla sensibilità momentanea e dai timori collettivi. Nel carcere di Augusta (Siracusa), per esempio, hanno sospeso seguendo le direttive del ministero dell’istruzione le attività scolastiche in carcere, provvedimento che non è scattato automaticamente in altri istituti. L’epidemia mostra senza alcun filtro tutti i cortocircuiti del potere, con organi istituzionali che invadono competenze di altri, come nel caso del conflitto sull’apertura delle sedi universitarie tra il governatore De Luca e il ministro Manfredi, o di tutti gli altri organi assembleari che in queste settimane hanno preso decisioni in tema di salute senza attendere il parere del ministero. È il tempo delle istituzioni totali perforate.

La nota del provveditore campano, dal canto suo, non produce limitazioni importanti, ritenendo “fondamentale la conservazione di un approccio razionale e scientifico al fenomeno, evitando interpretazioni individuali”. L’invito ai direttori è quello di non dotare il personale di mascherine, utili soltanto per i soggetti considerati a rischio “e non certo al personale genericamente individuato”. Viene costituita un’unità di crisi che monitora l’andamento del contagio ed è stata inoltrata richiesta alla Protezione civile per dieci tende da campo, una delle quali è già stata predisposta all’interno del carcere di Poggioreale. Limitazioni ai colloqui non ce ne sono, né all’ingresso di volontari (a cui viene somministrato un semplice questionario, “Scheda per l’accesso”, in cui si autocertifica di non presentare sintomi influenzali; di non provenire o di aver soggiornato negli ultimi quattordici giorni in paesi ad alta endemia o in territori nazionali sottoposti a misure di quarantena; di non essere comunque a conoscenza di aver avuto contatti con persone affette da Covid 19). Il monitoraggio più invasivo viene fatto dall’area medica degli istituti sui cosiddetti “nuovi giunti”, i soggetti al primo ingresso in carcere.

Tuttavia, al di là dei meccanismi di prevedibilità del fenomeno e del tentativo di non applicare misure draconiane non necessarie, risulta difficile immaginare in un carcere sovraffollato e in perenne emergenza come Poggioreale, per esempio, una eventuale sostituzione dei colloqui con quelli via Skype. Quante postazioni dovrebbero essere predisposte? Tutte le famiglie hanno la possibilità (economica) di avere un punto telematico certificabile? Quali potrebbero essere le conseguenze di un interruzione improvvisa dei contatti con i familiari? Gli istituti, che nel tempo hanno generato territori immuno-depressi, luoghi poco salubri con celle con decine di detenuti, coperti con un sistema sanitario precario e lentissimo,  come potrebbero assorbire la diffusione?

Il carcere è da sempre un organismo vivo, connesso con l’esterno, in cui, accanto alle misure ufficiali, i detenuti si regolano con pratiche di autotutela, come testimonia la diminuzione delle domandine per partecipare ai percorsi trattamentali. In sostanza, se c’è un soggetto che potrebbe soffrire fortemente le falle del sistema è il corpo detenuto, che se colpito dal virus si troverebbe chiuso tra quattro mura. Il carcere mostra la paura del collasso di un ordinamento incapace di reagire elasticamente alle sollecitazioni. È necessario vigilare, quindi, perché ogni scelta autoritaria presa in questi contesti rimane in circolo a lungo nel sistema, così come è necessario denunciare provvedimenti che in modo automatico e insensato limitano diritti già di per sé compressi. In questi momenti di scelte rapide, dove tutti sembrano rincorrere qualcosa o qualcuno, bisogna pretendere che le energie e le strategie non vengano impiegate soltanto per realizzare un contenimento “più sicuro” ma per concretizzare i diritti dei soggetti reclusi. La paura del Covid-19 amplifica lo stridio di una macchina putrescente, tutti lo stanno ascoltando ma il rischio è che gli interventi vengano presi nella direzione sbagliata.

Luigi Romano

da NapoliMonitor

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