Da alcuni anni il tema del “decoro urbano” è entrato con forza nelle retoriche politiche e gioca un ruolo importante non solo nelle scelte elettorali, ma anche e soprattutto nella percezione che abbiamo delle nostre città, nell’immaginario mutato che le descrive. Il modello di vita urbano dal 2007, anno dello storico sorpasso della popolazione che vive in città su quella stanziata in aree rurali, è diventato l’esperienza abitativa più diffusa del genere umano per la prima volta nella storia.
Ma non è soltanto per una questione statistica che occorre guardare alle narrazioni che stanno investendo le nostre città. È lì, negli spazi concentrati delle metropoli, che si definiscono questioni legate alle migrazioni, alle nuove povertà, alla qualità della vita che sempre più deve confrontarsi con il tema ineludibile dei cambiamenti climatici. Dalle soluzioni abitative e di convivenza perfezionate nelle nostre città scaturisce l’idea di società dell’immediato futuro. Un’idea di società che tende più verso la distopia che verso l’utopia, che intreccia nuove forme di esclusione ad antiche forme di sfruttamento economico.
Il tema del “decoro urbano” è uno dei cardini ideologici su cui poggia la mutata percezione della città e della convivenza. È una parola che, già delineandosi come un orizzonte politico da raggiungere o preservare, costruisce un immaginario allarmistico: viviamo in città “indecorose”, dove è necessario intervenire per ripristinare una dimensione di sicurezza, pulizia, gradevolezza che la convivenza conflittuale dei gruppi umani nelle “zone a rischio” ha interrotto. D’altra parte “decoro” è una di quelle parole scivolose, perché si propone come un concetto apparentemente neutro, positivo, incontestabile: chi è che preferisce una situazione “indecorosa” a una “decorosa”? Chi si batterebbe per l’insicurezza contestando la richiesta di sicurezza? Chi mai alzerebbe la propria voce per invocare sporcizia al posto della pulizia?
Le cose, come è ovvio, stanno in modo ben diverso. Il più delle volte dietro la richiesta di sicurezza c’è l’obiettivo dell’allontanamento dei poveri, dei marginali, dei migranti dalle zone di pregio della città, che possono essere sfruttate a livello immobiliare, come rendita o come oggetto di costosi (per la collettività) progetti di rigenerazione. E anche quando l’obiettivo del decoro non sono i poveri, ma situazioni fastidiose per i residenti come la “malamovida” o il “turismo selvaggio”, a ben guardare ciò che si vuole allontanare è una fascia di clienti che spende troppo poco e crea confusione: i giovani, che non possono permettersi locali costosi; i turisti mordi e fuggi, o quelli portati in massa da tour operator. Grattando dietro il termine decoro si intravede la speculazione, la rendita, le bolle immobiliari.
C’è un filo rosso che collega le piazze fiorentine sempre più interdette alla popolazione, le fioriere antimigranti apparse alla stazione Tiburtina e le ordinanze baresi che “ripuliscono” le tradizioni cittadine senza intaccare gli interessi dei clan. È un filo ideologico, che immagina le città non più come luoghi di convivenza popolare, ma come vetrine da vendere al miglior offerente, che venga da fuori o da dentro il contesto urbano. È un’idea escludente di città, dove non c’è spazio per le nuove povertà e tanto meno per i migranti indigenti. È una forma abitativa che si traduce nell’esclusione dello spazio pubblico dal proprio agognato spazio privato: la casa. Per chi è in grado di comprarne di spaziose, ben collegate, posizionate in zone di pregio, buon per lui (o per lei). Chi invece non è in grado di farlo, subirà la pressione degli affitti, l’esclusione dalle zone di pregio sempre più a vocazione commerciale, il disservizio di città turistiche che perdono i servizi primari per riempirsi di ristorazione di bassa qualità e appartamenti sottratti alla residenzialità per essere affittati su airbnb.
Dietro la città escludente c’è l’ideologia dello sfruttamento dello spazio pubblico, della sua progressiva sottrazione alla disponibilità della cittadinanza, del suo svuotamento di senso a favore di chi può spendere per ottenere privilegio. Una tendenza che si intreccia in modo drammatico con le forme di esclusione indirizzate ai migranti. Oggi, su questo intreccio – che un tempo sembrava esclusivo appannaggio delle ricche città del Nord, o delle città d’arte, e che oggi interessa anche Napoli, Bari, Palermo (è interessante leggere le varianti con cui l’ideologia del decoro si è recentemente impiantata al Sud) – si stanno disegnando le forme di convivenza del prossimo futuro.
Forme sempre più escludenti, di espulsione delle fasce indesiderate della società.
Per questo una parola come “decoro” oggi non è più neutra. Già nel 2013 la giurista Tamar Pitch pubblicava per l’editore Laterza un saggio dal titolo Contro il decoro, sottolineando come questo termine sia stato spesso utilizzato per giustificare politiche volte a contenere la socialità di gruppi umani invisi alle élite: i giovani, le donne, i migranti. Oggi questa parola disegna una frattura tra la città che esclude e la città che include, tra i luoghi pensati per gli esseri umani e per le loro relazioni e quelli pensati per il commercio e i flussi.
Graziano Graziani
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