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Considerazioni e testimoninaze sull’eccesso di potere discrezionale dei magistrati di sorveglianza e direttori carcerari

Fin dalla sua nascita, nel 2006, l’associazione Yairaiha onlus ha affrontato il tema dell’ergastolo e le problematiche connesse ai circuiti ex EIV, oggi strumentalmente denominati AS ma, sostanzialmente, sempre luoghi di sospensione dei diritti costituzionali, dove i diritti variano a seconda del luogo di detenzione, della maggiore o minore umanità delle direzioni e della magistratura di sorveglianza, del loro essere o meno garantisti e dalla loro capacità di contenere entro i limiti di legge il potere discrezionale che esercitano.

La discrezionalità dei singoli direttori e magistrati fa sì che non tutti i detenuti d’Italia siano eguali.
C’è chi può mangiare il pesce e chi solo pomodori pelati; chi può avere un P.C. in cella e chi nemmeno è autorizzato all’acquisto; chi può fare telefonate settimanali e chi bisettimanali; chi può fare 6 ore di colloquio e chi quattro, chi potrà beneficiare del permesso di necessità e chi, a parità di condizioni, no, chi potrà prendere la borsa di studio e chi no, chi potrà avere un semplice cappello o meno e così via fino ad arrivare alla negazione di un abbraccio con la propria moglie altrimenti si rischia un rapporto disciplinare.

Quella che portiamo è la sintesi delle numerose testimonianze e denuncie raccolte in questi anni. Centinaia di uomini ombra che abbiamo incontrato oltre dieci anni fa in regime di Elevato Indice di Vigilanza, in attesa delle relazioni di sintesi per poter richiedere la declassificazione ed ancora oggi, a distanza di oltre dieci anni, attendono la chimera dell’”osservazione scientifica” senza aver ben compreso ancora chi la farà ne su quali basi, vista la scarsissima presenza di educatori e di magistrati di sorveglianza all’interno delle sezioni Alta sicurezza e le ancor più scarse opportunità di confronto con la società. In realtà le Autorità che dovrebbero garantire i diritti non riescono a capire le disparità di trattamento tra detenuti che, a parità di condizioni detentive, hanno la fortuna o sfortuna di dipendere da una direzione penitenziaria o da un magistrato di sorveglianza piuttosto che da un altro.

Non può capire Salvatore Benigno, detenuto nel carcere di Parma che, attraverso lo studio, sta cercando di crescere interiormente e culturalmente per dimostrare innanzitutto a se stesso che è un uomo diverso, perché si è visto negare dal direttore del carcere un premio di studio proposto dall’università della stessa città che frequenta con profitto e dedizione, nonostante la relazione della guardia di finanza che attestava la condizione di estrema indigenza dei familiari. In questo caso, il parere sfavorevole del direttore si è basato non sul condotta del detenuto, ne sul diritto/dovere a favorire le attività culturali, sociali, lavorative bensì sul titolo del reato del detenuto come a volerlo etichettare “cattivo per sempre”, incapace di raggiungere lo scopo della pena dettata dall’art. 27 della costituzione;

e ancora, non può capire Massimo Ridente, detenuto a Voghera, declassificato tecnicamente da due anni ma ancora in AS1 ed ostativo a qualsiasi beneficio;

non può capire Ciro Sorrentino, detenuto a Catanzaro perché, a parità di condizioni detentive, titolo del reato e condanna, a suo fratello, detenuto a Voghera venne riconosciuto il permesso di necessità per poter dare l’ultimo saluto al padre morente mentre a lui, per la stessa circostanza, la magistratura di sorveglianza di Catanzaro lo nega;

come non può capire Vincenzo Rucci, oggi detenuto a Spoleto ma precedentemente a Catanzaro e ancor prima a Rossano, che ha portato avanti un lungo sciopero della fame per protestare contro la discrezionalità della magistratura di sorveglianza che pretendeva la sua collaborazione ai sensi del 58 ter nonostante fosse stata presentata l’istanza per l’inesigibilità;

e ancora Claudio Conte, oltre 30 anni di carcere, ogni collegamento con l’organizzazione di appartenenza rescisso di più, la stessa organizzazione, stando alla relazione della DNA non esiste più, lo scorso aprile si è visto rigettare la richiesta per poter discutere la sua tesi di laurea all’università di Catanzaro che, paradossalmente, ha come titolo “profili di incostituzionalità dell’ergastolo ai sensi dell’art. 4 bis O.P.” (se ne raccomanda la lettura);

e Filippo Sciara, che da vent’anni sconta un doppio ergastolo, il suo e la condanna della moglie, affetta da tumore, e per la quale gli vengono concesse solo 4 ore di permesso all’anno per visitarla;

oppure ancora Alessandro Greco il quale si è visto rigettare la richiesta di sospensione della pena dal Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro, richiesta motivata da grave patologia cardiaca, perché non collabora e risulta ancora collegato al clan di appartenenza nonostante l’organizzazione sia stata decimata più di 20 anni fa e l’art. 7 gli sia stato revocato con la sentenza definitiva.

Tantissimi sarebbero ancora gli esempi empirici che attestano l’eccesso di potere discrezionale esercitato dai magistrati di sorveglianza e dai direttori penitenziari che, troppo spesso, basano le proprie decisioni sul titolo del reato senza guardare all’uomo e ai  cambiamenti morali ed etici maturati in tanti anni di carcere. Penso che sia superfluo viste e considerate le recenti circolari emanate dal DAP a tutela del diritto di cambiamento che ogni uomo conserva costituzionalmente. In particolare mi riferisco alla circolare con cui si sollecitano le direzioni a voler elaborare semestralmente le relazioni di sintesi e quella in cui si invitano gli organi di PG a voler attualizzare le relazioni sui collegamenti dei detenuti con le organizzazioni criminali perché troppo spesso stereotipati ed retrodatati. Prigionieri del passato per sempre. Quanto al MdS da mandato dovrebbe visitare spesso gli istituti penitenziari per verificare la corretta modalità di esecuzione penale mentre, invece, come risulta dai rapporti annuali di Antigone e dalle visite ispettive effettuate da diversi parlamentari, in pochissimi istituti la magistratura di sorveglianza ha una presenza costante, nella prevalenza ha una presenza saltuaria e comunque sommaria.

Altrimenti non ci troveremmo di fronte a casi eclatanti come quello di Voghera, denunciato nelle scorse settimane, dove un uomo con gravi problemi psichici, dopo lunghi anni in regime di 41 bis, è stato tenuto per circa 6 anni in isolamento totale privo di qualsiasi garanzia e diritto, peggio delle bestie. Solo l’intervento del Garante ha fatto si che la direzione adottasse in fretta e furia un “maldestro” rimedio trasferendolo (guarda caso il giorno prima della visita a sorpresa del dott. Palma) presso il centro clinico di Torino.

Sentiamo sempre dire che la società civile chiede la certezza della pena, ma nessuno si pone il problema di una totale incertezza dell’esecuzione della pena, della totale impossibilità di rendere effettiva la funzione rieducativa della pena. In realtà la mancanza di una misura unica di giustizia e la costante disparità di trattamento risultano essere le vere sbarre e i veri muri della carcerazione. In questo contesto l’Osservatorio carceri si è dimostrato e può concretamente essere una soluzione formidabile capace di evidenziare i punti deboli  di un sistema penitenziario ancora troppo ancorato ad obiettivi di difesa sociale piuttosto che al recupero del condannato. Mi chiedo e vi chiedo se non sia arrivato il momento di uniformare i trattamenti in tutti gli istituti, non consentendo all’amministrazioni territoriali un’eccessiva discrezionalità, che limita i percorsi trattamentali, non consentendo un effettivo recupero e reinserimento, capace di essere il primo strumento di difesa sociale dal crimine.

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Testimonianza famiglia del detenuto Sciara Filippo

Mi chiamo Sciara Pasquale, ho quasi 30 anni e abito a Siculiana, un piccolo paese nella provincia di Agrigento, all’estremo Sud della Sicilia. La mia storia inizia 19 anni fa, quando alle 3 di notte mi sono svegliato mentre gli agenti della finanza perquisivano il mio letto in cerca di non so cosa. Ricordo ancora bene le facce preoccupate di mamma e papà, e il fare metodico e veloce nel mettere a soqquadro tutto. Era la notte tra il 19 e il 20 marzo 1998, e da quella notte papà, che aveva 34 anni, è stato arrestato e tutt’ora si trova in carcere con la condanna dell’ergastolo. Da quel momento la mia famiglia ha vissuto un incubo che anno dopo anno è diventato sempre più nero. Quando hanno portato via papà  avevo appena 11 anni, mio fratello minore appena 1 anno e mia madre era nel pieno della sua vita avendo 32 anni appena compiuti. Il primo effetto negativo sulla salute di mamma è stata l’anoressia. Non riusciva più a mangiare, non aveva più voglia di vivere quasi, poiché per lei papà era tutto, un sostegno saldo, il suo porto sicuro. La mia adolescenza è stata travagliata per questa mancanza, mi sono fatto le ossa da solo, perché mamma subito ha iniziato a lavorare per mantenerci, guadagnando una miseria e arrivando a mangiare olive ammuffite per comprare a noi il latte che mangiavamo mattina e sera… i miei nonni non essendo in condizioni economiche buone non potevano fare molto, cosi anche i miei parenti potevano fare ben poco… una volta siamo arrivati ad usare la carta del pane al posto della carta igienica perché non potevamo permetterci che solo il latte e l’acqua da bere. Tutti questi stenti hanno portato un dissesto nell’intestino di mamma, e dopo un pò fu colpita da blocco intestinale che l’ha quasi uccisa. Ma per fortuna si è ripresa, ma quell’evento era solo un assaggio di quello che sarebbe successo dopo qualche anno… Nel frattempo io e mio fratello siamo cresciuti. Mamma ha fatto anche da papà, dato che lo vedevamo inizialmente una sola ora al mese a Palermo, e poi una volta l’anno quando è stato portato prima in Calabria e dopo nella vecchia città dell’Aquila. Poi non siamo più potuti andare a trovarlo perché mamma lavorava in una casa di riposo facendo di tutto e io non avevo le competenze necessarie per organizzare un viaggio del genere. La situazione è precipitata quando mia mamma, dopo anni di stenti, sofferenze e tristezza infinita, si ammala di cancro nel 2013. La diagnosi è stata terribile: carcinosi peritoneale metastatica, 6 mesi di vita. Solo la Provvidenza ha saputo risolvere questa situazione facendoci trovare un professore a Roma che ha deciso di operare mamma nonostante la situazione era estrema. Mamma in totale dal 2013 a oggi ha subito 4 grossi interventi, nell’ultimo ha avuto un’ischemia celebrale, che ha causato l’intorpidimento della parte sinistra del suo corpo, e in questi tre anni ha fatto tanta chemioterapia che la fa soffrire moltissimo. Ultima notizia fresca di oggi, nella tac si sono visti di nuovo dei noduli, segno di un possibile ritorno di malattia. La lotta è infinita e le sofferenze sono tante. Il percorso riabilitativo è stato doloroso, difficile, solo nel 2016 abbiamo passato in ospedale 6 mesi. Tutto questo mi porta a centrare in pieno l’argomento ERGASTOLO. Se papà avesse avuto modo di stare più vicino a noi, e a mamma, tutto questo non sarebbe successo. È inumano far morire la moglie di un detenuto perché soffre della mancanza del marito; la solitudine è la peggior malattia che porta a tutte le altre. Non basta un ora do colloquio o una lettera a settimana a sistemare le cose. L’ergastolo è una gabbia di morte, ti stritola, ti soffoca, e non porta certo nessun risultato positivo. Mio padre in tutti questi anni, vedendo passivamente tutto questo, di certo non ha avuto modo di riabilitarsi agli occhi della società, ma ha solo sofferto anche lui un dolore straziante, nel sapere i figli crescere senza la figura di un padre, e la moglie quasi morire per le difficoltà che si hanno. Allora io dico di NO alla pena dell’ergastolo, è inaccettabile, questa non è la strada giusta. Una riabilitazione socialmente utile si può avere solo se il detenuto è circondato dalla sua famiglia, che lo può sostenere e orientare verso un cammino sano e civico. In questi anni di malattia di mamma papà ha avuto modo solo di beneficiare di pochi permessi, per stare vicino solo 4 ore all’anno a noi e a mamma. Questo è inaccettabile, noi abbiamo bisogno di lui ora più che mai, non sappiamo se mamma ci lascerà, ma sappiamo che se questo dovesse succedere lei dovrebbe essere tra le braccia di suo marito che ama alla follia. Quante donne lasciano i mariti in carcere e si cercano un altro compagno, spinte da un naturale bisogno di avere qualcuno accanto (lungi da me giudicarle, ognuno è libero di pensarla come vuole!).. mia madre è rimasta accanto a mio padre sempre, ha dato la vita per noi, fino al punto di ammalarsi. In conclusione, l’ergastolo di mio padre ha distrutto la mia famiglia, segnato profondamente i nostri spiriti, segnato molto dolorosamente il corpo di mamma, e non abbiamo ottenuto nessun risultato positivo per sperare in una reintegrazione sociale di mio padre. Spero che queste mie parole possano essere efficaci e che non volino come fumo al vento.

Siculiana, 16/01/2017 – Sciara Pasquale

Mi chiamo Massimo Ridente, quella che segue è la mia storia, ma è emblematica delle difficoltà che un detenuto incontra anche quando lo stesso intraprende un percorso “rieducativo” e abbia tutti i requisiti per poter ottenere quel pizzico di fiducia che serve per iniziare una nuova vita.

Sto scontando una condanna a 30 anni, sono in carcere da circa 15 anni di cui 1 trascorso nel regime comune di Lanciano, 6 al 41bis nella cc di L’Aquila e 8 in questo circuito di AS1 sempre qui a Voghera. Ho usufruito di 3 anni e mezzo di liberazione anticipata quindi, si può dire, che abbia scontato 18 anni e mezzo di carcere. Per molto tempo ho combattuto per superare il 4bis, 5 anni fa ho superato questo ostacolo poiché mi veniva riconosciuta l’inesigibilità, la c.d. “collaborazione impossibile”.

Inoltre, tre anni fa la direzione di Voghera, a seguito della totale espiazione del reato “ostativo” mi riconosceva il passaggio al regime ordinario con contestuale riconoscimento dei colloqui e telefonate previste dagli artt. 37 e 39 del dpr 230/2000 per i condannati per reati comuni. Oltretutto ho fatto un lungo percorso rieducativo dimostrando con fatti concreti il mio cambiamento e che ormai ho voltato pagina con il mio passato.

Quando sono entrato in carcere ero poco più che un ragazzino, non avevo neanche la 5 elementare, ero praticamente analfabeta. Oggi, con orgoglio, posso dire di essermi diplomato con buoni voti, mi sono iscritto all’università di Pavia al corso di Scienze letterarie e beni culturali, partecipo attivamente a tutte le attività che vengono proposte con grossa soddisfazione mia e, credo, della direzione. Faccio parte della compagnia teatrale ed ho lavorato come restauratore per il museo civico di Voghera dove sono stato premiato con una borsa lavoro dopo aver prodotto ottimi risultati ma, purtroppo, non posso esercitare questo lavoro fuori di qua poiché, nonostante tutto, sono ancora in queste maledette sezioni AS1! Oltretutto faccio parte di un gruppo di 7 detenuti che, con non poca “fatica”, stiamo partecipando al corso di Giustizia riparativa che oggi continuo in modo individuale.

Purtroppo, nonostante mi vengono riconosciuti tutti i progressi fatti, sono sempre qui, immobile, senza poter fare un passo avanti. Due anni fa la direzione metteva parere favorevole ritenendo opportuna la mia declassificazione, il DAP invece senza una valida motivazione espresse parere contrario lasciandomi qua a vegetare.

Riguardo i permessi e il parere favorevole per il lavoro extramurario, la direzione non mi ritiene meritevole perché dice che la mia pena da scontare è ancora lunga e non ho completato la revisione critica. Ho ripresentato la declassificazione come ha invitato a fare il dott. Roberto Piscitello e vorrei ripresentare un permesso premio ma non posso perché qui è tutto bloccato, non riescono neanche a farmi partire l’istanza di declassificazione perché le educatrici sono solo due, ora addirittura solo una per 450 detenuti e, umanamente, non riescono neanche a fare la sintesi. La mia ultima sintesi risale a due anni fa e non riescono a farmi l’aggiornamento quindi sono impantanato, fermo allo stesso punto.

Ciò che più mi inquieta è sentire i vari interventi dei nostri ministri che invocano e declamano il “reinserimento” del detenuto, il rispetto di quel principio costituzionale richiamato dall’art. 27. Ho l’impressione che non si vuole il nostro cambiamento e rimanga tutto nello status quo come oltretutto ha dichiarato il dott. Piscitello. Nonostante tutti gli sforzi e la buona volontà di voler andare avanti, dritto, per la mia nuova strada, mi sembra che venga ostacolato da chi mi dovrebbe sostenere e incoraggiare. A questo punto mi sorgono dei dubbi: sono io che sto facendo qualcosa di sbagliato oppure le istituzioni non credono nel mio cambiamento? Questi dubbi spesso mi confondono le idee e mi demotivano non poco. Credo che quando chi come me, con fatti concreti, avendo avuto il coraggio di metterci la faccia dimostrando pubblicamente il proprio cambiamento, dovrebbe essere premiato e aiutato, non lasciato in queste condizioni.

Quando un detenuto, ormai da anni, da atto  con fatti concreti che ha deciso di voltare pagina  con il proprio passato deviante dovrebbe essere aiutato a 360°. Dovrebbe esserci un prima, un durante e un dopo. La mia pena ha senso (credo) se effettuo un percorso e poi arrivo a destinazione, altrimenti si è fermi al medesimo punto.

In buona sostanza voglio dire che se c’è il cambiamento ci deve essere il riconoscimento altrimenti, se non si è cambiati in un tot di anni non si cambia più. Non ci sono esempi da seguire, nel senso che non si vedono altre declassificazioni, uscire in permesso o art. 21…ed è mai possibile che su centinaia di detenuti AS1 nessuno abbia effettuato questa revisione critica? Allora, forse, qualcosa non va.

Io chiedo solo di poter interagire con la società in modo costruttivo. Cosa se ne fanno di questa mia pena se non porta da nessuna parte? Chi ha interesse che noi stiamo tutti a vegetare? Voglio concludere usando la metafora delle macerie: dalle macerie ricostruire poi tutto non è facile e non basta la propria forza di volontà, la propria energia positiva. Non basta il desiderio di alzarsi laddove si è caduti, non basta avere chiaro in mente il sogno da coronare, occorre anche qualcuno che ti sostenga, qualcuno esterno a tutto questo che ti dia una mano di aiuto. In questo caso, usando la semplice metafora delle macerie mi chiedo e chiedo “devo riscattarmi con la società? Ma come? Devo ricostruire la mia vita? Ma come?

Con tutte le mie forze ho cercato di rialzarmi li dove ero caduto, ho imparato a guardarmi dentro, ho fatto il più bel viaggio che noi possiamo fare, quello dentro noi stessi…ho fatto un gran lavoro con me stesso e sono fiero per quello che sono oggi, ma quando ti senti cambiato ti chiedi perché devo continuare una pena in questo modo?

Voghera, 16 gennaio 2017

Testimonianza della famiglia del detenuto Massimo Ridente

Scrivo questa lettera per denunciare una situazione ricca di dubbi che reca sofferenza alla mia famiglia da quasi 15 anni.

Il 16 Novembre del 2002, in seguito ad un mandato di cattura per l’omicidio di un giovane ragazzo di nome Erasmino, mio fratello mi chiedeva di accompagnarlo in commissariato per costituirsi, sicuro che avrebbe fatto chiarezza sulla sua posizione e che presto sarebbe tornato a casa. Massimo, mio fratello, ha sempre ammesso e pagato per le sue colpe, ma in quel caso si è proclamato innocente e ha rifiutato il rito abbreviato sempre con la convinzione che ne sarebbe uscito illeso. Da quel giorno abbiamo lottato per dimostrare la sua innocenza senza alcun risultato. L’accusa che pendeva a suo carico è stata validata grazie alle testimonianze di due collaboratori di giustizia: sua moglie, Elisabetta Mallardi, e l’esecutore materiale dell’omicidio, Michele Mari.

Durante i processi le versioni sono state più volte cambiate e discordanti tra loro, il giudice stesso le ha ritenute poco attendibili per i motivi di cui sopra e per il palese risentimento che la moglie nutriva nei confronti di suo marito. Inoltre tutti gli avvocati da noi interpellati a termine del processo sostenevano che in casi gravi come quello di mio fratello non era possibile che la moglie rappresentasse l’accusa, oltre al fatto che nulla di ciò che ha dichiarato era stato da lei visto, in sostanza non era testimone oculare ma aveva solo sentito voci di terzi anch’essi non presenti ne al fatto ne al processo. Per farvi capire da dove nasce la nostra indignazione vi racconto un dettaglio chiave: durante l’interrogatorio al Mari fu chiesto come si erano svolti i fatti e lui rispose di aver ricevuto l’ordine di uccidere dal Ridente con uno pseudo occhiolino che lui ha interpretato, che a detta del giudice poteva essere frutto di tic facciale o di un movimento involontario.

Da questo racconto sembrerebbe che per mio fratello le cose andassero per il meglio e invece se sono qui a scrivervi e perché dopo tutto quello che vi ho raccontato la condanna è stata 30 anni. Tutto ciò che ho dichiarato è agli atti e può essere visionato. Può un accusa simile togliere la libertà ad un uomo e privarlo della gioia di vivere e di essere padre? A quel giudice interessava davvero sapere se mio fratello fosse colpevole o innocente? Queste domande mi attanagliano la mente da troppo tempo.

Oggi mio fratello è un persona nuova, ammiro la sua forza di volontà nel non arrendersi, ha dimostrato tanto grazie all’aiuto di volontari, educatori, assistenti sociali e psicologi, che lo hanno aiutato a crescere e a diventare la persona che è oggi. In questi anni passati nella casa circondariale di Voghera, ha conseguito la licenza media, il diploma di ragioneria ed attualmente è iscritto alla facoltà di scienze dei beni culturali, ha ricevuto un premio letterario grazie a un tema autobiografico, ha frequentato un corso di cucina che gli ha permesso un lavoro momentaneo all’interno della stessa casa circondariale e si è inoltre dedicato a un lavoro di restauro per il museo di Pavia, che visto i risultati voleva assumerlo. Dal 2010 esprime le sue emozioni anche attraverso la pittura, cercando di lasciare un segno del suo passaggio in questa vita, seppur passata da troppo tempo tra quattro mura, tante sono le tele da lui realizzate anch’esse facente parte di un cambiamento palpabile, di una gran voglia di fare e recuperare il tempo perso.

Nel 2016 ha terminato il corso di giustizia riparativa e ha dato la sua disponibilità a incontrare le sue “vittime”, moglie e figli. Formalmente Massimo è stato de classificato circa un anno fa ma la sua posizione all’interno della casa circondariale non è cambiata e la pratica risulta bloccata. Come possiamo sbloccare la situazione e accelerare i tempi? Se fosse riconosciuta questa de classificazione potrebbe avere diritto ad alcuni benefici essenziali alla sua persona visti i 15 anni consecutivi di reclusione. In questo periodo mio padre di 75 anni, che fino a poco tempo fa lavorava per sostenere le spese legali e non solo, con la speranza di vederlo fuori di lì, sta affrontando una brutta malattia e Massimo potrebbe avere la possibilità di vederlo se ci fosse questa possibilità.

Spero che qualcuno con le dovute competenze sblocchi questa situazione al più presto e ci dia delle risposte positive.

Grazie per avermi ascoltata.    Mariella Ridente

Testimonianza della famiglia del detenuto Antonio Carnovale

 

Buongiorno a tutti Voi,

siamo Isabella, Caterina e Eronima, rispettivamente moglie e due figlie del detenuti Carnovale Antonio, condannato per via definitiva all’ergastolo dopo le accuse di un pentito. Da 5 anni viviamo quello che una sentenza del tribunale di Milano ha sancito come solo l’inizio di sepoltura in vita di nostro padre, mio marito.

Queste nostre parole speriamo possano farvi almeno minimamente percepire l’atrocità del vivere una situazione del genere. L’incubo del “FINE PENA MAI”, che oltre ad annullare dalla società per sempre un individuo, costringe quelli fuori a vivere per sempre un lutto a metà. Questo nonostante costituzionalmente il carcere nel nostro paese dovrebbe essere basato sul recupero e reintegrazione del detenuto. Ma come è possibile questo quando ci si trova davanti a condanne di questa portata? Noi non siamo certo dei legislatori ma ci domandiamo, si può fare? è costituzionale o no? Potremmo citare grandi personaggi che come noi hanno espresso da sempre le nostre stesse perplessità, vediamo sua Santità Papa Francesco, piuttosto che il compianto Marco Pannella, da sempre animi vicini a noi. E questa è una delle domande che noi oggi vorremmo farvi. Approfittiamo oggi della Vostra presenza per esporvi anche alcune delle profonde difficoltà che noi tre in quanto donne ci troviamo ad affrontare. Noi risediamo nel comune di Cerro Maggiore in provincia di Milano, in questi 5 anni e mezzo, all’inizio vedevamo nostro papà 1 volta a settimana nel carcere di opera, poi venne trasferito a Padova e lo visitavamo 2 volte al mese, adesso si trova nel carcere di Livorno da quasi 2 anni, e le nostre visite si sono drasticamente ridotte a 1 sola visita al mese. Questo perché da casa nostra per arrivare al carcere di Livorno ci sono ben 360 kilometri, e come potrete ben capire la visita mensile per noi comporta un impegno economico non da poco per viaggio e pernottamento, fortunatamente siamo tre donne che lavorano ma ciò non toglie che le spese debbano essere tenute sotto controllo. A tal proposito un’altra domanda che ci preme farvi “è o non è legge costituzionale l’obbligo di inserire il detenuto in un penitenziario che non disti più di 200 kilometri dalla residenza della propria famiglia?” Ci siamo sempre chieste: A chi può giovare mantenere un individuo in stato di assenza permanente dalla società e complicare e rendere disagiante la vita della famiglia che fino a prova contraria non ha reati o pene da pagare.

Noi 3 donne Vi chiediamo di aiutare tutti Noi famigliari dei detenuti, a vivere l’amore e la vicinanza verso i Nostri Cari, che un paese come il nostro dovrebbe garantire. Peggiorare o incattivire l’esistenza umana non porterà di certo miglioramenti alla nostra società.

Confidiamo in tutti Voi affinché le cose si possano migliorare. La nostra serenità è dovuta dall’essere certi dell’onestà di nostro padre, ci da tanta forza l’amore che ci unisce.

Ringraziandovi, porgiamo i migliori saluti a tutti Voi.

Isabella, Caterina e Eronima

 

Testimonianze raccolte a cura dell’associazione Yairaiha Onlus – Cosenza

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