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Cona, la marcia dei migranti che delegittima l’intero sistema di accoglienza

L’esodo di centinaia di persone autorganizzate disvela il fallimento delle grandi strutture, mettendo sotto scacco sia chi ha gestito dall’alto lo smistamento dei migranti, sia le trame di interessi ad esso connesse. Il coro «Stop business», urlato a gran voce dai richiedenti asilo mentre la polizia bloccava la marcia sul ponte di Bojon a Campolongo, sintetizza una radicale volontà di emancipazione da chiunque stia facendo affari e profitti sulla loro pelle.

Nel primo pomeriggio di ieri i 230 migranti che martedì scorso hanno abbandonato il CAS di Cona, nella bassa pianura tra Venezia e Padova, sono stati ricollocati in altre strutture disseminate in tutta la regione del Veneto. Tre giorni di marcia come atto estremo di una lunga lotta per la dignità, per «essere considerati», come recitava l’unico cartello portato in corteo. Tre giorni che hanno riprodotto la Balkan Route nella bassa pianura veneta: persone che camminano, le poche cose raccolte in bagagli di fortuna, dormendo all’addiaccio ed incontrando popolazioni ostili, la polizia che costringe a muoversi lungo strade di campagna, fino al blocco al “confine” tra le province di Padova e Venezia. Il pomeriggio di giovedì, trascorso davanti ad uno schieramento di polizia degno dei cortei più conflittuali, sembrava stringere i migranti nella morsa di una scelta inaccettabile: trascorrere la terza notte all’aperto, sull’argine del fiume Brenta come la notte precedente, oppure fare ritorno nei capannoni di PVC a Cona. La situazione si sblocca solo grazie alla disponibilità delle strutture di alcune parrocchie di Mira offerte dal Patriarca di Venezia. Nella mattinata di oggi la conferma: i 230 non torneranno «mai più a Cona!», gli autobus organizzati dalla Prefettura di Venezia sono in arrivo.

«Cimitero»: così il Centro di Accoglienza Straordinaria viene definito da coloro che lo abitano. Un luogo dove si muore, a poco a poco, le lunghe giornate divorate dalla nebbia o dalla calura, nessuna attività possibile per i 1200 richiedenti asilo ammassati lontano da ogni centro abitato (la frazione di Conetta, immediatamente adiacente, conta appena 190 abitanti) e senza collegamenti diretti con Padova o Venezia. Forse scelta appositamente per questo, l’ex base missilistica è priva di strutture in muratura. Le carenze strutturali sono solo la cornice alla pessima gestione attuata dalla cooperativa Ecofficina-Edeco di Padova, a carico della quale sono aperte svariate inchieste per truffa, falso e maltrattamenti, tutte inerenti l’operato in questa struttura. «Solo tre di noi parlano italiano», spiegavano i migranti ieri al Prefetto. Nessuna delle azioni di sostegno e promozione della persona che i capitolati tecnici prevedono è stata mai attuata, dalle scuole di italiano alla preparazione del colloquio con la commissione territoriale di valutazione delle domande di asilo politico, né tantomeno alle azioni di scoperta e valorizzazione di conoscenze e capacità della persona.

L’esodo da Cona rappresenta un salto di qualità ed una innovazione nelle forme di lotta dei migranti. Ormai non si contano più le proteste interne ai centri, volte di fatto ad ottenere miglioramenti delle condizioni materiali di vita quotidiana. Questa volta è diverso, il messaggio va decisamente al di là delle condizioni legate ad una specifica struttura. I tre giorni di marcia mettono all’angolo le istituzioni, prefetti e questori si contraddicono quando indicando sempre il ritorno a Cona come unica soluzione immediatamente praticabile, mentre i fatti dimostrano come per identificare ed attuare una strategia concreta 24 ore sono state ampiamente sufficienti.

C’è un ultimo elemento da evidenziare, la disponibilità al conflitto, specialmente nelle forme più radicali, la capacità di resistenza e la coesione nel gruppo in marcia, che mostrano i tratti di una forma di soggettività politica a tutti gli effetti. Sono sicuramente i soggetti più vulnerabili, privi tanto di mezzi di sussistenza autonomi quanto di una personalità giuridica definita: la maggior parte di loro ha già ricevuto il cosiddetto diniego alla domanda di protezione internazionale, e sta tentando di ribaltare il verdetto ricorrendo alla giustizia ordinaria. La spada di Damocle della permanenza sul territorio d tutti gli Stati UE come irregolari pende sulla testa di ciascuno di loro, lo sanno bene e per questo reclamavano, marciando nelle strade di campagna e di fronte alla polizia, «papiers non policiers», «5 ans pour tous» pensando all’agognato permesso per protezione umanitaria.

I richiedenti asilo di Cona si sono giocati tutto, hanno portato a casa una partita molto più grande della loro stessa lotta. La marcia vittoriosa raggiunge un duplice risultato: da una parte rompe il dispositivo di disumanizzazione, emarginazione ed oblio dentro a cui i migranti sono imprigionati, e che si sta estendendo alla popolazione impoverita da dieci anni di crisi; dall’altra affossa irreversibilmente il modello dell’accoglienza basato sui grandi centri disumanizzanti.

Dare una sistemazione a chi ha abbandonato Cona significa recepire le critiche ed ammettere fino in fondo le responsabilità, e se a farlo è il prefetto allora è lo Stato centrale stesso a riconoscere il proprio fallimento. L’accoglienza va sviluppata a partire dai territori, implementando i programmi SPRAR a livello comunale. Le maxi-strutture imposte dal Ministero degli Interni vanno svuotate e chiuse, il sistema dei bandi prefettizi per l’assegnazione della gestione dei centri smantellato, la gestione tecnica ed economica dei progetti deve essere pubblica e trasparente. Certo questo è un programma ambizioso, che può trovare attuazione solo a partire dal protagonismo dei territori e dalla cooperazione tra enti locali e gangli della società civile organizzata. Uno degli elementi che è emerso in questi giorni, e che andrà valorizzato in termini politici, è stata l’attivazione spontanea di una rete solidale che ha immediatamente sostenuto in varie forme i migranti in marcia. Una composizione che spesso viene oscurata dall’immagine di un Veneto razzista e livoroso, ma che si è manifestata in tutta la sua capacità di empatizzare con chi sta lottando per i propri diritti.

La marcia partita da Cona fa esplodere in maniera dirompente una questione di giustizia sociale e libertà di movimento, che sarà al centro della manifestazione di Roma prevista per il 16 dicembre, frutto di un percorso assembleare scaturito dalle assemblee convocate dopo gli sgomberi dei rifugiati da Piazza Indipendenza  e di famiglie da Cinecittà. Lo spazio politico di costruzione di questa piazza non potrà non tenere conto della nuova disponibilità alla lotta che i migranti hanno dimostrato.

da GlobalProject

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