Negli anni Settanta la politica era parte integrante di ogni settore della società. E anche il calcio non si sottraeva a questa regola. Il personaggio che più di tutti ha incarnato l’intreccio tra impegno politico e pallone è stato Paolo Sollier. Nel 1976 giocava in Serie A nel Perugia di Ilario Castagner, il punto più alto della sua carriera, ed era conosciuto in tutti gli stadi d’Italia come «il compagno Sollier» per il fatto di salutare il pubblico con il pugno alzato al cielo a testimonianza delle sue idee comuniste e le origini proletarie.

In un mondo, come quello del calcio di allora, dove chi diventava famoso offriva Champagne, Sollier regalava ai compagni di squadra libri con le poesie di Pavese, di Evtušenko, di Prévert, i romanzi di García Márquez; reclamava prezzi più bassi per l’ingresso agli stadi, si schierava a fianco delle femministe. E con i tifosi mai un autografo, anzi si arrabbiava con chi lo chiedeva.

Nel 1976 scrive un libro autobiografico Calci e sputi e colpi di testa, un mix di politica, calcio e amori che ottiene un buon successo. Quarantasei anni dopo, nell’estate di quest’anno, la casa editrice Mimesis lo ha ristampato (euro 12). Nella prefazione, scritta da Renzo Ulivieri, ex calciatore e allenatore e politico, si legge: «Per noi che allora eravamo giovani la lettura di questo libro è un ritornare indietro nel tempo e un rivivere le passioni di allora anche con un po’ di malinconia. Per i giovani di oggi che non hanno vissuto quel periodo la gioia di scoprire il «Sol dell’avvenir» e il sogno. Il sogno di un mondo migliore. Per tutti».

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Oggi Paolo Sollier ha 74 anni, ma la voglia di lottare per quello in cui ha sempre creduto non è venuta meno, anzi… come appare in questa intervista ad Alias.

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Sollier con il manifesto negli anni ’70

Sollier, 46 anni dopo torna nelle librerie con «Calci e sputi e colpi di testa». Cosa l’ha spinto a farlo?

L’idea non è partita da me, ma è venuta alla casa editrice Mimesis. Il libro racconta la mia storia, dentro e fuori dal campo calcio, fino al 1976. Nella sostanza è identico a quello della vecchia stesura, ma credo possa tornar utile rileggerlo anche se il mondo del calcio e la società in generale sono cambiati, rimane comunque uno spaccato di quello che sono stati gli anni Settanta.

La storia del Perugia calcio, la squadra in cui militava al momento di scrivere il libro, fa quasi da sfondo nonostante le belle imprese in Serie A. Cosa aveva bisogno di comunicare in quel momento?

Quando ho scritto il libro il Perugia era stato promosso in Serie A e nel primo anno nella massima serie è arrivato ottavo. Ma nel libro racconto il mio pensiero politico e l’impegno sociale, il tutto condito da avvenimenti sportivi che mi hanno visto protagonista fino alla mia unica apparizione in Serie A, nel 1976, con la squadra umbra.

La copertina del libro la ritrae, come era solito fare in campo prima della partita, mentre saluta con il pugno chiuso. Cosa significava per lei quel gesto? Senso di appartenenza, sfida al mondo del calcio o altro?

Era un modo per dire che io appartenevo al mondo che allora si rifaceva ai gruppi extraparlamentari di sinistra. Sono cose che a dirle oggi fanno po’ ridere, ma allora la militanza politica era vissuta al cento per cento. La mia storia nel libro parte dall’impegno nei gruppi cattolici del dissenso, come Emmaus e Mani Tese, fino ad arrivare ad Avanguardia Operaia. Non volevo nascondere le mie scelte; anzi, così facendo, volevo trasmettere le mie convinzioni anche agli altri.

Il pugno alzato al cielo come veniva visto dai suoi tifosi e da quelli avversari?

C’era un po’ di tutto. Chi mi salutava con il pugno e chi mi mandava a quel paese. Non era un gesto di sfida, ma solo un modo per essere coerente con quello che pensavo.

La sinistra, ieri come oggi, non ha mai avuto un buon rapporto con il calcio e lo sport in generale. Perché?

Forse perché una parte del mondo sportivo, quello dei professionisti, è sempre stata una categoria agiata e quindi da non seguire. Questa è una cosa che ho sempre criticato. Nel calcio c’è la Serie A, ma la maggior parte dei giovani giocano nelle categorie inferiori e quindi avrebbero bisogno di trovare un punto di riferimento per far valere i loro diritti. Avvicinandoli potrebbe essere anche l’occasione per raccontare loro che si può aspirare a una società più giusta.

Nel 1968 fu fondata l’Associazione calciatori e da quel momento il sindacalismo entrò nel mondo del pallone. Perché non furono presi contatti con Cgil, Cisl e Uil, i sindacati che già difendevano i lavoratori?

Io facevo parte dell’Associazione calciatori e francamente non ho mai capito perché non ci siamo uniti ai sindacati dei lavoratori. Credo perché eravamo considerati un mondo a parte. Non potevi chiamarlo mondo del lavoro, anche se per noi lo era, perché non eravamo in fabbrica o in altri luoghi classici di lavoro

Nel libro scrive che il Pci degli anni Settanta era per lei troppo rassicurante e poco battagliero. Ne è ancora convinto?

Il Pci allora accettava il tipo di società che c’era, invece per me, e per tanti altri compagni, andava cambiata verso un modello che avrebbe dovuto difendere i più deboli e dare a tutti un giusto reddito. Lo stesso errore lo sta facendo il Pd, l’erede del Pci.

Ma la sinistra oggi esiste?

Guarda, il Pd si è ancorato dentro il sistema e non si smuove accettando tutta una serie di compromessi che invece un partito di sinistra dovrebbe combattere. Ciò che va oltre il Pd, e che non è in Parlamento, è frammentato e conta poco o niente. Si fa quindi fatica a trovare un punto di riferimento. Oggi c’è in me anche dell’avvilimento perché vedi che a portare avanti certe battaglie di cambiamento della società, senza chiedere nulla in cambio, si è in pochi e che dopo breve tempo tutto finisce non avendo riscontri dalla gente. Io, comunque, non mi arrendo e vado avanti su questa strada nonostante le delusioni. Mi sento però come un naufrago su un’isola deserta.

La parola compagni ha ancora un significato?

Certo. Intanto perché parla di storia, ma oggi è in grande difficoltà.

È ancora il tecnico dell’Osvaldo Soriano football club, la nazionale calcistica degli scrittori?

La squadra non esiste più. L’idea che l’aveva fatta nascere nel 2001 era quella di promuovere e sostenere dei progetti di solidarietà e beneficenza attraverso l’organizzazione di eventi calcistici e culturali.

Il calcio lo segue ancora?

Ogni tanto, ma poca roba. Ora sono distante dal calcio, non sono mai stato tifoso di una squadra. Ho fatto, invece, l’allenatore senza però grande successo e questa è stata una forte delusione perché pensavo di riuscire a fare più strada, ma evidentemente non ho capito qualcosa di quel mondo e ho fatto degli errori. Uno sicuramente è stato quello di pensare che qualsiasi calciatore giocasse con la mia testa, cioè con l’idea di dare sempre il massimo, e poi non sono riuscito a gestire lo spogliatoio.

Cosa fa adesso Sollier?

Niente di particolare avendo abbandonato la strada di allenatore. Mi dispiace invece non avere in questo momento un’attività politica. A Vercelli, dove abito, abbiamo provato a mettere in piedi un gruppo, ma ora tutti i compagni si sono allontanati. Seguo il movimento No Tav, io sono nato a Chiomonte in Val di Susa. Ma anche quello ora è fermo o meglio assente nonostante le voci che il cantiere andrà avanti. Sarà anche questa la mia ennesima sconfitta. Comunque io tengo duro e sono pronto a impegnarmi ancora anche se non vedo nulla di politicamente interessante all’orizzonte.

da il manifesto