In ogni società democratica c’è un paradosso: si proclama l’inclusione, ma si pratica l’esclusione. A partire dal linguaggio, tra le cui operazioni simboliche c’è la costruzione del nemico. Non il nemico esplicito, dichiarato, evidente. Ma l’“avversario invisibile”, costruito attraverso la ripetizione, la vaghezza, la paura, e più comodo della verità.
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In ogni società democratica esiste un paradosso fondamentale: si proclama l’inclusione, ma si pratica l’esclusione. Si rivendica il pluralismo, ma si costruiscono confini. Il linguaggio – molto più delle leggi – è lo strumento con cui questi confini vengono tracciati. Non solo rappresenta il mondo: lo plasma, lo indirizza, lo orienta.
E tra tutte le operazioni simboliche che il linguaggio compie, una delle più potenti – e meno dichiarate – è la costruzione del nemico. Non il nemico esplicito, dichiarato, evidente. Ma l’avversario invisibile: la figura prodotta nel linguaggio, attraverso la ripetizione, la vaghezza, la paura, la riduzione simbolica. È il nemico costruito non per essere combattuto, ma per giustificare se stessi. Il nemico come specchio rovesciato, come fondamento della propria identità. Ogni potere ha bisogno di legittimarsi. Ma in democrazia questo bisogno si esprime in modo meno diretto, più sofisticato. Non può ricorrere al nemico “ufficiale”, come in tempo di guerra. Deve piuttosto inoculare il sospetto, creare il profilo. Serve un “loro” per rafforzare il “noi”. Serve un contorno scuro per far emergere la luce che si vuole rappresentare.
Basterebbe analizzare, ad esempio, le recenti campagne politiche contro fantomatiche invasioni per comprendere come certe parole spostino l’attenzione e inneschino il senso di minaccia. La retorica politica contemporanea non crea nemici con l’accetta. Li scolpisce per sottrazione. Sottrae complessità, contesto, umanità. Isola caratteristiche. Esaspera differenze. Costruisce figure simboliche a cui attribuire colpe vaghe ma potenti: la crisi, la paura, il degrado. Così nascono i “fannulloni”, i “clandestini”, i “parassiti”, i “buonisti”, i “radical chic”. Figure semanticamente ibride, ma perfettamente riconoscibili. Perché non devono essere vere: devono funzionare.
La propaganda storica usava la stampa, la scuola, la radio, i manifesti. Oggi i nuovi regimi – che non si chiamano più così – usano l’algoritmo. Lo vediamo nel linguaggio dei decreti e nei titoli dei telegiornali: “emergenza migratoria”, “invasione”, “ondata incontrollata”, etichette che funzionano come segnali d’allarme, attivati a comando per spostare l’attenzione pubblica verso un nemico fabbricato.
Non ti impongono un messaggio: ti circondano di ciò che conferma le tue paure. La costruzione del nemico non è più verticale, ma orizzontale e granulare. Non viene dall’alto, ma dalle tue stesse preferenze. È la logica predittiva a costruire la tua percezione del pericolo. Se interagisci con un contenuto che parla di “invasione”, il sistema ti propone altri contenuti simili. E così, in una bolla, il nemico si solidifica. Diventa presente, reale, minaccioso. Non è più un’idea: è un feed. E a quel punto, non serve più nemmeno nominarlo. È già lì, costruito dalla logica della personalizzazione.
Il potere non si esercita solo nel controllo. Si esercita nel vocabolario. Chi può nominare, può decidere. Chi definisce, delimita. E chi delimita, governa. Il lessico non è uno strumento neutro, è una geografia simbolica. Ogni parola è una frontiera. Lo vediamo nei talk show, nei titoli dei giornali: piccole scelte lessicali che decidono chi è degno di ascolto e chi deve essere escluso dal discorso pubblico.
Quando si parla di “emergenza”, si introduce un frame. Quando si dice “degrado”, si accusa un luogo e i suoi abitanti. Quando si ripete “legalità”, si impone una gerarchia di comportamenti. Ogni parola è una bandiera che marca il territorio del pensiero. Il nemico, allora, è colui che sta fuori dalla carta. Colui che non ha cittadinanza linguistica. Colui che, semplicemente, non può parlare – o viene derubricato. In questo senso, il linguaggio non descrive la realtà: la produce. Come una mappa disegnata in scala 1:1 che pretende di essere il territorio. Ma ogni mappa è una selezione. E ogni selezione è un atto di potere.
Nel corpo umano, quando un virus sconosciuto entra in circolo, il sistema immunitario reagisce creando anticorpi immaginari: sagome proteiche costruite per attaccare ciò che ancora non si conosce bene. L’organismo non riconosce il reale: costruisce il nemico sulla base di un’intuizione biochimica. Così funziona anche il linguaggio politico. Non si attacca ciò che è pericoloso. Si costruisce una figura patogena su cui far convergere la paura collettiva. E come accade nei fenomeni autoimmuni, spesso si finisce per attaccare ciò che non è nemico: il diverso, il povero, il dissidente. L’organismo-linguaggio perde il senso del confine tra l’altro e l’ostile. E inizia la caccia simbolica. Il sistema linguistico finisce per attaccare i tessuti stessi del corpo democratico che dovrebbe difendere, confondendo – come in certi disturbi autoimmuni – l’altro con l’ostile. Le intelligenze artificiali, per migliorare le proprie capacità difensive, vengono addestrate a riconoscere pattern nemici. Anche quando non esistono, li simulano, li prefigurano, li inseriscono nei dataset. In questo modo apprendono come reagire a minacce future, anche ipotetiche.
Il discorso politico fa lo stesso. Prefigura minacce. Simula emergenze. Costruisce categorie artificiali – “lo straniero”, “l’assistito”, “il deviato” – come se fossero già dati di realtà. In realtà sono proiezioni statistiche dell’ideologia. Funzionano come dataset su cui allenare la percezione collettiva. E, come nella macchina, più il pattern viene rinforzato, più diventa reale. Anche quando non lo è.
Ogni volta che un nemico viene costruito nel discorso, accade qualcosa ai verbi. Le neuroscienze cognitive parlano di “essenzialismo semantico”: il cervello, sotto stress percettivo, sostituisce l’analisi con la classificazione. È più facile dire “è così” che chiedersi “cosa ha fatto?”. Si smette di descrivere cosa fa e si inizia a dire cosa è. Il passaggio dal fare all’essere è il momento esatto in cui un soggetto perde complessità. “Il clandestino è pericoloso”, “il povero è colpevole”, “il dissidente è traditore”. L’azione scompare, resta la natura. E in quel momento, la discussione si chiude. Perché ciò che è, non si cambia. Solo ciò che fa si può discutere. Ma il nemico costruito nel vocabolario è sempre un’essenza, non un comportamento. È lo stesso meccanismo con cui si costruisce il razzismo, l’omofobia, la xenofobia. Non si discute cosa fanno le persone: si decreta cosa sono. E così, non servono prove. Basta l’identità.
Nel grande gioco del discorso pubblico, il nemico ha una funzione strutturale. Serve a polarizzare, a semplificare, a legittimare. Serve per spiegare ciò che non si vuole spiegare con la complessità. Se c’è povertà, è colpa di chi approfitta del welfare. Se c’è insicurezza, è colpa dell’immigrazione. Se c’è crisi, è colpa dell’Europa. La causalità diventa una scorciatoia. Il nemico è sempre più chiaro del contesto. Più netto della causa. Più comodo della verità.
George Orwell diceva che «il linguaggio politico è disegnato per rendere le bugie veritiere e l’omicidio rispettabile». È così. Ma oggi, nella sua forma più sofisticata, il linguaggio non mente: orchestra. Non impone: seduce. Non urla: insinua. E questa insistenza morbida, ripetuta, apparentemente neutra, è ciò che rende la costruzione del nemico così potente. Perché non è uno shock. È un’abitudine. È normalizzazione simbolica. E una volta che si è normalizzato un nemico, lo si può trattare da colpevole. E una volta colpevole, lo si può isolare. Espellere. Punire. Senza neanche doverlo dimostrare.
In un mondo che coltiva nemici narrativi, resistere vuol dire interrogare le parole con cui costruiamo la realtà, rifiutare i cliché e cercare un vocabolario che includa, invece di espellere. Il nemico invisibile è la cartina di tornasole della nostra democrazia. Più è vago, più è utile. Più è evocativo, più è pericoloso. Non serve smascherarlo: serve disinnescarne la grammatica. Perché il vero terreno della battaglia democratica non è la piazza. È la frase. E ogni frase può essere un recinto o un ponte. La scelta è nostra. Perché ogni parola è anche un circuito: può alimentare un pensiero o cortocircuitarlo. E in ogni frase c’è, silenziosa, una scelta di mondo.
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