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Cinque anni d’inferno per un detenuto invalido: Italia condannata a Strasburgo per il caso Scoppola

E’ una sentenza storica quella emessa all’unanimità dai giudici della Corte di Strasburgo. Per la prima volta dal dopoguerra l’Italia viene condannata per violazione diretta dell’articolo 3 della Convenzione europea sui diritti umani del 1950. L’episodio incriminato riguarda le condizioni di detenzione di Franco Scoppola, 68 anni, attualmente recluso nel carcere di Parma. Condannato nel 2002 per l’omicidio della moglie ed il ferimento del figlio, l’uomo, costretto dal dicembre 2003 a vivere sulla sedia a rotelle, chiese il trasferimento dal carcere romano di Regina Coeli ad un altro istituto della capitale privo di quelle barriere architettoniche che di fatto gli impedivano ogni movimento. Stante una relazione medica del gennaio 2006, che comprovava l’incompatibilità del suo stato di salute – essendo ormai totalmente non autosufficiente – con quello di detenzione, quella richiesta restò inevasa, così come vana fu la richiesta dei suoi legali del ricovero in ospedale o della detenzione a casa. Come accade spesso alle persone anziane, qualche mese dopo, a causa di un movimento brusco, si ruppe un femore. Nel giugno 2006 la magistratura di sorveglianza gli concesse gli arresti domiciliari, ma pochi mesi dopo l’uomo fu costretto a rientrare in carcere a causa della revisione del precedente giudizio emessa dalla stessa Corte. Solo nel settembre 2007 venne eseguito un provvedimento, emesso ben nove mesi prima, che autorizzava il trasferimento a Parma dove vi sono speciali facilitazioni per i detenuti disabili. La sentenza della Corte europea rende finalmente giustizia di cinque anni d’inferno, di costrizione a letto in una cella da cui Scoppola non poteva uscire a causa delle insormontabili barriere architettoniche. Secondo il collegio giudicante, presieduto dal belga Françoise Tulkens, tutto il periodo trascorso a Regina Coeli ha costituito sicuramente un trattamento inumano e degradante. Un caso a cavallo tra il diritto alla salute e la prevenzione della tortura. La condanna per violazione dell’articolo 3 della Convenzione del 1950 è determinata dalla condizione di ansia, inferiorità e umiliazione a cui il ricorrente è stato lungamente sottoposto. L’Italia aveva tre mesi, scaduti da pochissimo, per poter ricorrere davanti alla Grande Camera della Corte. Questa opportunità non è stata presa in considerazione dal governo italiano.