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Caso Dino Budroni: la verità opinabile della Polizia di Stato.

Quello di Dino Budroni potrebbe essere un caso simile a Gabriele Sandri: la Polizia spara e depista le indagini?

Quello di Dino Budroni, il 41enne morto a pistolettate sul Grande Raccordo Anulare di Roma dopo un “inseguimento a 200 all’ora” con la Polizia, avvenuta in seguito ad una segnalazione per stalking ai danni dell’uomo fatta dalla ex, potrebbe essere l’ennesimo insopportabile caso di morte da divisa.

Il processo romano che si celebra per accertare le cause della morte e le eventuali responsabilità, per fare chiarezza sui fatti di quel tragico 30 luglio 2011, comincia infatti a raccontare una storia diversa: lo fa grazie ai periti, lo fa grazie alle ricostruzioni ed alle scoperte fatte dall’avvocato della famiglia Budroni, quel Fabio Anselmo già legale di Ilaria Cucchi, Patrizia Aldrovandi, Lucia Uva e tanti altri familiari di vittime di abusi e violenze in divisa.

La storia comincia la notte del 31 luglio 2011, quando Dino Budroni si reca con la sua auto sotto casa dell’ex fidanzata. Un rapporto finito ma non per lui: suona al citofono, la chiama al telefono, la insulta. Le urla le sente tutto il palazzo. La donna telefona al commissariato Romanina, racconta che quell’uomo la perseguita da una settimana.

Dapprima l’uomo se ne va, poi torna (stando alla versione ufficiale), continua con le minacce: già noto alle forze dell’ordine per resistenza le cronache (Il Messaggero, Il Tempo, Repubblica, etc, le ricostruzioni coincidono tutte, nei termini e nei fatti, con il comunicato della Questura della mattina seguente) raccontano di un uomo alterato, con in mano un punteruolo che, alla vista degli agenti, fugge.

Una folle corsa, fin sul Raccordo Anulare, che termina pochi metri prima dell’uscita 11 Montesacro (Budroni abitava a Mentana, che si raggiunge proprio da quell’uscita): i poliziotti raccontano di un folle “inseguimento a 200 km/h”, terminato con il fuoco degli stessi agenti sulla vettura dopo aver intimato l’alt. Due colpi, uno fatale.

Sembrava (o, forse, è stato fatto sembrare) un classico caso dello sbandato pericoloso e violento che, in preda a chissà quali sostanze, minaccia, fugge, malmena, fino ad andarsela a cercare, l’inevitabile conseguenza.

Insomma, Budroni se l’è cercata.

La storia di Dino Budroni comincia a fare acqua già dalle prime ore dell’alba, quando i rilievi sul Raccordo mostrano le ammaccature della carrozzeria e del guard rail, i fori dei proiettili esplosi dalla volante all’inseguimento, la prima marcia inserita ed il freno a mano tirato: l’ispettore Marco Stabile era, con l’agente Michele Paone, alla guida della Volante 10. Poi Paone ha estratto l’arma, la Beretta d’ordinanza, e fatto fuoco.

“L’inseguimento a 200 all’ora” però non è mai avvenuto: a dirlo è una perizia dei Ris (Carabinieri) che dimostra come la sparatoria si sia svolta tra i 50 e gli 80km/h; i due colpi sono stati sparati da distanza ravvicinata e a breve intervallo di tempo (0,9-1,4 secondi):

“Ma che cazzo te spari!??!”

Dietro la Pantera un’Alfa 159 dell’“autoradio 454 Casilino” con a bordo l’appuntato De Giudici (al volante) ed il brigadiere Pomes che, in contatto con la centrale operativa dei Carabinieri, commentano così il bagno di sangue di quella mattina (l’audio è finito agli atti del processo):

“L’unico problema è che i colleghi gli hanno tirato du’ botte. Lo hanno preso, a questo.”
“[…] Gli hanno sparato? Porca miseria […] La polizia gli ha sparato dopo che ha fatto l’incidente contro il guard-rail, mi confermi?”
“Sì, sì, si è appoggiato (al guard-rail, nda), ma siccome c’eravamo noi davanti, non è potuto andare via. […] Ce l’avevo davanti a me, quasi di fianco, mi guardava, gli puntavo la pistola addosso ma solo per non farlo muovere, per intimorirlo, non avevo nemmeno messo il colpo in canna, poi si è accasciato.”
“Ammazza, col rischio che vi beccavano pure a voi quando hanno sparato, i colleghi.”

Una versione che sconfessa quella fornita fino al 21 marzo scorso (giorno dell’ultima udienza al Tribunale di Roma) dallo stesso agente Paone, accusato di omicidio colposo con l’aggravante dell’eccesso colposo nell’uso legittimo di armi. Questo il capitolo, che verrà scritto in Tribunale, relativo a quei drammatici istanti di sangue ma che nell’ipotesi di reato (omicidio colposo) mostra già evidenti lacune.

Ma la versione fornita dai due agenti a bordo della Volante 10 sembra vacillare anche sulle ore precedenti quella tragica morte: percorrendo a ritroso gli ultimi momenti di vita di Dino Budroni viene infatti da chiedersi (la domanda è la stessa che, in veste professionale, si fanno gli investigatori) come mai un uomo in fuga debba puntare diretto verso casa sua senza cercare di darsi alla macchia nella sconfinata campagna romana; la domanda sorge perchè il punto in cui la folle corsa fu arrestata è a circa 200m dall’uscita 11, quella che porta a Mentana, cittadina dove Budroni abitava.

Continuando con questo drammatico e rapidissimo flash-back scopriamo che, in base ai tabulati telefonici, l’uomo sarebbe arrivato sì dalla ex-fidanzata al quartiere Tuscolano, ma solo dopo la telefonata al 113 che ne denunciava le minacce, fatta non dalla donna, Giulia Purpi, ma da tale F.C., figura quindi centrale in questa vicenda ma misteriosamente lontana dagli atti processuali.

Leggendo le cronache di quei giorni le frasi riferite dalla Burbi, che le sarebbero state pronunciate da Budroni, ci descrivono l’uomo irato per via di una presunta nuova relazione della ex, lasciando intendere un legame con F.C.. Fatto sta che è costui a chiamare il 113 e, tabulati alla mano, in quel momento Budroni era con ogni probabilità ancora a Mentana.

Nella querela-denuncia presentata all’alba del 31 luglio dalla donna compaiono numerose testimonianze, tra cui i genitori di lei, ma non F.C.; l’ispettore che redige il verbale e che coordina le volanti inoltre, scrive l’Unità, inserisce un particolare interessante:

“[…] sostanzialmente la volante 10 ha fatto la spola tra Via Quintilio Varo e il commissariato diverse volte e nell’arco di almeno quattro ore, prima di lanciarsi all’inseguimento della Ford Focus sul raccordo.”

Lo scontrino trovato in tasca a Budroni e riconsegnato alla famiglia è un altro particolare degno di nota, in questa strana storia: riporta l’ora delle 4 di quella mattina, quando il 41enne si fermò su un bar di via Nomentana per acquistare una birra. Un orario che tuttavia manda a monte l’intera ricostruzione fornita dalla Polizia dal 2011 ad oggi.

La questione, a questo punto, si divide in tre: la prima parte riguarda i fatti di quella notte ed il bagno di sangue di quella mattina, la seconda parte riguarda le responsabilità reali della morte di Dino Budroni. La terza parte è tuttavia altrettanto interessante perchè tocca la vita di tutti gli altri 60 milioni di italiani che di questa vicenda hanno sentito parlare poco e niente: le registrazioni tra la pattuglia dei Carabinieri e la centrale operativa, che finirono certamente sulla scrivania del gip nel corso dell’udienza preliminare, ma che tuttavia il pm Giorgio Orano decise (lecitamente) di non acquisire.

Impensabile una versione diversa, visto che le registrazioni ci sono sempre state: anzi, strano (e gravissimo) sarebbe se quegli audio non fossero mai finiti all’attenzione del gip e della procura. Quelle conversazioni avrebbero potuto immediatamente cambiare il corso del processo, innanzitutto prefigurando altri capi d’imputazione e secondariamente per il costituzionale dovere che lega il potere giudiziario alla Carta: quello di ricercare la verità dei fatti, perseguendo i colpevoli.

Il risultato oggettivo è che il processo sulla morte di Dino Budroni ha perso un anno e mezzo di tempo e che ora toccherà reinterrogare tutti i protagonisti di questa vicenda: su tutti gli agenti di Polizia ed i Carabinieri accorsi in supporto (ascoltati a dicembre 2013).

La famiglia Budroni, in tutto questo, ha dovuto cambiare legale perchè il precedente patrocinatore non ritenne utile allegare perizie balistiche e stradali al fascicolo riguardante la parte civile al processo. Perizie che dimostrano l’incompatibilità degli spari e dei bossoli con la velocità sostenuta che è stata riferita dagli agenti di Polizia.

Atroci sospetti, sfogliando le carte, sorgono anche per eventuali inquinamenti di prove proprio sul luogo della sparatoria.

da crimeblog.it

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