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Il caso Battisti. Ieri le leggi d’emergenza, oggi lo stato di eccezione permanente

Il linguaggio politico al tempo dei social è frenetico, impone ritmi serrati, quindi le parole devono essere vomitate velocemente.

Renzi: «L’arresto di Cesare Battisti in Bolivia è una bella notizia. Tutti gli italiani, senza alcuna distinzione di colore politico, desiderano che un assassino così sia riportato al più presto nel nostro Paese per scontare la sua pena in un carcere italiano». Giorgio Napolitano avrebbe voluto essere protagonista della cattura: «Lasciato il merito alla destra. Lula non mantenne la promessa». La Rostan di Leu: «L’arresto di Cesare Battisti è una gran bella notizia. Sia subito estradato in Italia e paghi le sue colpe fino alla fine».

La pornografia del corpo ammanettato – “una pagina umiliante e buia di malgoverno, che rappresenta nel modo più plastico e drammatico un’idea arcaica di giustizia e un concetto primitivo della dignità umana”, così l’Unione delle Camere Penali – si accompagna alle immagini dei ministri in divisa, ultima grottesca trovata che testimonia la disarticolazione di un sistema costituzionale che ormai stenta a riconoscersi negli equilibri politici del ’48. Infatti, quelle “ingenue” identificazioni sembrano rappresentare un monito per l’ampliamento dei poteri dell’esecutivo. In definitiva, il governo giallo-verde porta a casa una vittoria agognata da trentasette anni. “Cesare Battisti, il terrorista sfida l’Italia sulle scalette dell’aereo: l’infame ghigno all’atterraggio”: il commento di Libero è esemplificativo, la terza Repubblica potrà vendicare le vittime innocenti di uno degli ultimi mostri – poco importa se costruito – e attraverso quel supplizio ribadire che il bilancio sugli anni di piombo non potrà mai avvenire fin quando i responsabili non saranno completamente estirpati dall’ordinamento sociale – con la morte per tortura, con la morte naturale, con la morte civile.

Poco importa se Cesare Battisti non ha sparato a Torregiani, se non ha ferito il figlio, Alberto, colpito per errore dal padre nel corso della sparatoria, se non fu lui ad aprire il fuoco sul macellaio Sabbadin, delitto confessato in un secondo momento da un altro militante. Bisogna calcare i tratti della creatura malvagia, rendere quanto più bieco il volto del colpevole, un copione abilmente interpretato in questo caso dal procuratore Spataro che in diverse occasioni (come il 23 gennaio 2008 sul Corriere della Sera) non ha voluto chiarire la vicenda processuale, continuando a definire Battisti un assassino. È necessario inasprire gli animi per creare l’adesione emotiva al compimento del supplizio, affinché ognuno di noi diventi anche solo per un attimo della sua giornata carnefice.

Tuttavia l’innocenza o la colpevolezza non è una questione che ci riguarda, d’altronde sforzarsi di sovvertire i “programmi di verità” costruiti in diversi anni e gradi processuali, principalmente con dichiarazioni di collaboratori di giustizia discordanti, rappresenterebbe uno sforzo vano. Del resto, Battisti è un prigioniero politico e si è assunto la responsabilità politica delle azioni portate a termine dalla “batteria armata”.

Dovrebbe, invece, far riflettere l’ossessiva esigenza del nostro “stato di diritto” di riaffermarsi attraverso la rievocazione di quelle vicende eversive – in particolare quelle rosse – come “potere di guerra”, che interpreta le regole dell’ordinamento alla stregua dei legami personali la cui lacerazione costituirebbe un’offesa, da cui può scaturire solamente vendetta. Infatti, gran parte della normativa che illuminò quelle aule di tribunale appartiene a una legislazione emergenziale (contro il nemico) che comportò la compressione di moltissime delle garanzie prima previste. Non si vuole giudicare (troppo facile oggi) la scelta politica dei mezzi predisposti per arginare lo stato di “guerra civile” in cui era precipitato il Paese, ma allo stesso tempo non si può non tenerne conto. Le più invasive: l’art. 8, d. l. n. 152/1975 consentì alla p. g. di perquisire il soggetto in stato di fermo senza autorizzazione del magistrato; la l. 497/1974 all’art. 7 ristabilì la facoltà in capo alla p. g. “dell’interrogatorio dell’indiziato”; la l. 15/1980 cd. Cossiga prolungò per particolari reati il tempo di detenzione presso le “camere di sicurezza” portandolo a 48h (in assenza di difensore e di un provvedimento tempestivo del magistrato che potesse avere cognizione della posizione del soggetto ristretto), misura da confermare con decreto nelle 48h successive, come previsto dall’art. 6. L’istituzione di lager speciali nel ’77 (due anni dopo la repressione delle lotte per la riforma dell’ordinamento penitenziario), le cui condizioni detentive rasentavano l’orrore, oggi solo in parte conosciute, come quelle dell’Asinara, e la legge n. 304/1982, che concedeva molteplici benefici ai “dissociati”, art. 2, e collaboratori di giustizia, art. 3, provocarono una cascata di procedimenti penali, molti dei quali infondati.

In tutte quelle fratture prodotte dalle legislazioni extra ordinem, le forze dell’ordine esercitarono scientemente in molti casi tecniche di tortura a danno dei lottarmatisti – questa parte di storia, nonostante gli innumerevoli ostacoli, sta gradualmente emergendo –: nel processo Torregiani arrivarono sul tavolo del giudice istruttore Grigo decine di denunce per lesioni, tutte archiviate per mancanza di prove (fattispecie criminale che ancora oggi difficilmente arriva in dibattimento). Il processo è una macchina di compensazione dei conflitti che richiede un bilanciamento tra le forze e gli interessi (ineliminabili) tra le parti: composizione degli organi, regole e procedure scrivono gli assetti del gioco affinché i pezzi non si muovano arbitrariamente nella scacchiera. Molti di quei processi non furono “giusti”.

“Dobbiamo superare l’assenza di parole”, questa l’esigenza di Baum, ministro (liberale) dell’interno della Repubblica federale tedesca – raccolta da Der Spiegel del 1979 –, che guidò il colloquio con uno dei quadri della RAF, Mahler. Il governo tedesco apriva così una profonda riflessione – terminata con la concessione dell’amnistia – sugli strappi repressivi adottati dal sistema per estinguere l’esperienza armata in Germania. Anche la Francia rinunciò alle pretese punitive per i reati commessi durante le lotte sociali nel ’68 e ’69. A distanza di tempo, questa rappresenterebbe l’unica strada percorribile per evitare che la pena si trasformi in vendetta e consentirebbe di aprire una riflessione su un periodo complesso della storia italiana in cui tante vite furono travolte da consistenti movimenti di emancipazione.

Sono ancora oggi detenuti uomini e donne che hanno scontato per quei fatti oltre trenta anni di carcere, alcuni resistono in condizioni di carcerazione durissime, in isolamento diurno e notturno, con due ore d’aria giornaliere, un solo colloquio al mese con i familiari o con un conoscente autorizzato, a molti di loro è vietato l’accesso alla stampa e ai libri. Continuare a impegnare il braccio armato contro soggetti che oggi hanno biografie del tutto diverse, in un contesto storico profondamente cambiato dove quel tipo di fenomeno eversivo si è estinto del tutto, non ha alcun fondamento logico-giuridico in un modello di stato di diritto – persino – liberale.

Forse una ragione c’è e non riguarda tanto il passato, ma l’attuale organizzazione della violenza pubblica, la ridefinizione della ragion di stato nel quotidiano, che anche attraverso la retorica della crocefissione esemplare dei sovversivi giustifica lo stato di eccezione permanente, consolidato da circa un ventennio.

Luigi Romano

da Monitor

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