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Carceri: Alberico Di Noia “suicida” al carcere di Lucera perchè ha visto???

Alberico Di Noia è stato trovato cadavere il 15 gennaio. La famiglia è certa che non si sia suicidato. Un altro detenuto del carcere di Lucera era stato massacrato quasi a morte dai secondini.

Si trovava nello stesso carcere in cui un detenuto è stato massacrato quasi a morte dai secondini. Oggi quel detenuto è vivo, e libero, anche se malconcio nel fisico e nell’anima. L’altro, forse il suo ex compagno di cella, invece.

Bandiere a mezz’asta e un’intera città in silenzio. Ieri tutta Zapponeta si è fermata per ricordare Alberico Di Noia, detenuto nel penitenziario di Lucera entrato in cella di “osservazione” per non uscirne più. Alberico è il quinto carcerato morto dall’inizio dell’anno. Il suo corpo, impiccato ad un lenzuolo, è stato ritrovato il 15 gennaio dai secondini, ma quello che sembrava l’ennesimo suicidio potrebbe nascondere un’altra verità.

Poteva essere un caso come tanti, un altro numero nelle statistiche sui decessi in carcere. Tutto talmente chiaro da non richiedere nemmeno l’autopsia. È solo grazie alle incessanti richieste degli avvocati della famiglia, che aveva incontrato Alberico – niente affatto depresso – solo la settimana prima, che il procuratore capo del Tribunale di Foggia ha autorizzato l’esame autoptico. I risultati, ancora, sono riservati ma per Michele Vaira, uno dei legali che è riuscito ad ottenere questo insolito cambio di rotta da parte della Procura, «per capire le responsabilità si deve andare al di là dell’autopsia, che è solo uno degli elementi. I fatti per capire cosa è successo in quel periodo sono di tipo storico».


Alberico Di Noia.

E di fatti che non tornano, nella storia di Alberico, ce ne sono fin troppi. Trentotto anni, dal marzo del 2012 stava scontando una pena per tentata estorsione ai danni di una donna conosciuta in chat. Oreste, un ex compagno di detenzione, su Facebook lo ricorda come «socievole e disponibile con gli altri detenuti e allo stesso tempo molto educato con le guardie; una persona che guardava con fiduciosa speranza al futuro, vogliosa di riscattare agli occhi della moglie e dei figli quell’amara realtà che stava vivendo e che aveva infangato il suo nome». Tra un mese sarebbe stato oggetto di un’udienza che, con tutta probabilità, gli avrebbe consentito di ottenere l’affidamento ai servizi sociali o i domiciliari.

Al momento della morte, però, secondo una nota dell’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, «l’uomo era in cella da solo, tecnicamente “in osservazione” da cinque giorni, poiché aveva avuto un alterco con una guardia penitenziaria. Dall’episodio, su decisione del Consiglio di disciplina dell’istituto di pena, era scaturito il suo trasferimento ad altro istituto di pena, che sarebbe dovuto avvenire nella stessa giornata. Quando l’uomo è stato soccorso dal personale penitenziario è stato trovato già vestito e in attesa della partenza».

Secondo i familiari, però, Alberico non poteva rimanere da solo da quando il medico del carcere di Altamura, in cui era recluso prima di essere trasferito a Lucerna, gli aveva riscontrato una forte tachicardia. Perché poi, se aveva intenzione di togliersi la vita, si era preso il disturbo di prepararsi per il trasferimento?

Le incongruenze, però, non si fermano al momento del decesso. Anzi, è stato proprio dopo il ritrovamento del corpo che l’atteggiamento dell’amministrazione penitenziaria ha insospettito sempre più la famiglia. Per trentasei ore hanno chiesto, invano, di vedere la salma. Quando finalmente hanno potuto avvicinarsi al cadavere di Alberico, il suo corpo presentava «una vistosa tumefazione», apparentemente incompatibile con la teoria del suicidio e anche la stampa è stata avvertita soltanto 24 ore dopo il decesso. Tutti questi ritardi sembrano stridere con la fretta degli inquirenti di chiudere il caso prima possibile, una fretta che non è piaciuta a Giovanni Riontino, sindaco di Zapponeta (la città natale di Alberico), che ieri ha dichiarato il lutto cittadino.

«Il mio obiettivo principale è che su questa vicenda non si spengano i riflettori», ha dichiarato il primo cittadino «non volevo che andasse nel dimenticatoio prima del previsto. Il mio desiderio sarebbe quello di far luce su questo caso quanto prima. La cosa che mi ha insospettito è che in un primo tempo volessero chiudere le cose molto frettolosamente, nonostante ci fossero dei segni evidenti sul corpo. Noi aspettiamo ancora gli esiti dell’autopsia. Ma vorrei sottolineare che, per quanto mi riguarda, le istituzioni hanno fallito in ogni caso. Il carcere è inteso come rieducazione e se c’è stato un decesso per impiccagione vuol dire che qualcosa non è andato per il verso giusto».


Giuseppe Rotundo, il compagno di cella di Di Noia, massacrato nel carcere di Lucera da tre agenti penitenziari.

Non sarebbe la prima volta che le cose nel carcere di Lucera non vanno per il verso giusto. Giuseppe Rotundo, pestato da tre guardie giurate per un «pezzo di merda» di troppo, quelle celle d’isolamento la conosce fin troppo bene e all’ipotesi del suicidio non crede neanche un po’. «È stato impiccato. Certo, le mie non possono essere sicurezze. Le sensazioni personali dovute a un’esperienza diretta vissuta in quelle celle, però, mi conducono a ritenere che le dinamiche che hanno portato alla morte di Alberigo di Noia siano identiche a quelle che hanno portato gli agenti a mettere in atto nei miei confronti un azione punitiva violenta che per loro sfortuna non ha avuto nessuna conseguenza estrema come è invece avvenuto per Alberigo».

Costanza Giannelli da Popoff

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