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Carceri: 96 suicidi dietro le sbarre nel 2016, ma forse sono di più

Dossier di “Ristretti Orizzonti”. Restano i dubbi su alcune morti “sospette”

Un suicidio ogni sette giorni nelle carceri italiane. Secondo uno studio redatto da Openpolis. it è questo il quadro che emerge dopo una lettura dei dati messi a disposizione sia dal report annuale del ministero della Giustizia che dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Negli anni di massimo sovraffollamento, tra il 2009 e 2011, si sono suicidati quasi 60 detenuti ogni anno, nel 2015 sono scesi a 39. Dal 2009, gli istituti con più suicidi sono stati Poggioreale, Sollicciano e Rebibbia.

Dal 2009 al 31 agosto 2016, le “morti di carcere” registrate da Ristretti sono state 423. Si tratta di persone in larga parte comprese tra i 25 e i 44 anni di età, anche se l’incidenza è alta anche tra i giovanissimi (20-24 anni) e attorno ai 50 anni. Il metodo di uccisione più frequente è nel 77% dei casi l’impiccamento, seguito dall’asfissia con il gas (64 casi), l’avvelenamento (20) e il soffocamento (6). Nella triste classifica degli istituti penitenziari con più suicidi dal 2009, al primo posto Napoli Poggioreale (19 casi), seguito da Firenze Sollicciano (17) e Rebibbia a Roma (14).

La statistica riportata da Ristretti Orizzonti nel suo dossier “Morire di carcere” non vuole sostituirsi quella ufficiale, né smentirla. L’intenzione è semmai quella di raccogliere maggiori informazioni sul profilo di chi si suicida in cella; accanto ai suicidi accertati, comprende anche le morti meno chiare, comunque legate al disagio della detenzione. Oltre ai suicidi poi vanno aggiunte le cosiddette morti “naturali”. Alcune ancora da accertare.

Quest’anno abbiamo raggiunto, secondo i dati raccolti da Ristretti Orizzonti, un numero totale di 96 morti. Ma il numero dei detenuti morti all’interno delle carceri potrebbe essere di gran lunga superiore. Ciò è dovuto al fatto che non tutte le morti che avvengono all’interno degli Istituti penitenziari vengono segnalate dalle agenzie stampa o, come avviene di solito, dai comunicati dei sindacati di polizia. Ad esempio, nella notte del 23 ottobre, presso la terza casa di Rebibbia, si era suicidato un detenuto cileno di 33 anni. Si trovava a Rebibbia da una quindicina di giorni e, secondo fonti interne, pare che dopo il colloquio avuto con la moglie avesse dato qualche segno di insofferenza. Resta il fatto che fu ritrovato impiccato all’interno della sua cella. La sua morte non è stata segnalata e di fatto non risulta nella conta delle morti. A questo caso va aggiunta la morte recente di un altro straniero avvenuta all’interno del carcere calabrese di Paola e segnalato dall’attivista radicale Emilio Quintieri. Anche in quel caso la notizia è trapelata per pura casualità e senza che ci sia stato data da parte delle agenzie. Quante altre morti ci sono e ufficialmente non ne siamo a conoscenza?

Nel frattempo, sempre grazie a uno studio di Openpolis, l’Italia risulta agli ultimi posti in Europa sul ricorso alle pene alternative al carcere. E ciò nonostante i tentativi del legislatore che negli ultimi anni ha cercato di incentivare ed estendere l’uso delle misure alternative al carcere. La legge 199 del 2010 ha dato la possibilità di passare alla detenzione domiciliare per coloro che hanno una pena residua inferiore ai 18 mesi; In seguito altre riforme, ultima la legge 67 del 2014, hanno potenziato i lavori di pubblica utilità al posto del carcere, norme che hanno avuto un significativo effetto sul sistema penitenziario italiano, anche se non sono stati sufficienti a colmare il gap con molti altri paesi europei.

Ecco alcuni esempi. Registra una crescita del 29% dal 2011 al 2016 l’affidamento in prova al servizio sociale, in base al quale il condannato sconta parte della pena fuori dal carcere, ancora sotto il controllo del sistema penitenziario, ma aiutato a reinserirsi; stessa sorte per i lavori socialmente utili, sanzione alternativa alla detenzione per i reati minori: anziché scontare la pena in cella, si ripaga la società del danno fatto lavorando gratuitamente per organizzazioni di volontariato o per enti pubblici. Se nel 2011 infatti erano assegnate a questa misura 239 persone, nel 2016 sono schizzate a 6.507. In aumento anche la misura della detenzione domiciliare (+20% in cinque anni) e la libertà vigilata (+26%) mentre cala del 16% il ricorso al regime di semilibertà.

Nonostante una crescita importante, l’Italia resta però ultima tra i grandi paesi europei per utilizzo delle misure alternative. Mentre in Italia la maggioranza dei condannati finisce in carcere (55%), in Germania sono solo il 28%, il 30% in Francia, il 36% in Inghilterra e Galles e il 48% in Spagna.

Damiano Aliprandi da il dubbio

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