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Carcere, pena e vendetta: i suicidi certificano il fallimento della società

Il dramma delle carceri. Quest’anno sono già 65 le persone che si sono tolte la vita all’interno degli istituti penitenziari, un numero che certifica il fallimento della nostra società. Cosa resta della vita di queste persone che erano sottoposte alla custodia dello Stato: soltanto la freddezza di un numero statistico

di Vincenzo Di Paolo da l’Unità

Luogo dimenticato. Luogo di degrado, sofferenza, afflizione. Nel carcere riversiamo gli “scarti sociali”, tutto ciò che non vogliamo vedere, tutto ciò di cui non vogliamo prenderci cura o a cui non riusciamo a fornire una risposta di carattere sociale. Ammassiamo tutto lì, in spazi angusti e non idonei, privando le persone non solo della propria libertà, ma della dignità. Il carcere tuttavia può essere anche luogo della coscienza, da cui manifestare la possibilità di conversione. Perché dai luoghi della marginalità e della vulnerabilità possono arrivare messaggi di forza e racconti di speranza.

Nel carcere di Opera Nessuno tocchi Caino svolge i suoi “laboratori della speranza” insieme ai detenuti che scontano la pena nei circuiti di alta sicurezza. Da questi incontri emergono storie di vita dirompenti, come quella di Gioacchino. Nato nel 1946 «su strade lastricate e scivolose», la sua è una storia di cadute e riscatti. Dal 41-bis alla maturità, la tenerezza del racconto della sua carriera scolastica. Scriveva lettere, Gioacchino. Le indirizzava al presidente della Repubblica o ad altri personaggi importanti, ma le teneva per sé, senza spedirle. Scriveva, e poi strappava i fogli.
Anche Costanzo scrive. Scrive poesie. Ci racconta di sua figlia e di quella volta che ha portato a scuola, per un esame, il testo di una poesia del padre. Antonio, invece, racconta del suo primo esame all’università: 30, senza lode. «Perché divaga troppo» è stata la motivazione della professoressa.

Siamo partiti da questo divagare, abbiamo divagato anche noi nei ragionamenti e nelle riflessioni. Serve divagare per uscire dagli schemi prestabiliti, dai modelli preconfezionati, dai luoghi comuni, per leggere la realtà con occhi veri. Ci si accorge quindi che dove si pensa manchi la coscienza c’è invece un livello di coscienza elevato. Ci si accorge delle contraddizioni del nostro sistema penale, dei paradossi del carcere e dell’ipocrisia di certe azioni politiche. Si parla di liberazione anticipata, ma l’unica liberazione anticipata che sembri essere accettata è il suicidio. Quest’anno sono già 65 le persone che si sono tolte la vita all’interno degli istituti penitenziari, un numero che certifica il fallimento della nostra società. Cosa resta della vita di queste persone che erano sottoposte alla custodia dello Stato: soltanto la freddezza di un numero statistico. La proposta Giachetti che mira a modificare il sistema della liberazione anticipata dei detenuti è stata definita dal ministro Nordio «una resa dello Stato». Per evitare che lo Stato si arrenda, si pratica uno stato di tortura. Dov’è finito il “senso di umanità” delle pene di cui parla l’art. 27 della Costituzione? La retorica della difesa della Carta costituzionale s’inceppa quando si inizia a parlare di diritto penale.

Nel corso del laboratorio a Opera, forse senza volerlo, Massimo ci regala la migliore lezione di diritto costituzionale: «la Costituzione non va portata in giacca e cravatta nei giorni di festa ma va indossata come una maglietta a maniche corte». È un’immagine interessante. Ci ricorda tra l’altro che dovremmo provare a metterci nei panni di chi in carcere ci vive o ci lavora. Nei panni di chi subisce quelle condizioni “inumane e degradanti” per le quali lo stato italiano è già stato condannato dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo e sulle quali si è pronunciato recentemente anche il presidente della Repubblica Mattarella parlando di una situazione «indecorosa e straziante». Finché la nostra società continuerà a interpretare la pena come aspetto punitivo, il carcere resterà il luogo perfetto per realizzare un fine vendicativo nei confronti di persone che saranno costrette a portarsi dietro il proprio reato, anche dopo aver scontato tutta la pena inflitta.

C’è una condanna morale che non dovrebbe appartenere a uno Stato di diritto, il cui fine è piuttosto la realizzazione del reinserimento sociale del condannato. Una funzione rieducativa che questo sistema carcerario non svolge. «Il futuro! Da quanto tempo sei senza futuro? Il futuro è questo tempo incompiuto che ci aspetta, inesorabilmente simile a noi: a ciò che siamo stati e a quello che non saremo». Le parole di Mariateresa Di Lascia – che Nessuno tocchi Caino ricorderà, nel trentennale della morte, con un evento a Opera il 30 agosto nel teatro della Casa di reclusione, e poi a Foggia il 7 settembre – risuonano durante il laboratorio in carcere. Per quanto tempo ancora pensiamo di poter rinchiudere il futuro e la speranza?

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