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Il carcere e l’ossessione per gli anarchici

Così l’Italia cerca di nascondere il suo caos. Il grado di civiltà di una nazione si misura anche nell’equilibrio tra il reato commesso e la pena inflitta. La nazione che riduce la libertà per sentirsi più sicura rischia di diventare prigioniera del più forte

di Massimo Cacciari

Non ci dovrebbe esser dubbio sul fatto che uno degli indici più sicuri per misurare la civiltà di un Paese è rappresentato dal suo ordinamento carcerario e dall’equilibrio tra il reato commesso e la pena inflitta. Il diritto penale, diceva Simone Weil, ha già di per sé il sapore dell’inferno. Già è tremendo il fatto di dover giudicare e punire, tanto che spesso potrebbe sembrare che siamo ritenuti liberi proprio al fine di poter essere “imputabili”, e cioè sempre almeno potenzialmente colpevoli. Se poi questa dimensione, che sembra ahimè insuperabile quaggiù, nella civitas hominis, viene amministrata senza tener conto delle sofferenze che produce, senza che si cerchi di renderla la meno dura possibile, e magari anche in forme discriminatorie, l’amministrazione della giustizia finisce col contraddire fondamentali diritti umani.

Come è stato più volte denunciato a livello internazionale per il nostro regime carcerario, e trasformarsi così in crudele giustizialismo. L’opinione pubblica appare oggi del tutto disattenta su queste questioni, ma occorre essere davvero ciechi e sordi per non vedere come esse facciano tutt’uno con i modi in cui tutti, più o meno, i Paesi democratici stanno affrontando sul piano della pura emergenza e con logiche esclusivamente “sicuritarie” ogni “minaccia”, dall’immigrazione alla pandemia, alla crisi economica.

Tra i pericoli per il nostro regime democratico sembra sia emerso negli ultimi anni, incredibile a dirsi, quello dell’anarchia. Non dell’anarchia in quanto mancanza di governi stabili, di un ordinato rapporto tra legislativo ed esecutivo, di eque politiche fiscali e sociali, ecc…, ma proprio dell’anarchia in quanto movimento anarchico, quello nato coi Godwin, Proudhon, Bakunin, due secoli fa. Uno di questi anarchici, Alfredo Cospito, è ospite delle patrie galere e si sta facendo morire di fame per protesta contro il regime che gli è stato inflitto. È accusato di un attentato contro la Scuola allievi carabinieri di Fossano avvenuto nel 2006, in cui fortunatamente non vi furono né morti né feriti.

La Cassazione ha deciso di qualificare tale atto come strage contro la sicurezza dello Stato, reato che prevede l’ergastolo e che non era stato applicato neppure per le stragi-stragi di Piazza Fontana e della Stazione di Bologna. Se ciò non bastasse, per il Cospito si è deciso anche per il carcere duro ai sensi dell’art.41 bis, introdotto, come noto, per combattere le associazioni mafiose, ai fini di impedire i collegamenti tra i criminali in carcere e i loro colleghi all’esterno. Che c’entra di grazia questa misura con gli anarchici? Risulta che il movimento anarchico abbia solide strutture gerarchiche, un’organizzazione particolarmente solida e diffusa, qualcosa di analogo a Cosa Nostra? E anche altri anarchici sono oggi colpiti da regimi di sorveglianza pesantissimi pur se accusati di reati del tutto minori, neppure da art.272 (propaganda sovversiva).

Quando si toglie a una persona ogni libertà di muoversi, comunicare, quando si sopprime quella dimensione essenziale della nostra natura che è la vita di relazione, senza dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che la misura sia assolutamente necessaria ciò è sintomo di una paurosa decadenza della nostra civiltà giuridica.

La responsabilità di chi amministra la giustizia è davvero tremenda, poiché comporta il potere di sopprimere, magari a vita, la nostra libertà. Un simile straordinario potere deve giustificarsi a sua volta – e può farlo soltanto se le pene che commina siano le meno penose ragionevolmente concepibili. Difronte a pene come quelle che abbiamo ricordato inflitte agli anarchici c’è da chiedere dove sono andati a finire i dibattiti degli scorsi decenni sulle alternative al carcere o sul significato e sul fine della stessa detenzione.

Ricorda qualcuno che si discettava sui nobili scopi pedagogico-rieducativi della pena? La critica di questa consolatoria ideologia è davanti ai nostri occhi – ma est modus in rebus, vi deve essere una misura nelle cose, e cioè occorre riconoscere che la distanza tra l’ideologia del reinserimento sociale, predicata tuttavia dalla Costituzione, e la realtà dei fatti mai può essere maggiore che nei casi come questo, quando un accusato di reati di natura essenzialmente politica viene trattato da criminale mafioso. Certo è questo il modo più proficuo e rapido per avviarlo a pentirsi dei propri errori e per reintegrarlo nell’armoniosa trama della nostra comunità.

C’è da credere quasi che l’accanimento contro gli anarchici – della cui esistenza forse l’opinione pubblica non era neppure informata – esprima l’inconscia volontà di liberarsi da un senso di colpa che ci affligge. Chiudendo l’anarchico in una prigione senza porte o finestre nascondiamo l’anarchia in cui ci troviamo e che da anni consente soltanto di “tamponare” i nostri malanni. Astuzie della storia o della Provvidenza. Ma si sappia che i regimi che tirano avanti senza sapere affrontare le proprie contraddizioni se non inventando di emergenza in emergenza capri espiatori hanno un destino certo: chi non può governarsi da sé, si lasci governare da altri – ce lo diceva il nostro grande Vico – e io aggiungerei sommessamente: il Paese che per sentirsi più sicuro riduce i diritti della persona, aumenta il ricorso alla prigione e ne aggrava il regime, illudendosi che questi mezzi siano i più idonei a raggiungere quello scopo, finirà inevitabilmente col trovare la propria sicurezza nel farsi prigioniero del più forte.

da La Stampa

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