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Il calvario di Lamine Hakimi, morto dopo ‘l’orribile mattanza’ nel carcere di Santa Maria Capua Vetere

Lamine Hakimi aveva 28 anni, e la sua storia è finora passata inosservata nel dibattito sulle terribili violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

È il pomeriggio del 6 aprile 2020 quando 15 agenti della polizia penitenziaria del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere (in provincia di Caserta) si presentano di fronte alla cella numero sette del reparto Nilo.

Dentro c’è Lamine Hakimi, un 28enne originario di Annaba (Algeria) affetto da patologie mentali, che sta scontando la sua pena per reati comuni; a settembre dello stesso anno dovrebbe uscire di prigione. Gli agenti—come ricostruirà poi l’avviso di conclusione delle indagini, che nelle ultime settimane ha riportato l’attenzione sul suo caso—entrano nella cella, lo afferrano con forza e iniziano il pestaggio nell’atrio del reparto.

Hakimi è colpito con calci, schiaffi e pugni al punto tale da accasciarsi per terra. Perde anche una scarpa, che viene scalciata da una guardia. Poi viene trascinato sulle scale, dove continua a essere picchiato da agenti disposti su due lati; l’uomo cade ancora una volta e viene colpito con altri calci e manganellate.

Dopodiché, Hakimi viene messo insieme a un altro detenuto nell’area di passeggio (il cosiddetto “fosso”), dove rimane un’ora e mezza. Dallo spioncino della porta blindata si affacciano le guardie che urlano cose del genere: “Ancora deve finire qua, adesso vi mandiamo in culo al mondo, vi dobbiamo uccidere, vi dobbiamo schiattare.”

Nel resto del reparto, intanto, si sta consumando ciò che il giudice per le indagini preliminari Sergio Enea ha definito “una orribile mattanza”—ossia la selvaggia spedizione punitiva ordinata dopo la rivolta del giorno prima. Per quelle torture e molti altri reati sono attualmente indagati 120 tra funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e agenti di polizia; di questi, 52 sono stati sottoposti a misure di custodia cautelare lo scorso 28 giugno.

Il contesto in cui sono avvenute quelle “azioni crudeli, degradanti e inumane” è noto. Il 5 aprile 2020, nel pieno della prima ondata della pandemia di Covid-19, circa 150 reclusi si impossessano delle chiavi di alcune sezioni e le occupano per protesta a seguito di un caso di contagio. L’ordine è ristabilito dopo lunghe trattative.

Ma gli agenti cercano vendetta, e pianificano così una “perquisizione straordinaria” per affermare la propria superiorità sui detenuti. Il tenore delle conversazioni intercorse in chat tra gli agenti, e recuperate dagli inquirenti, è agghiacciante: “allora domani chiave e piccone in mano,” “li abbattiamo come vitelli” e “spero che pigliano tante di quelle mazzate che domani li devo trovare tutti malati.”

La furia di circa 300 agenti si abbatte sul reparto Nilo per quattro lunghissime ore. I detenuti, come si vede dai video di sorveglianza pubblicati dal quotidiano Domani a giugno, vengono fatti inginocchiare in uno stanzone con la faccia rivolta al muro; tirati fuori dalle celle e pestati a sangue; costretti a passare in mezzo ai famigerati “corridoi umani”. I manganelli si abbattono persino su un recluso in sedia a rotelle.

Dalle carte dell’inchiesta—che ho potuto parzialmente visionare grazie all’associazione Antigone, che ha presentato un esposto per quelle violenze già il 14 aprile del 2020—il senso di impunità e onnipotenza è totale. “Oggi appartieni a me, sono io che comando, sono lo Stato,” esclama un agente rivolgendosi ai detenuti. Un altro gli fa eco dicendo che “lo Stato siamo noi, tu e tutti i tuoi compagni dovete morire.” Un altro ancora ribadisce che “qui sei a Santa Maria, qui ti uccidiamo, ora rimani da solo.”

Lamine Hakimi è probabilmente il detenuto su cui gli agenti infieriscono di più. Dopo averlo prelevato dal “fosso”, riferisce sempre l’avviso di conclusione delle indagini, gli agenti lo riportano nel corridoio principale; uno di loro lo colpisce ripetutamente con schiaffi in testa. Hakimi reagisce sferrando un pugno, e a quel punto le guardie si scatenano per fargli pagare quello che vedono come un affronto. Un agente grida: “A calci no, avete capito? Non lo uccidete perché sennò lo paghiamo.”

Le torture proseguono per tutto il tragitto verso il reparto Danubio, dove sono trasferiti i detenuti più riottosi (in tutto 15) per scontare un periodo di isolamento di 15 giorni—che i pubblici ministeri ritengono oggi illegittimo e ingiustificato, visto che è stato disposto con verbali falsi e si è protratto ben oltre quel termine.

Hakimi è l’unico detenuto che viene picchiato anche in isolamento. Gli altri reclusi, che pure avevano subito soprusi fino a quel momento, sono turbati: “Stava spezzato,” riferisce un recluso ai magistrati che hanno indagato sulle violenze del 6 aprile 2020, “si vedevano segni neri come i tubi, i tubi proprio.” Un altro testimone racconta che “aveva una testa così, non me la dimentico più quella testa, […] nel frattempo che sono stato io andava sempre in bagno a vomitare sangue”.

Il 15 aprile, a dieci giorni dal pestaggio, i segni sul corpo di Hakimi sono ancora visibili. Il medico che lo visita gli scatta le foto e nel referto scrive che “risultano compatibili con quanto riportato agli atti e con le dichiarazioni anamnestiche.” Un detenuto ricorda che “stava troppo male, aveva segni di manganellate dappertutto e un bozzo dietro la testa.”

Tuttavia, quella rimane l’unica visita sommaria; per il resto, l’isolamento è strettissimo e spietato. Tra le varie cose ai detenuti non vengono consegnate lenzuola o vestiti di ricambio, né fornita assistenza per le lesioni o le patologie pregresse.

Hakimi, che è un soggetto fragile e scosso dalle violenze subite, è sottoposto a un “regime del tutto indebito e inadeguato” rispetto al suo precario stato psicofisico: non viene nemmeno sorvegliato per evitare gesti di autolesionismo, né aiutato; al contrario, ogni sua richiesta è ignorata o accolta da frasi come “non fare casino.”

La situazione precipita la sera del 3 maggio, dopo quasi un mese di isolamento. Secondo il resoconto di un detenuto ai magistrati, Hakimi gli dice per cinque volte “salutami mia madre.” La sensazione, aggiunge, è che il 28enne “fosse disperato.”

Il 4 maggio del 2020 Hakimi ingerisce in maniera incontrollata—cioè senza alcuna supervisione sanitaria—neurolettici, benzodiazepine e buprenorfina (un oppiode), che provocano un edema polmonare acuto e il susseguente arresto cardio-respiratorio. Muore così in una cella del reparto Danubio, da solo.

In quello stesso giorno si tiene un’altra “perquisizione” in cui gli agenti sputano in faccia ai detenuti e li minacciano ancora: “Mica è finita qua! Avete avuto la colomba, ora dovete avere ancora l’uovo di Pasqua!”

L’autopsia sul 28enne evidenzia un “politrauma contusivo al volto, al dorso, agli arti inferiori, con frattura delle ossa nasali,” ma non sono chiare le “circostanze di come [Hakimi] si sia procurato” i farmaci, ha ammesso la procuratrice Maria Antonietta Troncone in una conferenza stampa tenutasi il 29 giugno 2021, e “non abbiamo gli elementi per capire cosa sia davvero successo.”

Come avevamo già scritto in un articolo di qualche tempo fa, l’abuso di farmaci nelle carceri è una realtà “diffusa e molto pesante”, venuta alla luce durante le rivolte e le repressioni della primavera del 2020 in altre prigioni italiane—specialmente quella di Modena—e drammaticamente sottovalutata.

Quando a giugno 2021 emerge la portata degli abusi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, la storia di Hakimi rimane un po’ sullo sfondo; anche perché nell’ordinanza di custodia cautelare si parla di suicidio, sostenendo che fosse passato troppo tempo tra la rivolta e la morte. In sostanza, non ci sarebbe il nesso di causalità.

La vicenda viene riportata all’attenzione del pubblico nell’agosto del 2021 dal deputato di +Europa Riccardo Magi, attraverso un’interrogazione parlamentare rivolta alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. In un’intervista al Riformista, Magi l’ha definita “la tragedia più grossa e indicibile.”

All’inizio di settembre i magistrati comunicano l’avviso di conclusione delle indagini, in cui per la prima volta viene contestata la cooperazione in omicidio colposo a 13 indagati, tra cui l’allora comandante della polizia penitenziaria del carcere Gaetano Manganelli e il provveditore regionale del Dap Antonio Fullone—oltre agli agenti che si trovavano nel reparto di isolamento.

Simona Filippi, avvocata e responsabile contenzioso di Antigone che ho sentito al telefono, sottolinea che la procura “ha cercato di superare questo problema descrivendo le ulteriori azioni che sarebbero state commesse anche dopo le violenze.”

Se le prime ricostruzioni parlavano solamente di suicidio, per esempio, nel documento di 174 pagine si legge che il decesso è avvenuto a causa delle “torture e dei maltrattamenti subiti” e delle “indebite condizioni di isolamento sociale.” Quella modalità di segregazione, scrivono il procuratore Alessandro Milita e la procuratrice Maria Alessandra Pinto, è stata “devastante” per la sua condizione psicologica e ha portato ad “angoscia incoercibile e dispercezioni,” all’emersione di una “sintomatologia psicotica” nonché di una “situazione di abbandono morale e materiale.”

Questi effetti dell’isolamento in carcere, peraltro, sono abbondantemente documentati dalla letteratura scientifica. Come scrive la ricercatrice Federica Coppola in un articolo sul Journal of Law and the Biosciences, “l’isolamento può causare un danno cognitivo, emotivo e fisiologico potenzialmente permanente.” Tali danni sono ancora più devastanti—rilevano i ricercatori Jeffrey Metzner e Jamie Fellner in uno studio—per i detenuti affetti da patologie mentali, e aumentano drasticamente il rischio di suicidio.

A ogni modo, l’avvocata Simone Filippi mi dice che c’è un ulteriore aspetto da chiarire sull’intero episodio. Sebbene il corpo sia stato rimpatriato in Algeria, non si sa ancora se la famiglia di Hakimi sia stata avvertita dell’esistenza di un possibile processo per tortura e omicidio colposo.

“Credo che sia doveroso,” afferma la legale, “che uno Stato si occupi di avvertire la madre che in qualche modo si sta cercando di fare giustizia per la morte di suo figlio.” Dagli atti d’indagine, prosegue, emerge infatti che l’uomo faceva telefonate con la madre.

La questione è anche piuttosto urgente: la famiglia dev’essere messa a conoscenza di questo processo soprattutto per potersi costituire come parte civile. Al momento, però, i tentativi di mettersi in contatto tramite l’ambasciata e altre istituzioni preposte non hanno avuto seguito.

Di sicuro, ribadisce Filippi, “quella di Santa Maria Capua Vetere rappresenta una delle più gravi violazioni della storia repubblicana del paese.” E la vicenda di Hakimi è la riprova—l’ennesima—di come nelle carceri italiane si possano sospendere a piacimento i diritti umani, annientando completamente un essere umano sul piano burocratico, psicologico e fisico.

Leonardo Bianchi

da vice.com

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