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Quelli che… buttiamo via la chiave

Approfondimento realizzato da Zeroincondotta dopo le rivolte che in piena emergenza coronavirus sono scoppiate nelle carceri di tutta Italia

La diffusione drammatica del coronavirus ha investito anche le carceri italiane, sono esplose rivolte sono morti 13 detenuti. L’emergenza sanitaria sortisce l’effetto di rafforzare lo stato d’eccezione, a spese dei più deboli, repressione e contenimento sono ancora la ricetta. L’urgenza di una campagna per l’amnistia, l’indulto e per misure alternative alla detenzione.

Parte I^

Quelli che…

La prima domanda che ci si dovrebbe porre per comprendere i perché delle rivolte di marzo avvenute nelle carceri italiane è se tutto questo sarebbe avvenuto senza la pandemia del coronavirus?

C’era una vecchia canzone di Enzo Jannacci che si intitolava “Quelli che…”, veniva utilizzata in tante occasioni e per diversi contesti. A un certo punto, nella traccia del disco del grande Enzo, si sentiva “Quelli che… sono giovani e stanno in galera e non sanno perché… oh yeh… Quelli che… stanno fuori e lo sanno benissimo… oh yeh”. Noi abbiamo voluto usare lo schema dello scomparso cantautore milanese, riteniamo sia efficace anche per capire le cause della rivolta generalizzata avvenuta dietro alle sbarre qualche giorno prima delle idi di marzo.

Quelli che… facciamoli marcire in carcere e buttiamo via la chiave, come dicono Salvini e la Meloni… oh yeh…

Quelli che… si sentono manettari e “Travaglio è il nostro idolo”, soprattutto quando afferma “Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente è in carcere”… oh yeh…

Quelli che… finita la stagione di Di Pietro, è iniziata quella dei Cinque Stelle e si è tornati al forcaiolismo a tutto campo… oh yeh…

Quelli che… un tempo erano “Fofò”, dj abbastanza scarso, e oggi fanno il Bonafede, ministro della Giustizia… perché “lo Stato non indietreggia neppure di un centimetro di fronte all’illegalità” che si combatte con questa ricetta: più arresti, pene più alte, abolizione della prescrizione e annullamento sostanziale della presunzione di innocenza… oh yeh…

Quelli che… come i Dem, escludono qualsiasi cedimento e dichiarano una chiusura netta a discorsi su indulti o amnistie, “perché nessuno vuole liberare nessuno, tantomeno i rivoltosi”… oh yeh…

Quelli che… negli ultimi vent’anni hanno assistito a una progressiva flessione del numero e della gravità dei reati, e contemporaneamente hanno lavorato per aumentare il numero delle persone arrestate, perché la percezione della paura persiste nella società… oh yeh…

Quelli che… hanno prodotto leggi dove l’uso del carcere è indicato come strumento di governo sociale, sfornando provvedimenti per ridurre i benefici, i premi, le scarcerazioni anticipate, producendo un allungamento delle pene per i detenuti condannati in via definitiva, dando mano libera ai Pm e alla loro logica inquisitoria… oh yeh…

Quelli che sbavano per Piercamillo Davigo (ex Pm, ex capo dell’Anm, attualmente consigliere del Csm), per il quale il sovraffollamento nelle prigioni non esiste, ed è troppo benevola la norma che prevede che ogni detenuto abbia diritto a tre metri quadrati di spazio… oh yeh…

Quelli che… ha ragione l’autorevolissimo ex magistrato di “Mani pulite” quando dice che ne basterebbero due, o forse uno e mezzo o forse solo lo spazio per la branda… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se, nel 1991 i detenuti erano erano 31.000, nel 1998 erano 48.000, nel 2015 erano 52.000, nel 2017 erano 55.000 e, alla fine di febbraio del 2020, sono 61.230… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se a maggio del 2019 il tasso di affollamento delle carceri in Europa era del 93% mentre nel nostro Paese, a fine febbraio 2020, era di oltre il 120%… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per trattamenti inumani e degradanti legati al sovraffollamento carcerario… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se il numero dei detenuti in custodia cautelare si aggira sulle 20.000  unità, cioè il 33/34% del totale… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se di questi circa il 40% risulta innocente, il che significa che, oggi, nelle prigioni italiane ci sono quasi 10.000 persone che vedranno la loro innocenza riconosciuta dopo aver trascorso in cella un periodo più o meno lungo della propria vita… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se l’Italia è uno dei paesi europei con la più alta percentuale di detenuti tossicodipendenti (oltre il 35%), a causa di una legislazione sulle droghe tra le più repressive e che rappresenta una delle principali cause di ingresso e permanenza in carcere… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se su 61.000 detenuti più di 4.000 hanno tra i 60 e i 69 anni e quasi un migliaio hanno oltre 70 anni… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se molti di questi detenuti anziani sono malati con patologie gravi e lo strumento della sospensione della pena per “condizioni di salute incompatibili col regime di detenzione” non viene quasi mai applicato… oh yeh…

Quelli che… chi se ne frega se i carcerati sono costretti a passare la maggior parte del tempo della loro detenzione senza fare nulla, se non compilare per ogni cosa la fatidica “domandina”… oh yeh… Quelli che… per dare una risposta all’istanza inoltrata dal detenuto scritta su quel pezzo di carta ci possono mettere giorni, settimane e a volte pure mesi… oh yeh…

Tutto passa da quel pezzo di carta… per venire autorizzati allo svolgimento di un’attività o per rappresentare qualcosa al direttore, al magistrato, oppure al dottore, all’educatore, all’assistente sociale, all’ispettore di reparto, o ancora quando si vogliono acquistare prodotti nella lista del sopravvitto, o si vuole telefonare, o rivolgersi alla matricola, o vedere un volontario, o parlare con un prete, o recuperare un oggetto al casellario.

Tutto passa da quella dannata “domandina” che spesso viene pure smarrita, così come la vita di quelli che un tempo venivano chiamati i “dannati della terra”.

I nodi che vengono al pettine

Basta conoscere in maniera elementare la realtà delle carceri italiane per rendersi conto come siano luoghi di vera e propria sofferenza fisica e psichica e per avere la consapevolezza che le tremende condizioni di detenzione che si vivono quotidianamente avrebbero portato, prima o poi, a un’esplosione di rabbia.

Negli spazi ristretti e insalubri dove sono rinchiusi i detenuti, in eccesso rispetto ai parametri minimi di vivibilità, dove la tossicodipendenza è presente ad alti livelli, hanno potuto mettere radici patologie gravi come l’Aids, la Tbc e l’epatite.

L’emergenza del coronavirus si è sommata alle vecchie e incancrenite emergenze radicate nelle carceri da decenni e ha aggravato la già drammatica situazione.

La paura per casi di contagio (quella che abbiamo tutti) ha diffuso uno stato di agitazione e di pericolo, la consapevolezza che le misure di protezione nei reparti di custodia non si potevano attuare ha creato panico di fronte alle prime febbri influenzali. L’annullamento dei colloqui con i propri cari è stata un’altra botta, la sospensione dei permessi che molti attendevano da tempo ha fatto il resto. E prima ancora erano stati chiusi tutti i progetti culturali e di socialità gestiti dai volontari che entravano negli istituti ed erano stati annullati i colloqui con gli avvocati (salvo casi di eccezionalità).

Erano misure che da fuori, razionalmente, possono sembrare motivate, ma questi provvedimenti sono stati comunicati, nella maggior parte dei casi, con delle semplici notifiche.

Un detenuto che si trova in una galera sovraffollata e si sente dire per radio o per televisione che a causa del coronavirus bisogna tenere una distanza di sicurezza di almeno un metro o che sono vietati gli affollamenti e lui tutto il giorno è costretto a stare attaccato a una totalità di persone spesso debilitate da un passato di tossicodipendenza e da altre gravi patologie e, quando alcune di queste hanno la febbre o si ammalano, è normale che possa andare in paranoia. Se a te che hai già una vita povera di relazioni ti comunicano che sono sospese le visite parenti, ma in cambio aumenteranno le autorizzazioni a telefonare, anche via Skype, o si potrà usufruire più spesso del servizio mail, e poi ti accorgi che “per motivi tecnici” queste cose non si riescono a fare, è normale che ti senti preso in giro.

Quando ti dicono che questi provvedimenti più restrittivi vengono attuati per il tuo bene, per tenere il più possibile fuori dagli istituti le cause di contagio e, ogni giorno vedi gli operatori e gli agenti entrare e uscire senza avere in dotazione nemmeno le mascherine, è chiaro che aumenta la confusione e la paura che, in tempi di coronavirus, ti vogliono escludere ancora di più dal resto del mondo. E, in questo contesto, diventa un’ossessione quello che potrebbe succedere nel caso in cui ci fossero casi d’infezione dentro, pensi a quanti ci potrebbero lasciare le penne e alla velocità con cui il virus si potrebbe espandere. Dover riempire le giornate con il nulla e l’angoscia… C’è da andare sul serio fuori di testa.

E così parte la protesta a Modena e, a macchia d’olio, si espande in decine di carceri in Italia. In poco tempo diventa rivolta, come da decenni non si vedeva. Dopo tanti anni di calma apparente nelle prigioni è tornata a divampare la rabbia.

Al contrario di quelli che parlano di un piano messo in ordine dalla criminalità organizzata, perché si ostinano a non voler afferrare le ragioni di chi si è ribellato, quello che è avvenuto negli istituti di pena è stata una rivolta spontanea, caotica, indefinita. Sopra i tetti o alle finestre sono stati appesi dei lenzuoli che inneggiavano all’indulto e alla libertà, ma non si è esplicitato un movimento compatto, tantomeno guidato da una supposta strategia o con dietro dei “burattinai” a muovere i fili.

Inoltre, la tesi di comodo del “piano preordinato” fa a pugni con la stessa “narrazione ufficiale” che, oltre a essere scarsa, si è incentrata esclusivamente sul fatto che una delle prime cose fatte dai detenuti rivoltosi è stata quella di dare l’assalto ai locali delle infermerie, per impossessarsi di metadone e psicofarmaci. Una parte di loro li avrebbe “divorati” in modo eccessivo e spropositato finendo in overdose, principale causa di morte dei carcerati che in quelle giornate hanno perso la vita. E questa “crisi di astinenza” generalizzata che avrebbe portato tanti a precipitarsi per arraffare medicinali e analgesici sconfessa inequivocabilmente l’idea complottista che dietro le rivolte ci sia stata una regia a livello nazionale. Anche perché, se fosse così, dopo le proteste scoppiate di recente nei penitenziari francesi o nelle prigioni brasiliane, per il blocco dei colloqui e delle visite causa coronavirus, si dovrebbe prefigurare una regia internazionale.

Le notizie frammentate e spesso contraddittorie che sono state fatte filtrare non hanno aiutato a ricostruire la complessità della situazione e, in tempi di continuativo allarme sociale e di confusione da panico epidemico, le notizie arrivate sulle rivolte, anziché essere viste come avvisaglie di qualcosa che riguarda tutti, sono state scambiate per un’altra forma pericolosa di epidemia, che rischia di sommarsi a quella già scoppiata nel Paese.

Parte II^

Tredici morti e il silenzio assordante della politica, delle istituzioni e dei media ufficiali

C’è una cosa in più che dimostra come le forze politiche, il governo e tutto il sistema dell’informazione mainstream, per mantenere il consenso politico costruito sul “giustizialismo” di bassa lega, abbiano deciso di abbandonare al proprio destino chi in carcere ci vive. La tragica morte di tredici persone detenute durante i giorni delle proteste è stata volutamente rimossa, coprendola con un silenzio sconcertante.

Tutti coloro che vivono nel carcere, vi lavorano o lo frequentano, i famigliari e in generale la società e la pubblica opinione, avrebbero avuto il diritto di conoscere quello che è successo nei particolari e di essere informati con una certa tempestività.

E invece tutto è passato con una scrollata di spalle, si ha l’impressione che l’opacità, la disinformazione e l’incertezza siano gli approcci con i quali la “società ufficiale” si sia rapportata e continui a confrontarsi con il cosiddetto mondo delle “istituzioni totali”.

E’ miserabile che sia passata come veritiera, senza nessuna richiesta di ragguagli e chiarimenti, la versione ufficiale che ha descritto i tredici sventurati che hanno perso la vita durante le sommosse come soggetti che non hanno avuto altro pensiero se non quello di cercare disperatamente metadone e psicofarmaci e imbottirsene fino a morire. Ci vuole veramente molta “fiducia” per immaginare che nella concitazione, negli scontri, tra gli incendi e le distruzioni, l’unico modo per lasciarci le penne sia la “drammatica conseguenza” dell’overdose.

Se non fosse stato per l’Associazione Yairaiha Onlus che, nel suo profilo Facebook il 19 marzo (dieci giorni dopo i fatti), ha deciso di pubblicare i nomi dei tredici morti, la cappa di silenzio e di “omertà istituzionale” avrebbe già nascosto definitivamente sotto lo zerbino dell’oblio quelli che vengono considerati meno della polvere.

Dice Yairaiha: “Ben undici delle persone decedute erano straniere: nomi e numeri a cui è difficile associare una storia e che un po’ frettolosamente sono state archiviate come decedute a seguito di loro comportamenti. Nessun elemento vi è per sostenere ipotesi diverse da quelle fin qui formulate dalle autorità che indagano, ma colpisce la rapida dimenticanza delle loro storie – a uno mancavano solo alcune settimane prima del termine dell’esecuzione penale – il loro non essere nemmeno menzionate nel riportare gli episodi al Parlamento, il loro essere solo un numero. Tredici, ben superiore anche a eventi drammatici del passato nel periodo di insorgenze carcerarie che si connettevano con una realtà esterna in sommovimento”.

Un numero sconvolgente quel 13, guardando al passato viene in mente solo un altro episodio in qualche misura paragonabile: l’incendio nella sezione femminile del carcere torinese delle Vallette, avvenuto il 3 giugno 1989, nel quale rimasero uccise nove recluse e due vigilatrici. Allora vennero definite “morti per incuria e inefficienza”, perché 300 materassi infiammabili erano stati accatastati sotto le finestre della sezione femminile, perché i soccorsi tardarono, perché nel carcere non esisteva un piano antincendio, e il tentativo di aprire decine di celle era affidato a due sole agenti, che trovarono pure loro la morte.

Ma almeno in quel caso, i media garantirono adeguate informazioni e approfondimenti, si aprirono polemiche, se ne discusse, si lottò per mesi, ma alla fine, con il sostegno dall’avvocata Bianca Guidetti Serra, si arrivò al processo.

Sugli episodi di questi giorni, al contrario, ci si imbatte in un’informazione sbrigativa e superficiale sulle cause e gli accadimenti che hanno provocato quelle morti. Un offuscamento mediatico e politico che non ha nessuna giustificazione, se non il tornaconto politico che il giustizialismo manettaro ha garantito in questi anni.

Se a tutto questo aggiungiamo poi che da anni, parlamentari e consiglieri regionali non svolgono più quella funzione di controllo che gli compete e non entrano quasi mai negli istituti di pena (solo Rita Bernardini del Partito Radicale ed Eleonora Forenza, finché è stata al Parlamento Europeo, hanno molte visite), la pietra tombale sull’universo carcerario ormai è innamovibile.

Se non ci fossero state associazioni e realtà informali, come Yairaiha, Legal Team, l’Associazione Bianca Guidetti Serra, Osservatorio Repressione (che hanno aperto un indirizzo di posta elettronica emergenzacarcere@gmail.com per ricevere segnalazioni), o come Antigone, Papillon Rebibbia, Ristretti Orizzonti o Movimento Antipenale e varie forme di “solidali”, che hanno raccolto informazioni, preoccupazioni e allarmi di gruppi di famigliari, che hanno sollecitato con appelli e petizioni gli organi istituzionali e i Garanti dei detenuti, che hanno promosso presidi davanti alle carceri, il tutto sarebbe già stato accantonato per il bene supremo della ragione di Stato.

Il 19 marzo l’associazione Antigone, in un comunicato ha dichiarato: “Esprimiamo grande preoccupazione per le numerose segnalazioni di violenze e abusi che sarebbero stati perpetrati ai danni di persone detenute a noi arrivate negli ultimi giorni”.

I sindacati della Polizia penitenziaria

Gli agenti della polizia penitenziaria sono sicuramente la categoria con il maggior numero di sindacati che si fanno concorrenza per rappresentarli. Un groviglio di sigle (Sappe, Sinappe, Coisp, Spp, Osapp, Siulp, Fc-Cgil Polizia Penitenziaria, Uilpa, Fns-Cisl Pol.Pen., DirPolPen) che sarebbe giustificato se ogni singola organizzazione rappresentasse posizioni tra loro diverse, sulla vicenda delle rivolte di marzo, invece, se mettessimo comunicati e dichiarazioni in un sacchetto e li estraessimo come per la tombola, sarebbe difficile accreditarli a questa o quella struttura sindacale, perché è come se fossero tutti uguali, non differenziati nemmeno sulle sfumature.

Del resto, sono stati loro l’unica voce che è uscita compatta dall’interno degli Istituti di pena, quella che, nella sostanza, ha scritto la “narrazione ufficiale” delle proteste in carcere, dando una lettura univoca e proponendo una via d’uscita peggiore dell’entrata.

Parlano di “grimaldello usato da certi personaggi per ottenere sconti di pena e provvedimenti di clemenza”, che i “disordini erano facilmente prevedibili e i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovevano mettere in atto tutte le misure per impedirli”. Per questo quasi tutti chiedono le dimissioni del capo del Dap Basentini e alcuni anche del ministro Bonafede. E’ per una gestione troppo lasciva che le carceri si sarebbero ritrovate in una situazione di sfascio: “A fronte di un così lampante fallimento delle politiche penitenziarie, improntate esclusivamente sul benessere dei detenuti, viene richiesto un commissariamento urgente del Dap”.

I sindacati rivendicano di aver segnalato prima della sommossa “la totale mancanza di sicurezza”, per via dell’attuale regime di “custodia aperta” che vede i detenuti “liberi di circolare all’interno delle sezioni ormai senza controllo”. Poi ci sono le richieste di amnistia che “hanno avuto l’effetto di buttare benzina sul fuoco, legittimando la diffusione delle rivolte”.

Per esempio, è molto esplicita la leader dell’Associazione nazionale dei dirigenti e funzionari di Polizia penitenziaria nel richiedere “la punizione severa di coloro che stanno fomentando le rivolte e l’interdizione da subito di ogni accesso a esponenti o associazioni che in ragione delle loro campagne storiche di tutela e promozione dei diritti dei detenuti possano vedere la loro voce strumentalizzata da facinorosi e violenti”.

Il segretario generale del Siulp parla di “’rivoluzione orchestrata a tavolino”, con “una logica predeterminata di qualche regista occulto che soffia su un fuoco i cui risvolti non gli sono ben chiari. Si tratta di sommosse attuate ad orologeria e con una sequenza ben definita… La violenza, la premeditazione e la chiara regia unica con cui si stanno consumando questi atti di violenza inaudita, non consentono di arretrare di un solo centimetro perché se così dovesse verificarsi, ci sarebbe la resa dello Stato all’antistato”.

Anche il segretario del Coisp sostiene che “la contemporaneità delle rivolte all’interno delle carceri italiane lascia pensare che ciò a cui stiamo assistendo sia tutt’altro che un fenomeno spontaneo”.

Il segretario dell’Spp sostiene di avere fondato motivo per “ritenere che in caso di ulteriori sommosse si potrebbero aggiungere problemi derivanti da ‘attacchi’ provenienti dal di fuori delle strutture”.

Il Sinappe, invece, in suo comunicato in Lombardia dichiara: “Ancora una volta, mentre gli uomini e le donne della Polizia penitenziaria cercavano di contenere la devastazione delle carceri, compiute da orde barbariche di detenuti allo sbando, mentre le sezioni si riempivano di fumo, i cancelli cadevano sotto le spinte della massa, c’è ancora chi ipotizza che in quel frangente si siano consumati ‘maltrattamenti’ ai danni di alcuni reclusi”.

L’Osapp insiste su commissariamento del Dap e “chiede che il governo e in particolare il presidente del Consiglio Conte prendano in mano, con urgenza la situazione delle carceri italiane prima che il sistema penitenziario collassi definitivamente”.

Il coordinatore regionale veneto della Fp-Cgil Penitenziaria ha dichiarato: “Faccio questo lavoro dal 1983. Ne ho viste tante: brigatisti rossi, autonomi, detenuti extracomunitari, Mala del Brenta. Ma questo è un momento da bollino rosso, siamo in allerta continua… Questa emergenza dovrebbe far riflettere. Pensiamo a cosa è successo in altre nazioni, Brasile, Argentina, dove un’epidemia ha innescato una sorta di bomba in alcuni istituti di pena con fughe di massa. Ecco, noi non siamo preparati a far fronte all’emergenza. Ci sono piani anti-evasione ma non direttive o protocolli per situazioni come quella che stiamo vivendo”.

Insomma, quasi tutti chiedono il pugno di ferro e misure più restrittive, perché c’è stata troppa accondiscendenza nei confronti dei detenuti e non sono state ascoltate le indicazioni del personale di custodia. Altra richiesta ribadita da molti è l’utilizzo dell’esercito intorno alle mura di cinta e di dotare i gruppi di pronto intervento di pistole taser.

In più, si sollecita l’introduzione di norme che prevedano pene severissime per chi organizza o partecipa a sommosse e devastazioni; turbi l’ordine e la sicurezza negli istituti di pena; usi la forza nei confronti del personale penitenziario.

Sentendo tutte queste prese di posizione, verrebbe da dire che gli strascichi delle rivolte delle scorse settimane dovrebbero portare a modalità di gestione della quotidianità detentiva ai livelli del 41 bis… Tutti provvedimenti che acuirebbero la già grave situazione di disagi e tensioni che esisteva già prima delle proteste di marzo.

Parte III

La magistratura di sorveglianza

Nei giorni successivi alle rivolte l’organo di rappresentanza dei magistrati di sorveglianza (Conams), sottolineando anche il “rischio rebound del contagio penitenziario sull’intero sistema nazionale e sulla salute collettiva dei cittadini” ha fatto uscire un documento “nella prospettiva – di esclusiva competenza delle autorità politiche – di un piano ragionato, ordinato e non indiscriminato di scarcerazioni che almeno riporti il sistema penitenziario entro la sua capacità regolamentare, con strumenti ordinari e straordinari sia nel campo delle misure cautelari sia in quello delle misure alternative alla detenzione”. Il Conams si è poi offerto di collaborare per redigere un piano di “misure serie e celeri di prevenzione e di contenimento della diffusione virale nelle carceri”.

Antigone questa presa di posizione l’aveva sollecitata: “Ci rivolgiamo ancora a tutti i magistrati di sorveglianza, anche attraverso le loro rappresentanze, affinché capiscano la situazione drammatica di questo momento e facciano uno sforzo nella concessione di misure alternative. Evitiamo che le carceri diventino luoghi di tensione e di sofferenza estrema, facciamolo nel nome dei diritti dei detenuti, dei loro parenti, ma anche del personale penitenziario”.

Ma ci sono altri, soprattutto avvocati impegnati nelle associazioni che sostengono i diritti dei detenuti, che rimangono convinti che il Conams, pur con colorature garantiste, pur con la presenza di singoli magistrati illuminati, nella sostanza rimanga un organismo pro sistema carcerario. A sostegno di questi ragionamenti viene portata la posizione del Conams a difesa della riforma del 41 bis nel 2009.

L’istituto della magistratura di sorveglianza venne istituito dalla legge 26 luglio 1975, n. 354, la cosiddetta “Riforma penitenziaria”, che poi venne rimodulata dalla cosiddetta “Legge Gozzini” del 1986 (insieme alla legge 194 sull’aborto e allo Statuto del lavoratori, è stata una delle leggi più contrastate dalla quasi totalità del sistema politico, per l’eccessiva liberalità). Si trattava è bene ricordarlo di una riforma penitenziaria che in qualche modo intendeva rispondere al movimento di lotta delle carceri dei primi anni Settanta.

Il compito dei magistrati di sorveglianza, lo dice la stessa denominazione, è quello di “sorvegliare” l’esecuzione delle pene, di vigilare sull’organizzazione degli istituti di prevenzione e pena, e prospettare al ministero della Giustizia le esigenze relative alla rieducazione e alla tutela dei diritti di quanti sono sottoposti a misure privative della libertà.

La magistratura di sorveglianza si occupa inoltre della concessione e revoca delle misure o pene alternative alla detenzione in carcere (affidamento in prova ordinario e particolare, semilibertà, liberazione anticipata, detenzione domiciliare, liberazione condizionale, differimento della esecuzione delle pene).

Cose di non poco conto, e se la situazione nelle carceri in questi anni si è aggravata a dei livelli insostenibili anche questo organismo ha le sue responsabilità, subendo largamente le suggestioni del clima giustizialista e manettaro che si è vissuto nel paese.

Soprattutto sulla concessione delle misure alternative, quando lo si è fatto, si sono dilatati abbondantemente i tempi per l’autorizzazione dei provvedimenti, rispetto a quelli previsti dalla legge. Soprattutto le decisioni sono state influenzate più che dai comportamenti tenuti dai soggetti durante la detenzione, dal loro approccio con il reato commesso (per il quale hanno già ricevuto una condanna definitiva che ha già tenuto conto di questo). Molto spesso il Tribunale di sorveglianza è diventato un quarto grado di giudizio dove il “pentimento attivo” del condannato diventa elemento discriminante nella concessione della misura alternativa. Poi ci sono state le influenze da retorica salviniana, sarebbe bene fare una verifica sulle disparità di trattamento tra detenuti italiani e detenuti stranieri (a parità di pena scontata e diritto alla misura alternativa).

La legge pone al magistrato di sorveglianza l’obbligo di andare frequentemente in carcere e di sentire tutti i detenuti che chiedono di parlargli, che questo mandato sia stato portato avanti in maniera adeguata rispetto agli organici dei tribunali è tutto da dimostrare. Un esempio concreto, tra i tanti che si possono fare: nel mese di dicembre sono andati in pensione i due magistrati del Tribunale di sorveglianza (un evento che si programma per tempo) e, fino alla fine di febbraio, non erano stati sostituiti. Quindi, tutte le nuove istanze dei tenuti non si sono potute presentare.

Un’ultima cosa: si blatera tanto di sicurezza in questi anni, si dice che il “buttare via la chiave” è l’approccio giusto rispetto a delinquenti che usciti dal carcere ricadono in recidiva per il 75%. Perché nessuno si è preso la briga (e avrebbe dovuto farlo la magistratura di sorveglianza anche a tutela del suo lavoro) di verificare di quanto si riduce questa percentuale per i detenuti in misura alternativa attivati in percorsi di reinserimento seri?

Il Garante dei detenuti

In queste settimane, rispetto a quello che è successo nelle carceri italiane, in tanti si sono chiesti dove erano i “Garanti delle persone private della libertà”, una figura di garanzia dei diritti dei detenuti che molti paesi europei prevedono da tempo. In Italia il percorso avviato fin dal 1997, prima coi Garanti comunali, poi in alcune regioni con quelli regionali e, poi, alla fine del 2013, con l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.

Il Garante è un organismo indipendente che ha il compito di monitorare i luoghi di privazione della libertà (oltre al carcere, le celle di sicurezza di polizia, i centri di detenzione per i migranti, le residenze per le misure di sicurezza).

Compito del Garante è individuare eventuali criticità e proporre soluzioni per risolverle. Inoltre, presso le istituzioni totali sulle quali esercita il proprio controllo, il Garante nazionale ha il compito di risolvere quelle situazioni che generano occasioni di ostilità o che originano reclami proposti dalle persone ristrette, mentre i reclami giurisdizionali sono compito del magistrato di sorveglianza.

Il Garante, dunque, dovrebbe operare per il rispetto della dignità di chi è privato private della libertà personale, svolgendo anche attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e cercando di avvicinare la comunità locale al carcere.

Ha perciò tutte le caratteristiche della stonatura la dichiarazione del Garante nazionale, nei giorni delle proteste: “I detenuti per primi devono capire che va interrotta questa catena di eventi, perché nuoce a tutti, per primi a loro, che già vivono in condizioni difficili. Gli va anche fatto capire che c’è un impegno concreto per salvaguardare la loro salute. Il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha formato una task force di cui faccio parte anche io per affrontare la questione”.

Insomma, il Garante entra nella task force del ministero e questo fatto dovrebbe essere la “garanzia” che Bonafede è uno che si impegna per i diritti dei detenuti… C’è da stare freschi (al fresco)…

In molti si sono domandati perché mai tanti Garanti non hanno detto nulla dopo le giornate dell’8/9/10 marzo. L’Associazione Bianca Guidetti Serra il 18 marzo ha scritto una lettera ai Garanti dell’Emilia-Romagna e a quello nazionale chiedendo se hanno svolto visite nelle carceri della regione per verificare le condizioni di salute e di incolumità dei detenuti nelle giornate successive alle proteste. La missiva chiede anche di verificare “lo stato di salute e di incolumità dei detenuti trasferiti e che non siano stati attuati nei confronti dei detenuti trattamenti crudeli, inumani e/o degradanti”. Infine l’associazione ha chiesto di avere informazioni sullo “stato delle misure di prevenzione igienico/sanitaria adottate nelle suddette carceri a fronte dell’emergenza coronavirus”.

Insomma, si tratta di iniziative che i Garanti avrebbero dovuto fare senza essere “esortati”, ma se le sollecitazioni qualcuno le fa, significa che qualcosa o diverse cose non hanno girato come dovevano.

Parte IV

Amnistia e indulto

Già nelle settimane precedenti i giorni della rivolta varie associazioni avevano cominciato a proporre un provvedimento di indulto per abbassare il sovraffollamento delle carceri evitando che la diffusione del coronavirus potesse avere un effetto devastante, qualora l’epidemia fosse arrivata all’interno degli istituti di detenzione.

Secondo queste sollecitazioni, con un indulto di due anni, uscirebbero quasi 17.000 detenuti, con un indulto di tre anni, come quello del 2003, più di 24.000.

A questi potrebbero aggiungersi più o meno altri 10.000 detenuti, e cioè circa la metà di quelli che sono stati messi dietro le sbarre prima della condanna definitiva, e che quindi, a norma della Costituzione, considerati non colpevoli. Molti di questi detenuti “non hanno le caratteristiche di pericolosità da mettere a repentaglio la tranquillità sociale”, “né possono inquinare le prove di delitti commessi, in molti casi, vari anni fa”, e “vengono tenuti dietro le sbarre quasi esclusivamente per indurli a confessare”.

In molti comunicati e petizioni è stata avanzata con forza anche la proposta di un’amnistia che finalmente la faccia finita con l’ipertrofia penitenziaria dispiegata in questi anni e ponga le condizioni per una nuova politica penale incentrata sulle garanzie e sui diritti dei detenuti.

L’amnistia e l’indulto sono istituti previsti da tempo e in passato sono stati utilizzati diverse volte. Tra il 1946 e il 1990, nel nostro Paese, ci sono state 17 amnistie e, nel pensiero giuridico, hanno rappresentato un mezzo per affrontare gli attriti e sanare le fratture tra costituzione legale e costituzione materiale. Alcune volte, come nel 1970 per il post “autunno caldo”, hanno avuto valenza politica e sono servite a ridurre la discordanza di tempi tra conservazione istituzionale e inevitabile trasformazione della società, incidendo sulle politiche penali e rappresentando momenti decisivi nel processo d’aggiornamento del diritto.

Più spesso le amnistie sono state ispirate da finalità di “deflazione del sistema penale” per riequilibrare situazioni che colpivano condotte che, per la loro esiguità, non risultavano “meritevoli”, di sanzione penale.

Nel 1992, nel clima nascente di giustizialismo che si stava propagando, l’amnistia e l’indulto sono stati trasformati da istituti giuridici in disprezzate bestemmie. Così è stato riscritto l’articolo 79 della Costituzione richiedendo, per la loro adozione, il voto favorevole dei due terzi del Parlamento. Un particolare che rende la loro approvazione più difficile della modifica della stessa Carta Costituzionale.

Se ci fosse un minimo di razionalità nella gestione della giustizia, si riprenderebbe in mano un uso corretto dell’amnistia e si appronterebbero interventi mirati e trasparenti in grado di evitare l’ingolfamento del sistema giudiziario e l’implosione del carcere. Sarebbero necessarie depenalizzazione e riduzione delle pene, che da anni crescono e ormai hanno raddoppiato quelle previste nel regime fascista.

Ma questo non avverrà per “gratuita concessione”. Diversi giuristi denunciano da tempo lo spostamento, sul piano del diritto penale, da un sistema giuridico basato sui diritti della persona a un sistema fondato prevalentemente sulla ragion di Stato.

Per questo una campagna per l’amnistia e l’indulto, al di là di una loro effettiva attuazione, è necessaria per provare a ridurre quel clima di “panico morale” che è stato alla base delle logiche giustizialiste e manettare che hanno avuto così ampio successo nel sistema politico italiano.

E’ evidente che è un movimento di opinione e di lotta che deve crescere nella società, al di là dei numeri che non ci sono in parlamento. E le basi per partire stanno nelle pressioni e nelle mobilitazioni per far sì che, intanto, il governo e la magistratura di sorveglianza adottino rapidamente misure alternative alla detenzione per alleggerire la situazione e fronteggiare l’emergenza legata al diffondersi del coronavirus

Antigone, per esempio, ha ritenuto che il minimo indispensabile fosse l’affidamento in prova e la detenzione domiciliare, estesi senza limiti di pena a tutti coloro che hanno problemi sanitari tali da rischiare aggravamenti a causa del virus; con la detenzione domiciliare per tutti coloro che già fruiscono della semilibertà. Qualcuno ha detto: “Perfino in Iran l’hanno fatto”.

Gli appelli per misure rapide e necessarie

Dopo i giorni della rivolta si sono ripetuti appelli e prese di posizione per fare pressione sulle Istituzioni ai vari livelli.

Un gruppo di artisti e personalità del mondo della cultura hanno sottoscritto un appello per costituire un Comitato che “lavori da subito alla raccolta di informazioni sulle vicende di questi giorni e che si proponga – nel rispetto ma anche nella sollecitazione delle competenze istituzionali – di fare piena chiarezza sull’accaduto”.

In un documento, uscito negli stessi giorni, dall’Unione Camere penali e dall’Osservatorio Carcere, si legge che “l’amnistia e, soprattutto, l’indulto sono le strade da seguire…. In questo momento, però, occorre immediatamente rafforzare il personale dei Tribunali di Sorveglianza, magari con i magistrati che in questo periodo non terranno udienze, per verificare quanti detenuti (e non sono pochi) hanno diritto ad avere gli arresti domiciliari, ovvero la misura (pena) alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, anche aumentando, con decreto legge, il tetto della pena da scontare per accedere al beneficio”.

Un appello firmato da avvocati e giuristi ha chiesto un utilizzo estremamente cauto delle misure di custodia cautelare, la sospensione dell’adozione di ordine nuovi per l’esecuzione della carcerazione limitata ai casi di estrema pericolosità e sostituzione con gli arresti domiciliari o altri obblighi limitanti la libertà di circolazione, la sospensione dell’esecuzione delle pene nei confronti di detenuti anziani o in precarie condizioni di salute, la concessione con procedure accelerate di misure alternative al carcere come la detenzione domiciliare o l’affidamento in prova, la sospensione del rientro notturno per i semiliberi consentendo il pernottamento presso un loro domicilio. Si tratta di misure che sarebbero già attuabili con normativa in vigore e legittimate dal momento di straordinaria gravità soprattutto dal punto di vista sanitario.

A queste e a tante altre sollecitazioni il governo ha risposto un decreto che prevede “misure per arginare il rischio diffusione codiv-19 nelle carceri e tutelare la salute dei detenuti”

Il decreto legge approvato dal governo che rimarrà in vigore fino al 30 giugno 2020 assomiglia molto alla montagna che partorisce un topolino. Intanto sono esclusi tutti i condannati indicati dall’articolo 4/bis, i cosiddetti “delinquenti, professionali o per tendenza”, i detenuti “sottoposti a regime di sorveglianza particolare”, quelli che nell’ultimo anno sono stati sanzionati per infrazioni disciplinari, quelli privi di “domicilio effettivo e idoneo”, naturalmente quelli “coinvolti coinvolti nei disordini e nelle sommosse verificatesi negli istituti penitenziari dalla data del 7 marzo 2020” e, comunque, in ogni caso, “la pena da eseguire non sia superiore a diciotto mesi, anche se costituente parte residua di maggior pena”.

Antigone il 18 marzo l’ha commentato in questo modo: “Con questo decreto saranno pochissimi i detenuti che potranno lasciare le carceri, di gran lunga meno degli oltre 14.000 che andrebbero scarcerati per riportare le carceri a una situazione di legalità e rendere possibile il contrasto di casi di coronavirus all’interno degli istituti. Mancano inoltre, nel decreto del governo, norme che tengano conto delle condizioni di salute dei detenuti che, se dovessero contrarre il covid-19, potrebbero non salvarsi. A loro bisognava guardare con norme ad hoc”.

Gli avvocati delle Camera Penale di Bologna il 20 marzo hanno dichiarato: “Bisogna che l’Amministrazione penitenziaria e la sanità pubblica dicano con chiarezza come intendono affrontare l’emergenza nei luoghi di reclusione. Invitiamo a incrementare il ricorso alle misure alternative, se è vero che molti detenuti sono nei termini per accedervi… Il sovraffollamento del carcere va ridotto, al tempo stesso l’intollerabile carenza di magistrati e di personale amministrativo del Tribunale di sorveglianza non aiuteranno ad applicare quanto previsto dall’Ordinamento penitenziario. In tempi di quasi paralisi dell’attività giudiziaria bisogna pensare a un’applicazione urgente di magistrati per il periodo dell’emergenza e consentire agli Uffici e al Tribunale di sorveglianza di applicare la liberazione anticipata e le misure alternative, anche in via provvisoria. Tra l’altro, l’ultimo intervento normativo, il decreto legge del governo che ha introdotto un’ipotesi di detenzione domiciliare ‘speciale’, poteva essere uno strumento per collocare fuori dal carcere, ma sempre in una situazione di privazione della libertà personale, detenuti con una pena da scontare inferiore a 18 mesi, ma in realtà appare poco utile allo scopo, perché condiziona la fuoriuscita dal carcere per chi ha pena residua superiore a sette mesi alla disponibilità del braccialetto elettronico, molto raro da reperire, come dovrebbe sapere il ministro della Giustizia, e ‘scarica’ sul singolo magistrato la responsabilità della decisione”.

Intanto, in alcuni carceri i vecchi moduli per accedere alle misure alternative non vengono accettati e quelli promessi dopo la pubblicazione del decreto legge non sono ancora disponibili.

Insomma, se le rivolte dei giorni di marzo sono state l’estremo grido di aiuto di chi sta in carcere contro l’estraneazione totale dal mondo esterno, se sono state l’urlo scoraggiato di chi non voleva essere lasciato solo e dimenticato nel pieno di un’emergenza sanitaria, se sono state la protesta disperata di chi non voleva fare la fine dei “topi in gabbia”, occorre che chi sta fuori e non ha una concezione forcaiola del mondo non lasci quelle persone più sole e più dimenticate di prima.

C’è un vecchio detto che afferma che “le galere sono lo specchio di una società, non fanno altro che riflettere i suoi problemi e misurarne la febbre”. Bene noi non possiamo più permettere che la narrazione tossica del “buttare via la chiave e farli marcire in galera” e che ha trasformato il carcere in un buco nero separato dalla società sia ancora quella che va per la maggiore.

In molti dicono che l’epidemia del coronavirus (quando finirà) ci costringerà a rivedere il nostro sistema di vita. Quello che possiamo dire già da ora, comunque, è che una società che guarda a 13 persone, morte per “overdose” in mezzo a una rivolta, e fa finta di niente, risolvendo il tutto con una scrollata di spalle, non è una società in cui valga la pena vivere.

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