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Il Bronx a Pordenone e l’“associazione a delinquere di stampo umanitario”

Sabato 30 ottobre, a Pordenone, si tiene un’iniziativa di “solidarietà ai solidali”. È un giro di parole, lo so. Ma di questi tempi è il giro di parole più in voga tra chi non se la sente di stare con le mani in mano, mentre le istituzioni abbandonano (nella migliore delle ipotesi) vite umane a un destino fatto di disumanità.

di Tiziana Barillà

corto maltese pordenone

3 attiviste e 9 richiedenti asilo vengono processati in Friuli per “associazione a delinquere di stampo umanitario” perdonate l’espressione inventata, ma a me questo pare il capo d’accusa contro chi – da Riace a Trieste, dalla Val di Susa alla Francia, passando per le onde del Mediterraneo – cerca di mettere una pezza all’incuria colpevole della politica europea e, in particolare, italiana.

Mimmo Lucano, Cédric Herrou, Emilio Scalzo, le Ong e altri ancora, sono colpevoli di non cedere davanti alle leggi disumane che dettano l’ordine di ignorare (o possibilmente temere, contrastare, schiacciare) quel fenomeno tanto vecchio quanto irrimediabile che sono i flussi migratori.

Le frontiere, insomma, o le riconosci e le difendi oppure sei un criminale. Questa è la situazione. E anche solo sostenere che le frontiere siano luogo di morte fisica e morale, nonostante l’evidenza dei fatti, pare sia oramai sufficiente a essere ritenuti colpevoli. Rinnegati e senza patria, tali e quali a Corto Maltese (che vedete nella vignetta quassù).

Impantanarci nelle questioni giudiziarie, non ci aiuta a vedere l’orizzonte dove si delinea il reato di solidarietà. Eppure, resta il fatto, che dove vengono costruiti confini, ci sarà sempre qualcuno che continuerà a vedere orizzonti.

Ora, immaginate delle coperte portate a chi dorme all’addiaccio all’estremo nord d’Italia. Riuscite a immaginare che quel gesto possa essere considerato un reato? Difficile, eppure anche per questo un processo avrà inizio l’11 novembre 2021, a Pordenone.

«Man mano che le persone arrivano noi diamo le coperte, certo… ci sembra il minimo della solidarietà», queste parole sono di un’attivista, e si trovano tra le carte della procura. Quelle coperte, quella solidarietà, lo Stato italiano li considera un reato.

Gabriella, Elisabetta e Luigina sono attiviste della Rete Solidale di Pordenone, insieme a 9 richiedenti asilo sono stati rinviati a giudizio e andranno a processo. Secondo i giudici, “in concorso tra loro invadevano arbitrariamente l’area destinata a parcheggio dell’ente pubblico INAIL di Pordenone al fine di occuparla bivaccando all’interno creando dei rifugi e impossessandosi dell’area chiudendola e delimitandola con coperture di materiale plastico nonostante fossero state loro offerte prospettive alternative in particolare le tre donne operanti presso l’Associazione Rete Solidale aiutavano a recuperare coperte e quanto necessario e i restanti indagati di accampavano all’interno.”

“Bivaccando” sì, l’hanno scritto davvero.

Il loro atto di solidarietà avrebbe violato gli articoli 110, 633, 639 bis del codice penale:

art. 110: concorso fra rei;

art. 633: invasione di terreni o edifici altrui privati o pubblici, che prevede la reclusione fino a due anni e una multa da 103 a 1.032 euro;

art. 639 bis procedimento d’ufficio nei casi in cui sia invaso uno spazio destinato a uso pubblico.

In questa storia, è evidente, si incrociano due elementi: l’accoglienza, sì, certo; ma anche l’occupazione degli spazi seppure abbandonati. Repressione si aggiunge repressione, mentre la cultura dell’occupazione come liberazione degli spazi sociali e collettivi – diciamocelo – è stata sotterrata da un legalitarismo miope che pone sullo stesso piano un’occupazione abitativa e Casa Pound.

Ma torniamo al processo. È il primo di questo tipo in Friuli, in altre parole anche qui sbarca il reato di solidarietà commesso da attivisti e richiedenti asilo. E, attenzione, i richiedenti denunciati  tra quelli presenti al Bronx sono tutti dei “fuoriusciti” dal percorso di accoglienza, dell’altra sessantina (in attesa di entrare in un hub) nessuno è stato denunciato. Domanda: sarebbero queste, dunque, le “soluzioni alternative” volute dai decreti Salvini?

Del “Bronx di Pordenone”, in questi anni, si sono occupati molti giornali e tv nazionali. Per chi non ne avesse sentito parlare o, non avesse ben chiaro cosa stia succedendo, ecco la storia.

La questione dei richiedenti asilo “per strada” a Pordenone comincia nell’autunno 2014. Da allora, la storia è quella vista in quasi ogni città, sempre la stessa: posti in accoglienza saturi a fronte dell’aumento degli arrivi di richiedenti asilo in arrivo da Lampedusa con l’operazione Mare Nostrum e dalle varie “emergenze” Nordafrica.

Gli attivisti che portano teli di plastica e coperte a chi dorme all’addiaccio. Coperte sul pavimento, un bagno per decine di persone, le continue minacce di sgombero. Poi, è la volta della tendopoli prima tirata su (a Pordenone, nel settembre 2015) e poi smantellata, l’accoglienza diffusa (a parole), le decine di persone per strada. E l’immancabile ordinanza antibivacco con cui il sindaco (l’allora Pd, Claudio Pedrotti) garantisce la sicurezza e la disciplina.

Le ordinanze, però, non fanno scomparire i corpi di chi si ritrova dall’oggi al domani in mezzo a una strada. E quei corpi, tornano a occupare strade e parchi. Anche volendo, non possono allontanarsi né essere allontanati dalle forze dell’ordine dalla città: quei richiedenti asilo, avendo già fatto domanda di accoglienza a Pordenone, perderebbero il loro diritto cambiando città.

Davanti a questa assurda situazione, che va avanti da anni in ogni città d’Italia, a Pordenone la Rete Solidale e dei rifugiati decide di chiedere quantomeno l’apertura di un dormitorio pubblico, un Centro di Accoglienza per dare un riparo alle persone provvisoriamente senza tetto. Senza distinzione, che importa se sei italiano o straniero quando lì fuori sei sotto lo zero e non hai un tetto sotto il quale ripararti?

Gli anni continuano a passare. E, tra il sagrato di una chiesa e le scalinate esterne del palazzetto dello sport, tra i semiruderi dell’ex cotonificio “Jungle” e la pensilina dell’ex fiera, i rifugiati si trovano in condizioni sempre peggiori.

Invisibili agli occhi di chi non vuol vedere.

Siamo arrivati al Bronx di Pordenone, che è un grande parcheggio semi sotterraneo in città, non lontano dalla stazione ferroviaria. Qui, tra l’inverno 2016 e la primavera del 2017 c’è stato l’ultimo grosso concentramento. E siamo arrivati al punto. È proprio a questo periodo (aprile 2017) che risalgono i fatti imputati nel processo ai 12. A quell’epoca una sessantina di persone dorme nei fossi sul ciglio della strada o in giro per la città.

Ma il problema, a quanto pare, è chi portava loro le coperte.

PS. Nelle indagini contro le attiviste della Rete solidale di Pordenone si ipotizza “l’interesse politico”, la loro colpa è aver organizzato due manifestazioni pubbliche in città. Di “interesse politico” è stato accusato pure Mimmo Lucano, all’epoca dei fatti sindaco di Riace. Insomma, si rimprovera l’interesse politico in un paese in cui vige la legge del voto di scambio.

iniziativa a pordenone

 

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