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#BastaBufalesuiMigranti: tutto ciò che sai sull’emergenza è falso (o quasi)

Quanti sono i migranti sbarcati sulle nostre coste, a quanti abbiamo concesso protezione, quanto ci costa mantenere i centri di accoglienza e altre questioni che meritano un po’ di attenzione in più…

Tanto si è scritto e detto sulla questione degli sbarchi sulle coste italiane di decine di migliaia di persone, soprattutto in concomitanza con le drammatiche notizie relative ai naufragi che hanno provocato centinaia di vittime tra i migranti. Tanto si è scritto e detto sulla questione dei flussi migratori, sui richiedenti asilo, sui “clandestini” e sul sistema dell’accoglienza, soprattutto in concomitanza con le inchieste che hanno scoperchiato il malaffare, la corruzione e l’indecenza di politici e imprenditori. Tanto si è scritto e detto sulle cause e sulle soluzioni, ma anche sulle risposte date dal Governo e sulle proposte delle opposizioni. Tutto ovviamente con dosi abbondanti di retorica, propaganda politica, strumentalizzazioni, demagogia e populismo.

Invasioni, psicosi malattie, trafficanti di uomini, terroristi e criminali fra i migranti, guerra di religione, la voragine nei conti dello Stato, l’Isis, i 30 euro al giorno ai migranti, le case popolari ai rifugiati politici, il “servizio taxi” di Mare Nostrum: sono solo alcune delle tante bufale (ma ce ne sono tante, e tante, e tante) e notizie distorte che alimentano la propaganda sulla pelle dei migranti.

Nonostante le varie “narrazioni”, però, la questione resta di una complessità tale da rendere sempre parziale ed imprecisa ogni analisi o riflessione che abbia la presunzione di essere esaustiva. L’approccio migliore resta dunque, a parere di chi scrive, quello a partire dai dati “reali e certificati”, come precondizione per ragionare sui contesti normativi e, infine, per dibattere delle varie proposte.

Quanti migranti sono sbarcati sulle nostre coste

Il primo elemento da inserire nella discussione è quello del numero di migranti sbarcati sulle nostre coste negli ultimi anni. Come si vede dai dati ufficiali (Viminale), le cifre testimoniano una crescita complessivamente sensibile, anche se vale la pena di notare come ci sia una certa “linearità” dei flussi in alcuni periodi dell’anno.

 

Evidente anche l’insussistenza della correlazione tra sbarchi e Mare Nostrum, considerando che alla sospensione dell’operazione, con l’entrata in vigore di Triton, non si è assistito ad un “crollo” degli arrivi (che invece, seppur di poco, sono aumentati). La curva di distribuzione degli sbarchi suggerisce invece la netta prevalenza delle “cause esterne”, confermando, l’idea che le migliaia di disperati che fuggono dal loro Paese lo facciano “indipendentemente” dalla legislazione italiana (problema che non sembra interessare nemmeno i trafficanti di morte…).

Non ci sono invece dati certi sul numero di migranti morti nel tentativo di attraversare il Canale di Sicilia: l’UNHCR qualche giorno fa ha parlato di almeno 950 morti nel 2015, mentre l’ultimo rapporto dell’Oim Italia parlava di ventimila morti dal 1994 ad oggi, con un picco di 2100 decessi nel 2011.

La stessa Frontex, infine, ha spiegato come la maggior parte degli immigrati arrivi in Europa e in Italia dalla terraferma, non via mare.

Da dove vengono i migranti che sbarcano sulle nostre coste

È complicato avere dati aggiornati sulla provenienza dei migranti che sbarcano sulle nostre coste, anche considerando che spesso risultano privi di documenti di riconoscimento.

Gli ultimi dati ufficiali sono quelli della relazione al Parlamento sulla politica dell’informazione per la sicurezza, relativa all’anno 2014. In tale relazione si evidenza come “in generale i migranti provengono dalle aree del Sahel, dell’Africa occidentale e del Corno d’Africa, nonché dalla fascia asiatica che comprende il Vicino e il Medio Oriente, il Sub-continente Indiano e parte della Penisola Indocinese”. Nell’ultimo anno risulta triplicato il flusso di siriani (da 11.307 a 42.323) e quello proveniente dai Paesi del Corno d’Africa (da 13.097 a 40.085), secondo una “massiccia corrente migratoria” determinata soprattutto dal persistere delle crisi, che determinano anche un peggioramento delle condizioni nei campi profughi (veri e propri “centri di reclutamento”).

Correnti migratorie che trovano uno sfogo nella Libia (sfogo non “naturale”, bensì mediato dall’attività delle organizzazioni criminali che gestiscono quello che si conforma come un vero e proprio traffico di esseri umani). Come scrive il sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica, infatti, “la fragilità dello scenario libico ha trasformato quel territorio nel principale punto di confluenza e raccolta dei flussi migratori del continente africano e di una parte di quelli provenienti dalla direttrice mediorientale; ciò anche grazie alla complicità a livello locale di elementi appartenenti alle diverse milizie, agli apparati di sicurezza e ad altre strutture di potere”. Per la Libia, grazie all’operato delle reti criminali egiziane e turche, dunque transita anche una parte significativa dei profughi siriani.

Va sottolineato che circa il 70% dei migranti sbarcati sulle nostre coste ha meno di 35 anni, con un 20% di minori: di questi circa tre quarti non è accompagnato da almeno un genitore.

I terroristi tra i migranti: quanto c’è di vero

L’ultimo ad avallare quella che (fino ad ora) è solo una leggenda metropolitana è stato Matteo Renzi: “Non tutti i passeggeri sui barconi dei trafficanti sono famiglie innocenti”. Prima di lui ci avevano già pensato Alfano, Gentiloni, leghisti, grillini e qualche pm.

Della questione abbiamo parlato diffusamente qui, sottolineando come sul tema del terrorismo di matrice islamica ci stessimo avviando verso un vero e proprio “cortocircuito informativo”. Lo stesso Alfano, nell’informativa alla Camera sui rischi del terrorismo internazionale, era peraltro stato piuttosto preciso: “Non abbiamo in questo preciso momento – voglio subito ribadirlo – segnali che indichino l’Italia o gli interessi italiani come esposti a specifiche ed attuali forme di rischio”. E il Copasir scriveva: “Permane all’attenzione dell’intelligence il rischio di infiltrazioni terroristiche nei flussi via mare, ipotesi plausibile in punto di analisi ma che sulla base delle evidenze informative disponibili non ha sinora trovato concreto riscontro”. 

Insomma: nessun riscontro e nessuna segnalazione specifica su terroristi infiltrati tra i migranti, nessun allarme concreto sul rischio di attentati da parte del terrorismo di matrice islamica in Italia. Resta un mistero, come sia possibile che ad alimentare un clima di tensione e di “allarme continuo” siano stati o gli stessi esponenti del Governo che in via ufficiale hanno sempre minimizzato il problema, oppure coloro i quali non sono mai riusciti a portare uno straccio di “prova concreta” a sostegno della loro tesi.

Detto questo, è chiaro che non avrebbe senso sottovalutare la questione. Il rischio sembra essere collegato alla dispersione dei migranti sul territorio nazionale e alla possibilità che “circuiti radicali di ispirazione jihadista possano ricercare a fini di proselitismo spazi di influenza nei centri di immigrazione presenti sul territorio nazionale”. In tal senso, si legge sempre nella relazione al Parlamento, un fattore chiave è giocato dal “passaggio alla condizione di clandestinità” e da una serie di problematiche collegate all’accoglienza (non da ultimo il “frequente rifiuto dei profughi di sottoporsi alle procedure di identificazione nel timore che, una volta raggiunte le ambite mete nordeuropee, principale obiettivo finale del loro viaggio, possano essere riassegnati al primo Paese di ingresso nell’UE con l’applicazione del Regolamento di Dublino”). Necessaria parrebbe l’intensificazione del controllo e il lavoro di intelligence sui centri di aggregazione e di culto (ricordiamo che Alfano già a settembre 2014 aveva mostrato i risultati di una indagine conoscitiva fatta nell’intero territorio nazionale su 514 associazioni e 396 luoghi di culto, tra cui le quattro moschee di Roma, Milano, Colle Val d’Elsa e Ravenna).

Quanti migranti ospitiamo nelle strutture di accoglienza

I dati sono quelli forniti dal Viminale e ben sintetizzati dal report del Servizio Studi del Senato: “Gli stranieri presenti nelle strutture d’accoglienza (temporanee, centri d’accoglienza e per richiedenti asilo, posti Sprar) al mese di febbraio 2015 sono 67.128. Le presenze più numerose risultano in Sicilia (13.999 persone, pari al 21% del totale nazionale). Seguono Lazio (8.490, pari al 13%), Lombardia (5.863, il 9%) e Puglia (5.826, il 9%). Nelle 1.657 strutture temporanee presenti in tutta Italia si trovano 37.000 ospiti”.

È importante capire però di cosa si parla nello specifico, per inquadrare i meccanismi di accoglienza e per contestualizzare alcune decisioni (circolari per la ricerca di “posti letto”, disposizioni su soggiorno in alberghi e strutture di accoglienza) che spesso vengono citate strumentalmente nel corso di dibattiti e polemiche politiche.

I CPSA (centri di primo soccorso e accoglienza) sono le strutture in cui i migranti soccorsi in mare vengono sistemati in attesa di essere trasferiti nei centri “specializzati”. In teoria i migranti dovrebbero restare per pochissimo tempo in queste strutture (24 / 48 ore al massimo), ma spesso le contingenze (emergenze, chiusura di altri centri, inchieste, eccetera) determinano permanenze anche molto lunghe.

I CDA sono i centri di accoglienza veri e propri: in queste strutture i migranti sono accolti e identificati “indipendentemente dal loro status giuridico”, prima che sia determinata la loro posizione di “regolarità o meno” per quel che concerne la permanenza sul nostro territorio nazionale. Come spiega una nota del Corsera, “nella normativa non risultano definiti i diritti dello straniero destinatario delle misure di assistenza nel centro, difatti, in quasi tutte le strutture, gli stranieri non sono autorizzati a uscire durante le ore diurne, configurandosi una condizione di limitazione della libertà personale senza la necessaria convalida del giudice”.

I CARA sono invece i centri di accoglienza per i richiedenti asilo: anche in questo caso il tempo di permanenza è teoricamente limitato al disbrigo delle pratiche burocratiche e delle verifiche per l’ottenimento o meno dello status di rifugiato politico.

I CIE sono infine i centri di identificazione ed espulsione: in tali strutture vengono trattenuti fino a 180 giorni gli stranieri destinatari di provvedimenti di allontanamento dal territorio dello Stato e nei cui confronti non è possibile l’esecuzione immediata della misura. Sulla vergogna dei Cie, vi rimandiamo a questa scheda.

Perché abbiamo sospeso Mare Nostrum, cosa fa Triton (e quanto ci costano le operazioni di soccorso)

Con Mare Nostrum il Governo italiano metteva in campo una operazione per il rafforzamento del pattugliamento delle coste e del sistema di accoglienza dei migranti. Il bilancio finale parla di 150mila interventi in mare, 100mila migranti soccorsi, 500 scafisti arrestati, 3 navi “madre” sequestrate; il costo dell’operazione si è aggirato sui 9,5 milioni di euro al mese (non è semplice un calcolo preciso, dal momento che, come spiegava il ministro Pinotti, si è attinto alla dotazione ordinaria della Difesa e i costi sono da separare tra “mezzi”, circa 7 milioni al mese, e indennità aggiuntive al personale, più o meno 2,5 milioni di euro al mese); l’esposizione delle nostre forze armate è stata decisamente sensibile, con l’impiego di circa mille uomini, 2 fregate, una nave anfibia, 2 pattugliatori, 2 elicotteri pesanti, un P180 ed una rete radar di ultima generazione.

Triton, che ha assorbito le operazioni Hermes ed Aeneas, rimane sulla frontiera di Schengen e ha il compito di “operare il controllo delle frontiere” e non di “garantire la salvaguardia della vita in mare” come Mare Nostrum (resta la rescue, ovviamente). Triton costa 2,9 milioni di euro (a carico di Frontex), vede la partecipazione “ufficiale” di 29 Paesi e può contare su due aerei, un elicottero, 3 navi d’altura, quattro motovedette). Ora dovrebbe essere potenziata. Dovrebbe.

Il perché della sospensione di Mare Nostrum in piena emergenza, resta comunque un mistero.

Quanto ci costano immigrati e rifugiati

Dei costi del sistema dell’accoglienza abbiamo parlato diffusamente qui, ma è interessante ritornarci soprattutto considerando la presa che l’argomento ha sull’opinione pubblica. In via preliminare bisogna considerare che i costi per lo Stato per il mantenimento dei migranti variano a seconda delle strutture e della “condizione” degli ospiti (se minori, richiedenti asilo, in attesa di provvedimento di espulsione eccetera). In ogni caso, semplificando, diremo che per tutti i servizi connessi all’accoglienza e al mantenimento dei migranti nei Cie lo Stato spende circa 30 euro al giorno; per i Cara e per i posti straordinari per la prima accoglienza il costo medio (frutto di accordi fra prefetture, gestori e/o privati) si aggira intorno ai 40 euro; per i minori ospiti delle comunità di accoglienza la cifra varia dagli 80 ai 140 euro a testa.

È importante sottolineare che le cifre coprono i servizi di assistenza (dunque gli stipendi di chi materialmente lavora nei centri), vitto, alloggio e il cosiddetto “pocket money”, vero casus belli. Si tratta di una somma, circa 2,5 euro al giorno a testa (e non più di 7,5 euro per nucleo familiare), che viene erogata come contributo per le piccole spese giornaliere (effetti personali, bevande calde ai distributori e sigarette): in alcuni centri la somma di denaro è sostituita da ticket (o schede) da spendere nei locali “interni”.

Di cosa parliamo quando parliamo di invasione islamica

Negli ultimi giorni politici ed analisti ci hanno avvertito dell’esistenza di un “problema religioso” nei fenomeni di migrazione e, nello specifico, negli sbarchi sulle coste della Sicilia. Il riferimento, o meglio il pretesto, è ad un increscioso fatto di cronaca (che al momento è tutto da verificare e sul quale indaga la Procura): l’assassinio di 9 migranti, gettati in mare solo perché “cristiani”. Tanto è bastato perché ci si interrogasse sui “rischi dell’invasione islamica“.

Partendo dal presupposto che non sia corretto far coincidere “appartenenza nazionale e religiosa” (la provenienza da un paese musulmano non indica necessariamente che un migrante sia religioso), vale la pena di ribadire che solo il 35% di chi immigra nel nostro Paese è di fede islamica. Su un totale di quasi 4 milioni di stranieri residenti nel nostro Paese, circa 1,5 milioni sono di fede islamica, con un trend in crescita: stando alle proiezioni più accreditate, infatti, nel 2030 la popolazione di fede musulmana residente in Italia supererà i 2,8 milioni.

Da dove nasce allorail mito dell’invasione? La risposta la dà The Economist che, su dati Bertelsmann Stiftung, Pew Research, Europol ed Ipsos, ha elaborato una mappa del confronto fra presenza reale della popolazione di credo musulmano e presenza percepita dall’opinione pubblica:

Criminalità e immigrazione: i dati reali

Prima di tutto i numeri (fonte Istat): I detenuti stranieri sono pari al 34,9% del totale e provengono per il 46,3% da paesi africani, per il 41,6% da altri paesi europei, per il 5,7% dall’Asia e per il 6,3% dalle Americhe; la nazionalità “più rappresentata” è quella marocchina (18,6%), seguita da quella rumena (16%), albanese (13%), tunisina (12%), nigeriana (4%) ed algerina (2,5%). Rispetto alla percentuale sul totale della popolazione, dunque, si nota una sproporzione evidente, che sembrerebbe indicare che gli stranieri delinquano “più degli italiani”.

A questi dati bisogna però aggiungerne altri, che permettono di evidenziare una maggiore propensione a commettere reati “minori”, la frequenza della reiterazione di piccoli reati e il minore ricorso a misure alternative alla carcerazione per gli stranieri:

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Come abbiamo provato a dimostrare nel nostro approfondimento, dunque, “non vi è dubbio che le statistiche mostrino un rapporto sproporzionato fra presenza degli stranieri in Italia e tasso di detenzione nelle carceri, ma i dati, oltre ad essere molto lontani dalla “percezione comune” e dalla “vulgata” della propaganda politica, necessitano di contestualizzazione e di un’analisi il più possibile oggettiva, in cui siano inseriti i riferimenti normativi, le condizioni di vita complessive della popolazione straniera in Italia (redditi più bassi, maggiore tasso di disoccupazione, salari inferiori, discriminazioni razziali e difficoltà legate all’inserimento sociale) e le oscillazioni temporali. Omettere tali fattori è operazione strumentale ed ideologica, oltre che intellettualmente disonesta”.

 

L’esercito dei “finti” rifugiati ed i richiedenti asilo

A fare il punto sulla questione delle richieste di asilo politico nei Paesi membri dell’Unione Europea ci ha pensato un report dell’Eurostat pubblicato solo qualche settimana fa. L’indagine si apre con la considerazione preliminare del netto aumento delle richieste di asilo negli ultimi anni (nel 2014 sono state 626mila). A fronte di tale numero elevatissimo di richieste, le pratiche esaminate sono state circa 360mila: 162.770 le concessioni dello status di rifugiato o di altre formule di protezione sussidiaria.

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L’Italia è tra i primi Paesi per richieste di asilo politico: nel 2014 sono state 64.600, meno della Germania (202.700) e della Svezia (81.200) ma più della Francia (62.800) e dell’Ungheria (42.800). Le domande d’asilo esaminate sono state 36.630; di queste 13.327 sono state rifiutate, mentre a 21.861 migranti è stata accordata una qualche forma di protezione: lo status di rifugiato politico è stato concesso a 3.649 persone, la protezione “sussidiaria” è stata accordata a 8.121 persone, quella umanitaria a 10.091. Oltre 28mila pratiche attendono ancora di essere esaminate.

Vale però la pena di approfondire la questione relativa allo status di rifugiato politico. Come si legge in una scheda della Camera dei deputati, “l’istituto del diritto di asilo non coincide con quello del riconoscimento dello status di rifugiato, per il quale non è sufficiente che nel Paese di origine siano generalmente conculcate le libertà fondamentali, ma il singolo richiedente deve aver subito, o avere il fondato timore di poter subire, specifici atti di persecuzione”.

In Italia sono gli enti locali ad occuparsi dei servizi di assistenza e protezione dei richiedenti asilo, secondo una pratica disciplinata dal D.Lgs. 140/2005 di attuazione della disciplina comunitaria in materia di accoglienza dei richiedenti asilo. La normativa, dunque, prevede che “l’accoglienza dei richiedenti asilo privi di mezzi di sussistenza sia disposta preferibilmente presso i servizi attivati dagli enti locali e, in caso di indisponibilità, nei centri di identificazione o nei centri di accoglienza”. Nel frattempo i richiedenti beneficiano di un permesso di soggiorno di 6 mesi, che può essere rinnovato nel caso in cui non ci sia stata ancora la decisione sulla loro richiesta.

Il testo unico sull’immigrazione poi consente di far fronte a emergenze umanitarie causate da eventi eccezionali (guerra civile, violenze generalizzate, aggressioni esterne, catastrofi naturali eccetera) e dunque di fornire una protezione temporanea per quelle persone che non rientrerebbero nello status di rifugiato politico.

La protezione sussidiaria è invece riconosciuta al cittadino straniero che “non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno” (condanna a morte, tortura, minacce di morte).

Se è vero che le domande sono aumentate nell’ultimo anno, allo stesso tempo le concessioni degli stati di rifugiato politico sono sostanzialmente stabili, come mostrano i dati Cir, e sostanzialmente non dipendenti in alcun modo dal “colore” del Governo in carica:

 

Quanto poi al numero totale di rifugiati politici, basterà ricordare che l’Europa ne accoglie circa 1,7 milioni: di questi solo 78mila sono in Italia, lo 0,13% della popolazione, mentre 232mila sono in Francia, 115mila in Svezia, 190mila in Germania e 125mila in Gran Bretagna.

Articolo a cura di Adriano Biondi da Fanpage

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