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Basta luoghi comuni: L’immigrazione non aumenta la criminalità

L’immigrazione è da tempo il tema dominante nelle campagne elettorali dei paesi occidentali, incluse quelle svoltesi in Germania a febbraio 2025 e poche settimane prima negli Usa per le elezioni presidenziali. Siamo davanti a letture del mondo alquanto semplificate: una caratteristica del dibattito politico da 20 anni ad oggi è proprio la perdita di vista di argomenti complessi o comunque tali da non essere riassumibili in qualche cinguettio o messaggio social.

di Federico Giusti, Emiliano Gentili

L’affermazione della vulgata nazionalistica – o “sovranista”, termine fin troppo abusato e ormai intraducibile visto che i partiti sedicenti tali si presentano all’occorrenza come i più servili verso i potentati di turno – è sovente dettata da una incessante campagna orchestrata nel corso degli anni. Le logiche securitarie e repressive partono dalla diffusa percezione di essere “sotto attacco”, al punto che sembra di essere in presenza della classica “sindrome dell’assediato”. E se oltreoceano le bande paramilitari trumpiane al confine con il Messico amano presentarsi in qualità di patrioti che difendono il loro territorio, per trovare un “caso italiano” sarebbe sufficiente ripensare alle trasmissioni tv occorse in Mediaset nelle settimane successive allo scoppio del caso Rami. Una sapiente regia, neanche troppo occulta, ha trasformato i disagi sociali, urbanistici ed economici in rivolta contro l’ordine costituito.

Ma presa per buona la vulgata ufficiale, di quale attacco stiamo parlando, chi poi è l’aggredito e chi l’aggressore? Pensando alla questione dei dazi, per giustificarne la introduzione si parla di governi e potenze estere protagonisti di comportamenti scorretti e ostili, sul piano commerciale come su quello politico, e si finisce per convertire tale giudizio assolutamente negativo in pregiudizi nei confronti delle popolazioni di quei paesi. Del resto, questo non è un atteggiamento nuovo:

Dei propri connazionali si ha una pessima opinione. Gli intervistati ostili o critici verso la presenza di immigrati nel nostro paese descrivono questi ultimi nello stesso modo in cui, in altri passaggi delle interviste, descrivono gli aspetti peggiori dei propri connazionali: furbizia, egoismo, opportunismo, scarso rispetto delle leggi e delle regole. Sugli immigrati viene proiettata la figura di quello che ci si rappresenta come “italiano medio”, figura che i nostri intervistati disprezzano. Non è esattamente la base per considerare il patriottismo un sentimento di massa[1].

Il pregiudizio e la errata percezione costruita come propaganda di massa

I sentimenti di ostilità verso l’immigrazione nascono e sono alimentati da due paure generali e collettive: l’aumento del tasso di insicurezza e criminalità, individuato oggi da più parti come l’aspetto sociale di maggiore rilevanza e il problema fondamentale da affrontare e risolvere; l’abbassamento dei salari e l’aumento della disoccupazione fra le popolazioni autoctone, dovuto a un fattore di concorrenza a ribasso tra forza-lavoro migrante – che si accontenterebbe di condizioni d’impiego peggiori – e italiana. E poi il problema casa, perché nonostante il caro affitti il numero di case popolari è veramente esiguo ma la richiesta è in continua crescita.

È impossibile, poi, non cogliere la palese contraddizione tra la realtà percepita e costruita fittiziamente e quella scaturita da dati statistici e studi scientifici. Abbiamo iniziato questo articolo richiamando l’attenzione verso un dibattito politico ridotto a invettive e luoghi comuni. Non siamo soltanto nella società dell’analfabetismo di ritorno ma anche dentro una realtà nella quale il confronto e lo stesso conflitto sociale sono banditi e demonizzati. È in questo contesto che è stata costruita ad arte una sfiducia collettiva verso approcci analitici seri e demistificanti. In questo, ancora una volta, giocano un ruolo importantissimo le campagne mediatiche costruite ad hoc.

Ad ogni modo, secondo i dati di una ricerca condotta dalla polizia criminale tedesca (PKS) tra il 2018 e il 2023 sembrerebbe che,

Poiché gli stranieri tendono a vivere più spesso in aree ad alta illegalità, si crea una correlazione statistica tra la loro presenza e i tassi di criminalità locali. Secondo l’Ifo [ifo Institute, istituto di ricerca liberale e conservatore, https://www.ifo.de/en], le analisi condotte negano che un aumento della quota di immigrati porti a un aumento della criminalità [orig. in grass.]. (…) l’Istituto mette in guardia contro le errate percezioni sulla migrazione, spesso alimentate «da una rappresentazione mediatica distorta e da fattori psicologici e socioculturali», suggerendo di incentivare una maggiore comprensione del ruolo degli immigrati nella società per sviluppare politiche efficaci e promuoverne l’integrazione[2].

Un altro approccio sostiene che la percezione di un aumento della criminalità dovuto ai migranti possa essere causata da «un fenomeno di “sostituzione” nei mercati locali della criminalità, in cui gli immigrati sostituiscono i residenti locali in alcune attività illegali senza aumentare il volume complessivo di crimini»[3]. Insomma, oltre a rappresentare un esercito industriale di riserva i migranti sarebbero diventati anche manovalanza a basso costo della criminalità locale.

Esiste poi una sorta di razzismo culturale. Ad esempio il livello d’istruzione dei migranti risulta mediamente più basso di quello dei nativi e da qui scaturirebbe la propensione a delinquere: «nel 2000, [in Italia] il 65% degli immigrati aveva tra i 18 e i 39 anni, il 54% erano maschi e l’85% di loro non aveva un’istruzione (riconosciuta)»[4]. Ma sbaglieremmo a pensare che in partenza il livello culturale di una persona sia a prescindere più basso di un autoctono: capita spesso, infatti, che uomini e donne con titoli di studio superiori e universitari, acquisiti nei loro paesi, svolga lavori di bassa qualifica.

Infine non dimentichiamo che, nonostante le stesse analisi delle forze di polizia confutino l’arbitraria associazione fra tasso di migrazione e tasso di criminalità, alcuni fattori come lo status legale (mancanza del permesso di soggiorno) possono comunque contribuire a una certa sovra-rappresentazione degli immigrati nelle statistiche criminali. In Italia nel 2007 circa i due terzi dei migranti incarcerati non aveva ricevuto una condanna definitiva, mentre al contrario gli italiani nelle stesse condizioni erano solo un terzo del totale[5].

Migranti e criminalità

Il tasso di criminalità sembra aumentare in presenza di maggiori difficoltà di accesso dei migranti a un lavoro stabile, a un salario dignitoso e sindacalmente tutelato, e perfino all’erogazione di servizi:

gli immigrati hanno maggiori probabilità di commettere crimini se si trovano ad affrontare prospettive salariali o occupazionali peggiori di quanto le loro caratteristiche demografiche farebbero prevedere, a causa della discriminazione nel mercato del lavoro, del declassamento delle competenze o dello status illegale. (…) Analizzando le province italiane per il periodo 1990-2003, Bianchi, Buonanno e Pinotti (2012) mostrano che (…) i migranti regolari e irregolari hanno opportunità molto diverse nel mercato del lavoro, il che a sua volta inciderebbe sul costo dell’opportunità di commettere reati[6].

Ci sono studi che attestano come proprio i tagli ai sussidi per i rifugiati nei paesi nordici abbiano favorito il coinvolgimento dei migranti in attività illegali. Quanto poi alla recidività nel commettere dei reati tutte le analisi sociologiche inducono a riflettere sulle carenze sociali, sulla mancanza di un lavoro, di una casa. Altrettanto importanti sono le politiche di integrazione, come la diffusione di corsi di lingua gratuiti, spesso e volentieri forniti dalle organizzazioni politiche dell’estrema sinistra, da quelle sindacali agli sportelli locali di solidarietà.

Bisogna riflettere su quelle norme legislative che rendono lungo e tortuoso l’iter per accadere alla cittadinanza: semplificandole si ridurrebbero anche i tassi di criminalità e lo stesso vale per l’accesso al mercato del lavoro e ai servizi alla cittadinanza. «Le prove del Refugee Council (2005) suggeriscono che [nel Regno Unito] solo circa il 10% dei richiedenti asilo aveva atteso meno di sei mesi per la decisione sulla loro richiesta di asilo, mentre un terzo aveva atteso più di due anni. (…) [Avrebbe senso] consentire ai richiedenti di cercare lavoro mentre le loro domande vengono prese in considerazione»[7].

La casa è di chi l’abita e un vile è chi lo ignora

Negli ultimi anni, per le famiglie migranti ricongiunte le difficoltà a trovare un alloggio in affitto sono divenute un altro fattore di crisi e conflittualità anche rispetto agli autoctoni. Prova ne siano i regolamenti che disciplinano l’accesso all’edilizia popolare: da oltre 60 anni l’Italia attende un piano casa e spesso i palazzi Erp sono in condizioni precarie. Quando poi le assegnazioni avvengono a favore di famiglie migranti (in genere quelle particolarmente numerose e con minore reddito) la destra parla di privilegio per gli “stranieri” a danno dei cittadini originari. In assenza di case e risorse stanziate (anche per la riduzione del welfare e la volontà diffusa di non adeguarlo ai reali bisogni odierni), viene alimentata la classica guerra tra poveri per adottare politiche razziste e attrarre consensi ideologici ed elettorali.

Profitti su, salari giù

L’immigrazione costituisce anche un’opportunità di profitto per gli imprenditori, sia italiani che immigrati. Veniamo da anni di legislazioni atte ad abbassare i salari e le garanzie contrattuali, per ridurre alla fine non solo il costo del lavoro ma anche del prodotto. Questo avviene nonostante le attive resistenze delle organizzazioni sindacali più conflittuali. L’odio verso il lavoratore straniero talvolta si prefigge l’obiettivo di impedire lo sviluppo delle lotte sindacali – che potrebbero portare a fondersi le istanze di tutta la forza lavoro, senza distinzione etnica – permettendo così di alimentare i tassi di sfruttamento dei lavoratori tutti, italiani e stranieri. Alcuni degli stratagemmi utilizzati da questi individui senza scrupoli sono: elargire un compenso inferiore a quanto richiesto per ottenere il ricongiungimento familiare, in maniera da mantenere perennemente il lavoratore sotto ricatto; minacciare di non rinnovare il contratto di lavoro (che è il requisito necessario per il permesso di soggiorno legato a motivi di lavoro subordinato); ridurre le tutele contrattuali e sindacali, arrivando a tutta una serie di azioni atte a ostacolare l’ottenimento del permesso di soggiorno, incluse le dimissioni in bianco e la sottrazione dei documenti d’identità; non assumere lavoratori di determinate etnie, magari perché più sindacalizzabili (è il caso, ad esempio, di alcune popolazioni provenienti dal Corno d’Africa)[8].

Lo sfruttamento ci riguarda tutti e tutte, avendo ripercussioni immediate anche sul nostro lavoro e sulla nostra vita. La divisione tra autoctoni e migranti è pensata per indebolire ogni elemento conflittuale e rivendicativo nei luoghi di lavoro, e il razzismo costruito ad arte non è soltanto un pregiudizio ma anche un’arma nelle mani dei padroni e di politicanti senza scrupoli.

Note:

[1] CLASH CITY WORKERS: Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia in crisi. Firenze-Lucca: la casa Usher, 2014, p. 202.

[3] Daniele Gianmarco e Paolo Pinotti, L’immigrazione aumenta davvero la criminalità?, «il Mulino», 12 Febbraio 2025.

[4] Milo Bianchi, Paolo Buonanno e Paolo Pinotti, Do immigrants cause crime?, «Journal of the European Economic Association», Dicembre 2012, pp. 1321-1322.

[5] Milo Bianchi, Paolo Buonanno e Paolo Pinotti, op. cit., p. 1322. Cfr. http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_12.wp

[6] Olivier Marie e Paolo Pinotti, op. cit., pp. 187 e 190 (trad. nostra).

[7] Brian Bell, Francesco Fasani e Stephen Machin, Crime and immigration: evidence from large immigrant waves, «The Review of Economics and Statistics», Ottobre 2013, pp. 1289-1290.

[8] E. Gentili, L’attacco degli imprenditori. Roma: Sensibili alle Foglie, 2025, pp. 203 e 346-347.

 

 

 

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