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Anche in Brasile scoppia la protesta contro la violenza poliziesca

Favelas sull’orlo della rivolta dopo l’ennesimo ragazzino ucciso dalla polizia. 65 i morti negli ultimi due mesi. A Rio la protesta pacifica viene repressa duramente dalla polizia militare

Dagli Stati uniti al Brasile, il grido è lo stesso: Black Lives Matter, Vidas Negras Importam. E se nel colosso latinoamericano non è ancora esplosa una rivolta come quella che sta infiammando gli Usa, non mancano però le proteste contro la politica di sterminio della popolazione nera nelle favelas.

A SCATENARLE, IN BRASILE, è stato l’assassinio del 14enne João Pedro Mattos durante un’operazione di polizia avvenuta il 18 maggio nel Morro do Salgueiro, Rio de Janeiro, quando alcuni agenti hanno fatto irruzione nella casa degli zii in cui il giovane stava giocando, sparando e lanciando granate.

Ma João Pedro, il ragazzo che sognava di fare l’avvocato, è solo l’ultimo di un lungo elenco di minorenni uccisi in brutali interventi di sicurezza pubblica nelle favelas di Rio, come Ágatha Felix, la bambina di 8 anni dal volto radioso morta durante una sparatoria lo scorso settembre, o, ancora prima, Jenifer Cilene Gomes, 11 anni, raggiunta da un colpo di arma da fuoco mentre sbucciava cipolle sulla porta del bar di famiglia, o Kauã Rozário, 11 anni anche lui, ucciso mentre se ne andava in giro in bici. E tanti altri giovani neri, di cui non si conosce neppure il nome, assassinati al ritmo di uno ogni 23 minuti, nell’indifferenza generale, «come se nulla stesse avvenendo», secondo le parole di Ana Paula Oliveira, madre di un ragazzo ucciso nel 2014.

Rio de Janeiro, 31 maggio 2020 (Ap)

È stato per tutti e tutte loro che domenica – mentre gruppi antifascisti contendevano per la prima volta gli spazi di diverse città ai simboli neonazisti dei sostenitori di Bolsonaro – si è svolta di fronte al Palazzo Guanabara, sede del governo dello stato di Rio de Janeiro, la protesta contro le violente operazioni di polizia legate a un schema repressivo che identifica gli abitanti delle favelas come il nuovo nemico interno da annientare. Operazioni che, durante la pandemia, si sono addirittura intensificate, spesso interrompendo le attività realizzate dai leader comunitari a favore della popolazione, come la distribuzione di cibo e di prodotti di igiene.

SOLO NEGLI ULTIMI DUE MESI la polizia di Rio, seguendo alla lettera la celebre esortazione del governatore Wilson Witzel – «mirare alla testa e… fuoco!» per «evitare errori» – ha ucciso 65 persone, 30 ad aprile e 35 a maggio, rispettivamente il 58% e il 17% in più rispetto agli stessi mesi del 2019, l’anno record per gli omicidi da parte di agenti dello stato: 1.810, il 75% dei quali relativi a giovani neri tra i 15 e i 29 anni.

«Se non muori di fame o di Covid-19, ti ucciderà un colpo di fucile», ha scritto nelle reti sociali l’attivista Raull Santiago

Una manifestazione del tutto pacifica quella che, nel rispetto delle misure di distanziamento sociale, si è svolta domenica con lo slogan «Le vite dei neri contano», eppure inspiegabilmente repressa da agenti della polizia militare, i quali sono arrivati persino a puntare un’arma contro la testa di un manifestante, il 27enne nero Jorge Hudson da Silva. «Ho pensato che mi avrebbero sparato», ha riferito il giovane quando ha visto il fucile puntato contro di lui: «La polizia è arrivata con la stessa brutalità con cui opera sempre nelle favelas. La differenza è che stavolta tutto è avvenuto in pieno giorno, di fronte a tutti».

MA LA VIOLENZA DELLA POLIZIA è solo un aspetto dell’apartheid non ufficiale che si vive nel paese. Non è un caso che la prima vittima brasiliana del Covid-19 sia stata un’impiegata domestica nera, Dona Cleonice, contagiata dalla sua datrice di lavoro che, tornata da una vacanza in Italia, non l’aveva neppure avvisata di avere i sintomi del coronavirus.

Claudia Fanti

da il manifesto

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