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Alcune riflessioni sulla crisi italiana: tra stato di “guerra” e forze “antinazionali”

L’emergenza pandemica ha prodotto una forma di mobilitazione di massa che ha stravolto i confini tra la dimensione pubblica e quella privata. Eppure, nonostante la sua portata globale, le prime risposte alla crisi potrebbero condurre ad una regressione nazionalistica

1.

La pandemia di Covid-19, che interessa anche il nostro paese non è solamente una tragedia, che si sarebbe potuta evitare con un’adeguata politica sanitaria e di prevenzione (e i relativi investimenti). Non è neanche soltanto una prova – l’ennesima – della fragilità del nostro sistema-paese, e della necessità di un ripensamento complessivo del rapporto tra “pubblico” e “privato”, tra iniziativa (non solamente sostegno e garanzia) pubblica e iniziativa privata. E non è neanche soltanto (a scala più ampia e mondiale) un rivelatore delle aporie della “globalizzazione”, cioè della formazione di un mercato mondiale sulla base del principio unico della libera circolazione di merci (merci in senso stretto e forza-lavoro). Essa è tutto ciò, ma è anche il venire al pettine di nodi che, sul piano nazionale e della UE, la crisi del 2008 ha aggrovigliato, ma che hanno origini ben più lontane. Questi nodi hanno a che fare con le questioni dei rapporti di egemonia a scala planetaria, questioni che con il 1989 si sono rivelate, nella loro drammaticità e urgenza, agli occhi di tutti.

I nodi a cui alludo corrispondono a una lunga serie di questioni, accumulatesi almeno dagli anni Settanta[1], una delle quali è quella della struttura, funzione e missione dell’Unione Europea, la quale dopo il 1989 si è convertita, da soluzione parziale di alcuni problemi (mercato unico) a sua volta in una parte del problema: incapace di dare una risposta politica alla crisi di egemonia del sistema-mondo, l’UE è diventata in questi ultimi decenni un guardiano dell’ortodossia monetarista e dell’equilibrio di bilancio imposta da alcuni paesi a tutti gli altri. Una politica economica tra le altre è diventata così l’unica possibile, senza peraltro che si prevedesse la possibilità di discutere queste opzioni sul terreno di una (per ora) inesistente democrazia comunitaria.

Tenendo conto di ciò, questa pandemia rappresenta un pericolo per l’UE e per l’Italia. Per l’UE, in quanto essa rischia concretamente il suo sgretolamento. Per l’Italia, perché questo sgretolamento o dimagrimento (un’“Europa a due velocità”: ma che “Europa” sarebbe?) significherebbe per il nostro paese decenni di miseria economica e una regressione politica di incalcolabile portata: cioè, senza dubbio, una regressione autoritaria.

2.

Dinnanzi all’emergenza sanitaria il governo italiano (ma non solo: l’opposizione, l’opinione pubblica, i grandi commentatori…) ha reagito con lentezza, esitazioni e in modo oscillante e a tratti contraddittorio. Non mi soffermo su questo punto, sopratutto perché, come tutti hanno potuto nel frattempo constatare, lo stesso copione si è ripetuto un po’ dappertutto, con variabili che sarebbe interessante analizzare ma che qui non importano. Le “ragioni” volta a volta dell’economia, della salute pubblica, dei diritti politici e civili, e della tenuta del sistema sanitario sono state giocate le une contro le altre in modi incoerenti e successivi, fino a raggiungere un punto di equilibrio che sembra più una decantazione passiva che una scelta oculata e preventiva. Vorrei però far notare che, come è via via emerso, in realtà nessuno sa come procedere, perché ci troviamo dinnanzi a una situazione nuova, nella quale le ricette precedenti risultano inservibili. Non servono, infatti, i rimedi relativi alle pandemie del passato, perché esse hanno infuriato in società troppo lontane nel tempo e troppo diverse dalle nostre; società nelle quali la morte repentina del 10% della popolazione poteva apparire accettabile. Oggi ciò risulta eticamente e politicamente inaccettabile, come alla fine ha dovuto ammettere anche chi più o meno apertamente pensava di poter riproporre quello schema (la cosiddetta “immunità di gregge”).

Quella attuale non è, evidentemente, una catastrofe paragonabile alla peste nera o al colera. I numeri sono per fortuna molto inferiori, anche se, forse, nel saldo finale dell’anno in corso si faranno notare.

Il carattere catastrofico di ciò che accade in questi giorni sta in altro: nel modo in cui, nelle società attuali, pensiamo e percepiamo la malattia, la morte e – fatto non secondario – la possibilità di garantire le cure adeguate a chi ne abbia bisogno.

La presenza di sistemi sanitari pubblici e universalistici ha impedito che si creasse la situazione, tipica di altre epoche e, spesso, degli stati di guerra, per la quale una quota di malati viene – per una serie di ragioni legate alla probabilità di poterli curare – esclusa dalle terapie e lasciata morire. Beninteso, tutti sanno che ciò è accaduto anche nel corso di questa epidemia, in vari paesi europei, e continua ad accadere (e questo, tra l’altro, sta dando luogo o darà luogo a pesanti strascichi giudiziari). Non è però la linea direttrice, né un titolo di vanto, ma qualcosa che trapela, ogni tanto, al di sotto delle versioni ufficiali e tra le cifre e i dati che ci vengono forniti. Se il contagio va frenato a ogni costo, anche paralizzando non solo le relazioni sociali, ma la ricerca del profitto economico, e creando danni immensi al tessuto produttivo dei paesi di mezzo mondo, è perché – mi pare di capire – è necessario evitare che le strutture sanitarie, del tutto saturate, finiscano per non poter più offrire, a una serie troppo ampia di malati, alcun tipo di cura. Le altre considerazioni (assenza di un vaccino, novità e alta trasmissibilità del virus, rischio di una sua mutazione), si aggiungono a questa, che sembra però essere la più immediata e urgente, quella che ha spinto a prendere delle decisioni così dure, radicali e per molti aspetti scandalose.

3.

Date queste premesse – impossibilità di lasciare che tutta la popolazione si infettasse, allo stesso tempo impedendo che i sistemi sanitari fossero travolti da un afflusso eccessivo di malati, o al contrario accettando che ciò accadesse, assumendone le conseguenze – l’unica strada praticabile è rimasta quella che già in Cina e Corea del Sud si è rivelata capace di frenare la diffusione del contagio: quella, per semplificare, della “guerra” al Covid 19, vale a dire della mobilitazione totale della popolazione. Si tratta evidentemente di uno stato di guerra in senso traslato (ci tornerò), che però dello stato di guerra ha alcuni tratti: assunzione di poteri eccezionali, limitazione delle libertà personali (il discorso andrebbe fatto, per la Cina in modo diverso, ma non nella sostanza) e centralizzazione del potere decisionale in vista del conseguimento dell’obbiettivo.

La “guerra al virus” è però – e intende essere – anche un’immagine evocativa, capace di mobilitare e coinvolgere volontariamente e non solo in modo coercitivo ampie masse di popolazione.

In questo modo, i vari governi hanno tentato di creare un clima di appoggio alle restrizioni imposte, appellando alla responsabilità, all’altruismo, alla lotta contro il nemico comune. In questo senso, dunque, l’analogia con lo “stato di guerra” è meno superficiale: non si tratta più solamente di una somiglianza data da alcuni tratti in comune, ma anche da differenze profonde (lo stato di emergenza e lo stato di guerra sono due fattispecie giuridiche ben distinte) ma di uno stato d’animo che intende simulare una completa identificazione (“prime linee”, “retrovie”, “caduti”, “ospedali da campo”, ecc.).

Qui però va introdotta una distinzione. Che tipo di “mobilitazione” si dovrebbe avere, se è vero che il virus non conosce frontiere? Non certo una mobilitazione su base nazionale, come se il nemico fosse un invasore esterno. Piuttosto, si sarebbe dovuto vedere lo scatenarsi di una guerra mondiale, nel senso della globalità e unità degli sforzi per vincerla; una grande impresa solidale a tutti i livelli: internazionale, regionale, nazionale. Esattamente quella rete di interdipendenze economiche che abbiamo visto strutturarsi nell’ultimo mezzo secolo come “trama” della globalizzazione, avrebbe dovuto essere la “base materiale” di un grande progetto comune di lotta alla minaccia presente. Ma così non è stato, anzi tutto il contrario: si è assistito a un vasto scatenarsi di egoismi e, tranne alcune eccezioni, ciò che ha trionfato è – per riprendere Gramsci – l’altra faccia dell’internazionalismo o cosmopolitismo della vita economica, ovvero il gretto nazionalismo della vita statale[2]: frontiere chiuse dappertutto, e sospensione di qualsiasi tipo di libera circolazione anche all’interno dell’UE.

È difficile dire come questa situazione evolverà, e se nel prossimo futuro si potrà giungere a forme di collaborazione capaci di spezzare le logiche egoistiche che hanno finora avuto la meglio. I segnali non sono incoraggianti: gli accaparramenti di mascherine e sistemi di protezione individuale, e la lotta senza quartiere che si è già scatenata attorno al vaccino bastano a ispirare un profondo pessimismo al riguardo.

Stanti queste premesse, per il momento un’altra strada che non sia la mobilitazione nazionale non la si vede; e se qualcuno pensava di avere un’altra soluzione – di tipo più “liberale” – ha dovuto ricredersi. Una volta scartata la possibilità di una riconversione della rete di interdipendenza in base di una collaborazione globale, l’equilibrio, nel nord-ovest del pianeta, tra ciò che è eticamente accettabile, ciò che politicamente accettabile e ciò che è economicamente accettabile ha trovato un punto di equilibrio nell’idea della mobilitazione delle energie nazionali nella lotta alla pandemia: ognuno per conto proprio, insomma.

4.

Questa mobilitazione su base nazionale ha effettivamente riproposto – come si è detto – un modello politico e sociale per alcuni aspetti simile a uno stato di guerra in senso proprio, perché si collega a un’almeno implicita competizione sul piano internazionale. Tale mobilitazione ha richiesto e richiede una serie di misure, tra le quali almeno due appaiono di grande importanza: l’unione delle forze di tutti nella lotta contro un nemico comune e l’assunzione di compiti “pubblici” da parte di ogni cittadino (privato). Le due premesse si tengono insieme e insieme cadono: solamente se ciascuno assume su di sé il compito di incorporare una funzione “statale”, sarà possibile che l’unità d’azione sia veramente tale, e quindi efficace; sarà cioè possibile produrre quella solidarietà comunitaria che è richiesta dall’eccezionalità dello sforzo da compiere.

Ma entrambe le premesse, e sopratutto la seconda, implicano il parziale superamento della separazione tra sfera pubblica e sfera privata, su cui si basa la vita politica nelle democrazie costituzionali.

Là, dove il cittadino non accede volontariamente a questa “funzione”, lo Stato interviene in modo più o meno paternalistico con misure di costrizione che mirano a raggiungere quello stesso obbiettivo.

La differenza tra i vari paesi europei è relativa a questo bilanciamento tra controllo-coercizione esterna e auto-controllo o auto-coercizione (a un estremo la Svezia, all’altro estremo l’Ungheria), ma la sostanza rimane la stessa: si tratta sempre di produrre un’azione comune e coordinata di tutte le energie nazionali per mezzo del conferimento diretto al singolo cittadino di funzioni e responsabilità “pubbliche”, di diretto rappresentante dell’ordine e della disciplina statale richieste da questa situazione di emergenza.

Questa espansione e ramificazione della sfera statale era stata notata da Gramsci alle soglie degli anni Trenta, quando aveva parlato della funzione di controllo capillare della «polizia», che andava ridefinito realisticamente come «una ben più vasta organizzazione, alla quale, direttamente o indirettamente, con legami più o meno precisi e determinati, permanenti o occasionali, ecc., partecipa una gran parte della popolazione di uno Stato»[3]. All’estensione massiccia di questa funzione andava però affiancata, a suo avviso, l’ampliamento altrettanto potente della funzione, prevalentemente costruttiva e propositiva, del «legislatore»: «Il concetto di “legislatore” non può non identificarsi col concetto di “politico”. Poiché tutti sono “uomini politici” tutti sono anche “legislatori”»[4]. Ma questa funzione propositiva aveva senso solo se interna a un sistema organico di esercizio dell’autorità: «Se ognuno è legislatore nel senso più largo del concetto, – aggiunge Gramsci – ognuno continua ad essere legislatore anche se accetta direttive di altri, ed eseguendole controlla che anche gli altri le eseguano, avendole comprese nel loro spirito, le divulga, quasi facendone dei regolamenti di applicazione particolare a zone di vita ristretta e individuata»[5]. Tra proposizione ed esecuzione, tra libertà e controllo, i confini sono incerti e fluttuanti, appunto perché Gramsci non considera “sostanziale” la dicotomia liberale tra individuo e Stato, né quella tra «libertà» individuale e «conformismo» collettivo[6].

Nel mondo contemporaneo, in una serie di paesi nei quali apparentemente la tradizione politica liberale è radicata in modo irreversibile, lo scatenarsi della crisi epidemica ha repentinamente portato alla luce questa “trama” materiale della vita sociale e della politica, dello «Stato in senso organico e più largo», direbbe Gramsci[7], trama che ha messo tra parentesi il mondo delle garanzie liberali, aprendo così scenari inediti e parzialmente imprevedibili. L’esperienza di massa delle forme di “comunitarismo” forzato, che però è spesso anche un comunitarismo “ritrovato” e spinto fino a forme estreme e parossistiche (come il controllo diffuso e le manifestazioni di intolleranza nei confronti di chi trasgredisce le regole, le denunce rivolte al vicino di casa che riceve ospiti, ecc.), implica un’esperienza di massa di forme della socialità e della politica, dell’identificazione tra l’azione del singolo individuo e l’intervento dello Stato, che fino a ieri era semplicemente inimmaginabile. Questa esperienza di massa è come un’enorme “scuola”, che modifica abitudini e ridefinisce i parametri della “normalità”. Si tratta di un fenomeno di attivazione di massa, che contiene elementi contraddittori: aspetti regressivi, ma anche immense potenzialità in direzione di un superamento o per lo meno di una relativizzazione dell’“individualismo proprietario” sul quale si basa l’economia di mercato, verso l’adozione di un modello più legato alla “pianificazione”, non più percepita come sinonimo di limitazione della libertà individuale, ma come un suo contesto organico[8].

Questo fenomeno è però coestensivo all’intensificazione e sistematizzazione del controllo della vita degli individui da parte del potere centrale. Perciò a questi scenari inediti si accompagnano conseguenze imprevedibili, perché la sospensione del quadro “liberale” delle democrazie costituzionali, per quanto temporaneo, offre la possibilità di una futura intensificazione del controllo capillare, grazie all’accettazione delle tecnologie di tracciamento e campionamento oggi disponibili[9]. L’accenno, già fatto da varie parti, a un uso per ora meramente statistico e anonimo della geolocalizzazione, ai fini della regolazione di possibili future recrudescenze del contagio, è la porta di entrata a un tipo di controllo che la tecnologia dei big data oggi rende perfettamente possibile: sarà da vedere quanto esso possa diventare anche socialmente, politicamente e culturalmente accettabile. Certo è che, in questa alternativa tra nuove forme di solidarismo e di autoritarismo, il paradigma neoliberista e le varie forme di comunitarismo regressivo (le “piccole patrie”) optano e opteranno per la seconda.

5.

Veniamo all’Italia.

Anche qui, come altrove, è apparso indispensabile produrre una mobilitazione delle energie nazionali nella lotta alla pandemia. Ma l’Italia è anche quel paese che, come e più di altri, proprio a causa di queste misure ineludibili rischia seriamente il tracollo economico e sociale. Nel Meridione, come è ampiamente noto, una parte non piccola di popolazione vive di lavoro nero e informale, e non ha pertanto diritto – secondo i criteri vigenti – ad alcun tipo di ammortizzatore sociale.

Ma l’Italia è anche il paese europeo che già era in recessione (a differenza degli altri) prima dello scoppio di questa crisi pandemica. Essa rischia insomma una catastrofe senza precedenti (le stime del FMI, rese note il 14 aprile, la collocano in fondo alla lista dei paesi europei, per la previsione della percentuale di recessione che potrà subire nel 2020).

A fronte di ciò, c’è l’esaurimento (ampiamente visibile almeno dalla crisi del 2008) della spinta centripeta dell’UE, che non è più in grado di assimilare, appunto, entro un progetto di sviluppo e progresso le “masse nazionali”, ma semmai si trova sempre più chiaramente disgregata in blocchi nazionali di interessi contrapposti[10].

Non è esagerato dire che oggi l’Italia si trova ai margini di un abisso, presso il quale il sistema-paese e il sistema-Europa si muovono insieme, con relazioni talmente strette che il crollo di uno può provocare quello dell’altro. Se l’Italia “cade”, è difficile che l’UE rimanga in piedi, per lo meno nella forma che ha avuto dalla sua fondazione a oggi, come un progetto destinato a unificare economicamente, quindi anche politicamente l’Europa continentale al suo fronte mediterraneo[11]. La drammaticità estrema di questa situazione è emersa, a mio avviso, chiaramente nella conferenza stampa tenuta dal presidente del Consiglio Conte la sera del 10 aprile, in particolare nella sua espressione di disperazione ed esasperazione, quando, battendo il pugno sul tavolo, ha detto che l’«unica soluzione» che ha, è quella di andare al prossimo Consiglio Europeo «con dignità, con la forza di un popolo», a lottare affinché il promesso meccanismo di garanzia comunitaria dei fondi venga attivato: lo ha detto, si badi, con la faccia di uno che sa perfettamente che questa «forza» non è affatto detto che gli venga affidata.

Qui è secondo me il punto chiave: se non si ha dietro la «forza di un popolo», come si pensa di poter vincere una guerra? La mobilitazione di tutte le energie nazionali è indispensabile sia nella lotta quotidiana contro il contagio, sia nella difficile trattativa in corso, sui mezzi con i quali affrontare, a livello comunitario, la crisi in corso. Ma qui è il paradosso, enorme: una volta accettato l’orizzonte nazionale della “guerra al virus”, questa si è mescolata e sovrapposta a un numero altissimo di implicazioni geostrategiche, per le quali i vari Stati sono in competizione gli uni contro gli altri, anche dentro la UE, dove la questione “Eurobond e/o Mes” rischia di diventare un’occasione, per i paesi del Nord, per imbrigliare quelli del Sud, e l’Italia in particolare, in una disciplina subalterna. La “guerra” al virus diventa così anche una “guerra” tra Stati, e si rischia di vedere quella “mobilitazione popolare” diventare fungibile – di volta in volta – per entrambe[12].

Così vorrebbero, almeno, quelle forze politiche particolarmente irresponsabili, che in Italia stanno giocando allo “sfascio” pur di poter capitalizzare politicamente le difficoltà che si incontrano nell’affrontare l’emergenza sanitaria e, insieme, il conflitto interno all’UE. La destra italiana mira a far cadere il governo mescolando l’attacco per la gestione della crisi sanitaria a quello per la sconfitta sul piano europeo, in modo da poter diventare la paladina di un “sovranismo” che a dire loro ci dovrebbe salvare, ma che invece non sarebbe altro che l’amministrazione della miseria e il gestore di un’inimmaginabile involuzione autoritaria del nostro paese.

Il meccanismo è chiaro: da settimane, mesi si assiste a un continuo attacco al governo per l’“autoritarismo” di cui sarebbe protagonista, come se lo “stato di emergenza” fosse uno “stato di eccezione”. Tra i due, con buona pace di un certo filosofo de cuyo nombre no quiero acordarme, c’è una differenza importantissima, dato che il primo fronteggia una catastrofe naturale, mentre il secondo si rivolge a sommovimenti politici[13]. È ovvio che i confini non sono così netti: ho già accennato sopra alla modificazione del rapporto tra “pubblico” e “privato”, e tornerò più avanti su questo aspetto. Ma voler far scivolare la gestione dell’emergenza su di un piano tutto politico è non solo falso, ma – e questo va detto con forza – apertamente antinazionale, perché va a ricadere pesantemente sulle difficoltà che l’Italia attraversa in questi giorni nella relazione con alcuni paesi dell’UE e tenta, indebolendo la rappresentanza politica del nostro paese, di far cadere il governo proprio su questo punto, trascinando così nel baratro sia noi, sia l’UE.

In quella espressione di disperazione e di esasperazione di Conte si condensa la storia di queste ultime settimane. La conferenza stampa non è un episodio a sé. È il risultato di giorni drammatici, fatti di tentativi quasi nel buio, perché volti a innescare dinamiche delle quali non si poteva conoscere a priori lo svolgimento; e, dall’altra parte, di un profluvio di attacchi continui, da parte della destra, a qualsiasi misura, di qualsiasi tipo, venisse presa. Ma se le cose stanno come ho tentato di presentarle, se cioè è vero che in questo momento l’Italia e l’UE sono appese a un filo, è indispensabile dire con chiarezza che ogni attacco che non sia costruttivo, che cioè non intenda contribuire a dare una soluzione migliore di quella volta a volta proposta, va considerato come un’attività apertamente antinazionale, perché mira alla rovina del nostro paese. Insomma, delle due l’una: o l’Italia è in lotta per la sopravvivenza sua e dell’Europa, e allora tutti devono unire le proprie forze per vincere la battaglia; o ci sono alternative realistiche, e allora che vengano proposte ed esposte. Invece gli attacchi – e mi riferisco qui in special modo a Meloni e Salvini – hanno avuto il solo scopo di fare rumore, gettando il discredito su tentativi che, per quanto incerti e oscillanti – sono quelli che, in definitiva, hanno creato un “modello” per la lotta all’epidemia nel mondo delle democrazie nord-occidentali. Ai miei occhi, dunque, questi attacchi vanno considerati come disfattistici e antipatriottici, e come tali vanno stigmatizzati.

Contro tutto ciò sta «la forza di un popolo»: non forza d’urto contro questo o quel paese della UE, ma, allo stesso tempo, contro la pandemia e contro la riduzione della “guerra alla pandemia” a una “guerra tra Stati”, a un regolamento di conti “nazionalistico” tra Nord e Sud. «Forza di un popolo» che si dichiara indisponibile a sacrificare sé stesso e l’Europa sull’altare di un’opinione in materia di politica economica, consegnando il nostro paese a un gruppo di avventurieri disposti a distruggerlo per potersene appropriare. Questa strategia dello “sfascio” è emersa davanti agli occhi di tutti quando sia Salvini, sia Meloni hanno esultato dinnanzi al fallimento della trattativa sugli eurobond e il primo ha parlato di «una seconda Caporetto». Il riferimento è chiarissimo: Caporetto è il nome in cui nel senso comune degli italiani si condensa in maniera quasi mitologica la “disfatta”, e già solo il fatto di averla evocata denuncia la logica che c’è dietro. In sostanza, si vuol presentare quella trattativa come una sconfitta, anzi come la “disfatta” nella quale tutto è perduto e perciò tutto bisogna mettere sottosopra per poterci salvare: buttare giù questo governo di sovietici e di traditori, ricacciare l’UE fuori dei sacri confini della Patria, e magari dare finalmente i “pieni poteri” a chi qualche mese fa li invocava da una spiaggia romagnola.

Questa logica io la chiamo “disfattismo”, perché proprio nel momento di maggiore tensione, in cui dentro e fuori del paese è necessario continuare a lottare con calma e lucidità per l’unico obbiettivo capace di disinnescare il cortocircuito grettamente nazionalistico, in cui tutti rischiamo di avvitarci, grida che “tutto è perduto” per potersi impadronire, nella confusione, di ciò che rimane.

Se non di un infantile desiderio di rivalsa si tratta, ma di una lucida strategia, bisogna dire con chiarezza che il progetto a cui questi attacchi rispondono è quello della disgregazione dell’UE, e insieme del disastro economico dell’Italia e della sua involuzione autoritaria. Chi taccia Conte di autoritarismo e definisce il suo discorso “sovietico” («roba da Urss», «regime totalitario»), dovrebbe pensare che la sostanza delle cose è esattamente un’altra e il buon senso – contro il formalismo gesuitico (“reti unificate” e falsità di questo genere) di cui amano fregiarsi i detentori dell’informazione – non mancherà di intendere il significato di quelle parole, il loro essere un appello all’unità, un tentativo di rispondere agli attacchi di chi, forte della propria posizione, si crede in diritto di proferire qualsiasi accusa contro chiunque. Il buon senso non mancherà di mettere ciascuno al proprio posto: chi evoca e fattivamente ricerca lo “sfascio” e la “disfatta” (come la Lega, che il 16 aprile ha votato al Parlamento Europeo contro un emendamento dei Verdi alla risoluzione sulla risposta dell’UE alla pandemia, che chiedeva la creazione di eurobond per condividere il debito futuro degli Stati membri), con il solo scopo di alimentare un disegno autoritario e chi, anche commettendo errori, sta tentando da settimane di tenere in rotta una barca malandata in un mare in tempesta.

6.

Ma poi, di quale autoritarismo si parla? ci siamo guardati attorno? Non parlerò ovviamente dell’Ungheria, che semmai rappresenta un modello proprio per i nostri avversari di destra. Si guardi alla Spagna. La dichiarazione dello stato di emergenza in base all’articolo 116 della Costituzione e alla successiva legge-quadro 4/1981 ha, poggiando sull’articolo 9.1 di quest’ultima, centralizzato polizie locali e regionali e l’intero sistema sanitario, che anche in Spagna è regionale. Il presidente del consiglio Sánchez ha in questo modo assunto su di sé, insieme a un esiguo gruppo di tre ministri chiave (difesa, interno, sanità), l’intera gestione della crisi, esautorando di fatto quasi del tutto il Consiglio dei ministri, il parlamento (che è chiamato solamente a prorogare lo stato di allarme ogni 15 giorni) e le istanze intermedie. In nome dell’emergenza, ulteriori competenze e attribuzioni, oltre a quelle già nominate, sono state poi sottratte alle regioni. Inoltre, il modo in cui, all’interno di questa cornice, già restrittiva, i provvedimenti vengono concretamente presi, è caratterizzato da una quasi totale assenza di comunicazione istituzionale, per cui i presidenti delle varie regioni vengono avvisati di essi quando sono già stati decisi. Il regime di quarantena è dall’inizio molto più rigido di quello italiano, e i presidenti delle regioni non hanno nessun margine di azione per modificarlo, integrarlo o ammorbidirlo.

Nel suo discorso del 13 marzo, Pedro Sánchez ha affermato, con una nettezza che sfiorava la brutalità, che avrebbe utilizzato tutti i mezzi, «civili e militari», per salvaguardare la vita dei propri «compatrioti», mobilitando l’esercito e centralizzando tutte le forze di polizia.

Questa affermazione, che può apparire pleonastica o provocatoria, è probabilmente legata alla situazione spagnola, nella quale le forze armate non brillano per comprovata lealtà costituzionale, e appare quindi più opportuno tenerle dentro il quadro di comando che mantenerle ai suoi margini, per poterle controllare e blandire. Ma è vero, allo stesso tempo, che su questa necessità il presidente del consiglio ha elaborato una strategia che, lungi dall’istituire un rapporto di collaborazione cordiale con le istanze intermedie e con la popolazione (nel senso, detto sopra, della “mobilitazione” volontaria), ha piuttosto preferito fin dall’inizio, e senza tentennamenti, impostare tutto sulla base di un paternalismo autoritario che tratta i «compatrioti» alla stregua di potenziali irresponsabili, e i bambini – rigorosamente confinati in casa – come «vettori di trasmissione» del virus[14].

Questi processi di infantilizzazione e insieme di mancanza di empatia hanno che fare con la tradizione autoritaria della cultura politica spagnola tradizionale, al di là delle sue diverse e opposte varianti politiche (di fatto, con la dichiarazione dello “stato di allarme” il socio minoritario di governo, Unidas Podemos, è stato completamente emarginato e quasi del tutto reso invisibile). Ma ciò si inserisce in una tendenza che risale a ben dopo il 1978, cioè al momento della “transizione” alla democrazia. Mi riferisco alla cosidetta “ley de partidos” del 2002, in cui si stabiliva che era possibile dissolvere un partito politico per la presenza, nelle sue liste o organi dirigenti, anche solo di una persona «condannata per delitti di terrorismo che non abbia ripudiato pubblicamente i fini e i mezzi terroristici» (legge quadro 6/2002, art. 9.2.c)[15], ciò che ha portato a una lunga lista di scioglimenti giudiziari di partiti di sinistra e nazionalisti baschi. E mi riferisco anche alla cosidetta “ley mordaza [museruola]” (legge quadro 4/2015), che amplia i poteri di controllo e repressione delle forze di sicurezza, moltiplica il numero di reati legati alla protesta politica e sociale e diminuisce il numero di quelli legati all’abuso di autorità. Entrambe queste leggi sono state criticate da Amnesty International e da vari ambienti politici liberali. Ma esse non sono eccezioni assolute: si inseriscono in un quadro di progressivo irrigidimento della “regole” della democrazia procedurale e di restringimento degli spazi in cui è possibile esercitare la protesta, che interessa la Spagna ma anche altri paesi europei: l’intelaiatura giuridica del rattrappimento oligarchico della democrazia, il quadro normativo della presente condizione “post-democratica”. L’attuale situazione di “emergenza” potrebbe offrire l’occasione per procedere – una volta tornati alla “normalità” – a un indurimento delle misure di controllo, sfruttando l’assuefazione che il periodo di sospensione delle libertà individuali inevitabilmente produce[16].

Si compari questa situazione a quella italiana, in cui esistono molteplici livelli decisionali su una serie di discipline (circolazione, sanità, commercio, industria), insieme a una poliarchia e policrazia della gestione dell’emergenza, che rende francamente ridicola ogni accusa di autoritarismo. Forse è un bene che in Italia le cose vadano così, o forse no. Non voglio né posso qui entrare nel merito di una questione che meriterebbe un discorso a sé e che è del resto il riflesso attuale di una tendenza all’inflazione normativa che ci portiamo dietro da molto tempo. Ciò che è certo, è che la nostra Costituzione non prevede uno “stato di allarme”, per cui i processi di centralizzazione – funzionali all’efficienza dell’intervento – rendono necessario un contemperamento di istanze estremamente delicato, e oggetto di dibattito da parte dei costituzionalisti. Ciò riflette una specificità della nostra storia nazionale, che si può riassumere nella vivacità della società civile a fronte della debolezza dell’intervento statale, e nel policentrismo territoriale.

7.

Non è questa la sede per discutere la storia secolare del nostro paese. È certo però che questa “guerra” la potremo vincere – al di là dell’obbiettiva complessità dei modi di intervento – solamente con l’unità di azione. Unità, beninteso, con la vivacità che ci caratterizza, come italiani e come sinistra; unità non cieca, non fanatica, ma critica e consapevole del fatto che dentro questa guerra si decidono tante cose, ben al di là del contenimento del Covid-19. L’intreccio guerra-politica è parte del patrimonio ideale della sinistra. È questo il momento di metterlo in gioco, e di svolgerlo non ottusamente, ma sapendo che nel giro di pochi mesi decideremo (o verranno decise…) le direttrici fondamentali dei prossimi decenni. Se vogliamo impegnarci per dare un futuro al nostro paese, è questo il momento di pronunciarci in modo non equivoco, ben al di là delle lamentele che tutti sentiamo e ripetiamo sulla limitazione delle nostre libertà personali; dei timori per l’insorgente spettro del “comunitarismo” regressivo e per il fanatismo in agguato a ogni angolo di strada, nascosto in ogni balcone. Sono, questi, aspetti e momenti di un processo contraddittorio: solo se saremo parte di questo processo potremo riuscire a contenere e dirigere le dinamiche che la pandemia ha scatenato, o forse ha “liberato” e portato alla superficie. Il liberalismo – inteso come liberalismo politico e come liberalismo economico – ha in pochi giorni esibito dei limiti evidentissimi: l’intero mondo li ha davanti agli occhi: non li dobbiamo più spiegare, argomentare, teorizzare. Ma è proprio qui – negli stati di crisi – che le tentazioni più torbide e regressive si possono inserire e proliferare.

Cerchiamo insieme ciò che è essenziale e che è, allo stesso tempo, praticabile. Non è questo il momento per proporre alternative belle e comode, ma che, per parafrasare Machiavelli, non si vedono né conoscono oggi essere in vero. Dobbiamo schierarci, se vogliamo dire la nostra su questa storia futura, e per schierarci dobbiamo denunciare il disfattismo di chi, sì, sta riproponendo la tattica stantia del “tanto peggio, tanto meglio”.

Fabio Frosini

da Dinamo press

Note:

[1] Cfr. G. Vacca, Il socialismo europeo e la globalizzazione. Le radici della crisi, «Italianieuropei», 2009, n. 5 (http://www.italianieuropei.it/en/italianieuropei-4-2010/item/1482-il-socialismo-europeo-e-la-globalizzazione-le-radici-della-crisi.html).

[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 1975, p. 1756.

[3] Ivi, pp. 278-79.

[4] Ivi, p. 1668.

[5] Ivi, p. 1669, corsivo mio.

[6] Cfr. ivi, pp. 1110-11.

[7] Ivi, p. 763.

[8] Considerazioni molto importanti in questa direzione si trovano – per gli aspetti legati alla politica economica – in P. Borioni, La lezione del Coronavirus: più Welfare e più Pubblico, «strisciarossa», 15 marzo 2020 (http://www.strisciarossa.it/la-lezione-del-coronavirus-piu-welfare-e-piu-pubblico-contro-lo-stato-anoressico/) e in L. Michelini, Economia di guerra e Covid-19, «Il Ponte», 18 marzo 2020 (https://www.ilponterivista.com/blog/2020/03/28/economia-di-guerra-e-covid-19/).

[9] Cfr. p. es. Neus Tomàs, Con las referencias a la guerra se abre el camino a un refuerzo de las posiciones autoritarias, intervista a Josep Ramoneda, «eldiario.es», 4 aprile 2020 (https://www.eldiario.es/catalunya/politica/Josep-Ramoneda-referencias-posiciones-autoritarias_0_1012099843.html).

[10] Per un’analisi di questa situazione cfr. L. Cavallaro, «Se pure c’era di questi untori». Ideologia immunitaria e fantasmi comunitari, «Giustizia Insieme», 3 aprile 2020 (https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-dell-emergenza-covid-19/979-se-pure-c-era-di-questi-untori-ideologia-immunitaria-e-fantasmi-comunitari?hitcount=0).

[11] Cfr. E. Hillebrand-A. M. Kellner (eds.), Shaping a Different Europe Contributions to a Critical Debate, Bonn, Dietz, 2014.

[12] Cfr. L. Michelini, I dubbi della Germania, la credibilità dell’Italia, «MicroMega», 15 aprile 2020 (http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-dubbi-della-germania-la-credibilita-dell-italia/#_ftnref4).

[13] Su questo punto, in relazione alla Spagna, dove c’è una destra altrettanto irresponsabile e antinazionale di quella italiana, cfr. J. Pérez Royo, Alarma, excepción y sitio, «eldiario.es», 15 aprile 2020 (https://www.eldiario.es/contracorriente/ALARMA-EXCEPCION-SITIO_6_1016358378.html).

[14] Cfr. Isaac Rosa, Soy padre de tres vectores de transmisión asintomáticos e incontrolables, «eldiario.es», 14 aprile 2020 (https://www.eldiario.es/zonacritica/ninos_vectores_de_transmision_coronavirus_6_1016708367.html).

[15] https://www.boe.es/buscar/doc.php?id=BOE-A-2002-12756.

[16] Per un’analisi molto lucida di questi processi storici cfr. C. Rendueles, La tormenta perfecta de autoritarismo, «El país», 29 marzo 2020 (https://elpais.com/elpais/2020/03/27/opinion/1585301613_468266.html). Un’analisi (centrata sull’attualità) dell’impostazione repressiva del ministro degli Interni Fernando Grande-Marlaska, e degli eccessi commessi dalle forze di polizia in Spagna durante la quarantena, in E. Beni, Hecha el freno, Marlaska, «eldiario.es», 15 aprile 2020 (https://www.eldiario.es/zonacritica/Echa-freno-Marlaska_6_1017058309.html).

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