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35 euro, 2 anni di carcere…Arrestato 12 anni dopo per “rapina” di fotocopie in università

Arrestato un compagno milanese per una vicenda del 2009, legata a un diverbio tra studenti dell’università statale, in cui alcuni compagni si sono rifiutati di pagare alla libreria CUSL (di area Comunione-Liberazione) circa 700 fotocopie di volantini politici, per cui hanno poi ricevuto una condanna di circa 2 anni e mezzo a testa con l’accusa di rapina e lesioni.

Una volta un giudice come me giudicò chi gli aveva dettato la legge. Prima cambiarono il giudice e subito dopo la legge
(F. De André)

Il 15 marzo 2021, a Milano la polizia ha arrestato per rapina un uomo di circa 30 anni, ora detenuto al carcere di Bollate.

La “rapina” avvenne un giorno di settembre del lontanissimo 2009, circa dodici anni fa. Siamo all’Università Statale di Milano in via Festa del Perdono. Come tanti prima di loro, tre studenti entrarono nella libreria CUSL, gestita e sovvenzionata da Comunione e liberazione. Fotocopiarono 700 volantini, per un valore di 35 euro, e fecero per uscire senza pagare. Qualcuno alla cassa chiese: “Ma non pagate?” e qualcuno rispose forse che di soldi alla CUSL non ne mancavano, o che non sarebbero stati quei 35 euro a cambiargli la vita. O forse niente. Questa scena era avvenuta infinite altre volte nei mesi e negli anni passati, molto prima che questi tre studenti decidessero di iscriversi a qualche facoltà umanistica e di frequentare il Chiostro del Filarete. Quel giorno di settembre però i ragazzi di CL si erano organizzati: erano in gruppo e, invece di lasciare andare i tre studenti, li bloccarono. Allarmati, due amici dei tre studenti in questione accorsero ad aiutarli. Volarono un paio di insulti, un pugno o forse uno spintone. Niente di più. Il tutto durò circa un minuto, ma era stato filmato da una telecamera. Intanto, i ragazzi della CUSL raggiunsero l’ospedale più vicino per farsi medicare e, con il referto in mano, sporgere denuncia.

Questa è la storia della rapina, e per uno di quei tre studenti ora arriva la pena. Sono passati quasi dodici anni da allora.

La condanna è definitiva: due anni e due giorni. Si tratta di un reato particolarmente grave e quindi “ostativo alla sospensione dell’ordine di esecuzione della pena e di altri benefici”: ossia, mentre per la maggior parte dei reati, se la pena è sotto i 4 anni, l’arresto è sempre sospeso così da poter prima valutare misure alternative (per esempio i domiciliari), nel caso della rapina si finisce direttamente in carcere – poi eventualmente si valuteranno le misure alternative.

Viene da chiedersi come sia potuto passare così tanto tempo da quel lontano 2009 a ora. In questo caso, per altro, alla rapina si è sommata una successiva resistenza a pubblico ufficiale (altro reato particolarmente spinoso: prevede una pena che va dai sei mesi ai cinque anni e se ci sono aggravanti si va dai tre ai quindici anni). Del resto in Italia, si sa, il sistema giudiziario è lento: esistono centinaia e centinaia di fattispecie di reati e la procura è ingolfata da un immenso numero di piccoli conflitti.

Ma torniamo al ladro di fotocopie e ai due anni di carcere da scontare.

Rapina è il reato previsto dall’articolo 628 del codice penale e si riferisce a “Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s’impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene”.
Non c’è dubbio, i fatti della CUSL hanno tutte le caratteristiche di una rapina in piena regola. Sulla carta, l’“ingiusto profitto” c’è, la “violenza” pure. Nulla di diverso da una rapina in banca, sulla carta.

Bisogna andare indietro di un paio di secoli per capire come la carta abbia preso il sopravvento sulla realtà.

Il 21 marzo 1804 venne emanato in Francia il Codice napoleonico, primo codice civile moderno. Confermava l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, aboliva il feudalesimo e si occupava di proteggere il diritto di proprietà e di normare gli scambi: le priorità della borghesia. Ma soprattutto, giuristi illuministi e positivisti ritennero di poter far trionfare la ragione attraverso il sistema della codificazione (interessante notare come in greco moderno, ma non antico, categorizzare voglia dire proprio accusare).

Meno di un secolo prima a Parigi, racconta l’antropologo Franco La Cecla nel suo Perdersi (Meltemi), viene varato il Piano dei limiti della città: “la municipalità cerca sulla mappa di far chiarezza nel groviglio di vie, tra i bubboni di case, le baracche, le pergole, le abitazioni provvisorie, i carretti, i banchi dei venditori, le tende. Gli esattori delle tasse, devono sapere precisamente come orientarsi, chi abita qui o lì. Le guardie municipali, gli impiegati addetti al controllo dei quartieri possono entrare senza timore solo se la città viene addomesticata al Piano che la rappresenta”.

La legge diventa codice, la città diventa mappa, piano, deve essere rappresentabile. Lo spazio e i rapporti fra chi lo abita vengono astratti.

È così che sotto il reato di rapina rientrano le 700 fotocopie della CUSL esattamente come l’irruzione in banca con furto di decine o centinaia di migliaia di euro: a partire da allora, la legge diventa un nome, un titolo astratto dentro cui bisogna far rientrare i fatti concreti. Sotto un solo cappello possono quindi ritrovarsi insieme cose che viste nella loro concretezza non hanno nessun legame l’una con l’altra. Non contano solo il peso, le conseguenze di un’azione: conta anche la casella entro cui quell’azione viene riposta, il nome che le viene dato.

Il reato di Devastazione e saccheggio, per esempio, venne istituito in pieno fascismo:

“Art. 419 – Chiunque, fuori dei casi previsti dall’articolo 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito”.

Con evidenza poggia su una ragion d’essere militare, ma bastano un giudice o un procuratore in “cattiva fede” per far rientrare sotto lo stesso cappello anche i danni a un negozio durante una manifestazione.

Il codice penale italiano risale al 1930 e per quanto sia stato rimaneggiato negli anni ’50 e ’60 resta al suo interno lo stampo inquisitorio con cui è stato concepito.

Il verdetto probabilmente non sarebbe stato troppo diverso se l’ex studente avesse rapinato una banca o una gioielleria. Ma forse, se nella vita non avesse fatto politica, il giudice avrebbe avuto meno voglia di condannarlo per 35 euro di fotocopie. Per chiunque, anche per un giudice, è molto difficile essere imparziale. E la legge così com’è concepita da un paio di secoli a questa parte consente, se si vuole, di prendere un fatto piccolo così e di dargli il nome di rapina perché, sulla carta, in effetti, è proprio una rapina. Nel concreto, però, si sta anche interrompendo la vita di una persona dodici anni più tardi e non avrebbe forse tutti i torti, questa persona, a uscirne più arrabbiata di prima.

Sapere che tanto l’astrazione della legge quanto l’astrazione dello spazio hanno una data di nascita e una storia non poi così lunga alle spalle forse aiuta a relativizzarne la necessità e ad intravvedere le maglie dello schematismo dogmatico in cui siamo immersi. Nel quale si possono scontare 11 anni per aver danneggiato delle vetrine, o due per 35 euro di fotocopie, ma è quasi impossibile punire gravissimi reati ambientali che causano la morte diretta o indiretta di persone e il danneggiamento di altre specie, perché 35 euro sono facilmente quantificabili, mentre non lo sono le vittime umane e non umane dell’Ilva o della Terra dei Fuochi. Finché non sono codificabili, quantificabili, nominabili, restano invisibili. 700 volantini invece sono sempre 700 volantini.

Caterina Orsenigo

da Gli Stati Generali

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