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29 ottobre 1949 – La strage di Melissa

La strage con 3 morti della polizia di Scelba, chiamata dai latifondisti per bloccare la protesta di chi chiedeva la terra che gli spettava.

Melissa è un nome dolce e antico: è il miele, nella lingua greca che ci ricorda l’origine dei primi insediamenti lungo la costa jonica della Calabria. Melissa è anche il luogo che ci riporta, con un retrogusto amaro, all’omonimo eccidio dei braccianti, 70 anni fa.

Una giornata triste e melanconica. Come il cielo di Melissa di quel sabato 29 ottobre 1949. Era carico di nuvole, il vento soffiava leggero, gli alberi annunciavano con la loro nudità l’arrivo dell’autunno. I melissoti si apprestavano quella mattina ad occupare le terre incolte in quel lembo del marchesato di Crotone che porta verso l’interno, lungo i contrafforti della Presila. Tutta Melissa si spopolò. Donne, uomini, bambini, insieme partirono. Le donne si divisero i compiti. Alcune portavano i barili dell’acqua, altre le ceste di viveri. Gli uomini erano armati solo degli attrezzi della loro fatica.

PARTIRONO SENZA NEMMENO chiudere l’uscio, non c’era nulla da rubare a Melissa. Discesero sul fondo di Fragalà, di proprietà del barone Berlingeri. A piedi o in groppa alle cavalcature, per lavorare i terreni lasciati incolti da moltissimi anni. Non passò molto tempo. E la polizia era lì davanti a loro. Era il centinaio di celerini arrivati da Bari il giorno prima. Li aveva chiamati il marchese Berlingieri e li aveva alloggiati presso le sue tenute con l’intento di combattere quel che sembrava agli occhi del feudatario un sopruso comunista. I contadini non avevano intenzione di muoversi.

SI UDIRONO TRE SQUILLI di tromba. La polizia avanzò con i fucili, la gran parte della massa scappò impaurita. I graduati ordinarono di sparare. Tre persone caddero nel campo di Fragalà, vigliaccamente colpiti alle spalle. Francesco Nigro cadde per primo a 29 anni, Giovanni Zito ad appena 20 anni ed una giovane donna di 24 anni, Angelina Mauro, ferita gravemente, morirà qualche giorno dopo all’ospedale di Crotone. Diciassette furono i feriti.

I fatti di Melissa ebbero grande risonanza in Italia ed all’estero. La stampa, la cultura e l’arte cominciarono ad occuparsene. In quel lontano ottobre di 70 anni fa, il movimento dei braccianti era tornato a marciare nelle terre del latifondo. I tentativi di riformare l’agricoltura meridionale da parte del ministro comunista calabrese, Fausto Gullo, erano stati svuotati dal suo successore, Antonio Segni, ricco proprietario terriero e futuro presidente della Repubblica.

POCHI GIORNI PRIMA dell’eccidio di Fragalà, una mobilitazione di quindicimila contadini delle province di Cosenza e Catanzaro aveva invaso in corteo i campi abbandonati del latifondo. Interi paesi del Crotonese e della Sila, a piedi e a dorso dei muli, sventolando le bandiere rosse e quelle tricolori, con mogli e figli scesero al piano. Marciavano da Strongoli, da Cutro, da Isola di Capo Rizzuto, da Petilia, Caccuri, San Mauro.

OCCUPARONO LA TERRA, segnarono nuovi confini, la divisero in parti eguali. Iniziarono a preparare la semina. Molti di loro non avevano mai letto un libro. Ma praticavano un sentito bisogno di socialismo.

Gli agrari calabresi erano molto preoccupati. Alcuni tra i più influenti erano parlamentari democristiani. A Roma, in quelle convulse giornate di ottobre, incontrarono Mario

Il quadro di Emilio Notte “La strage di Melissa”

Scelba, ministro dell’Interno. Invocarono la mano dura. Il ministro della polizia non si lasciò pregare. E inviò la famigerata celere nell’agro crotonese. Fu il momento culminante di un’attività repressiva in Calabria e nel mezzogiorno e che rafforzò un processo di presa di coscienza da parte del popolo.

Melissa rappresenta, da allora, il simbolo della volontà di lotta e dell’antica aspirazione alla giustizia delle classi povere del sud. I fatti di Melissa furono guardati con commozione in tutto il mondo. Ernesto Treccani li rievocò nelle sue opere, il teatro militante celebrò i martiri in “Tutti a Fragalà”, il Congresso mondiale della Pace a Roma organizzato dai comunisti a poche ore dalla mattanza ne consegnò una dimensione internazionale.
La violenza della polizia di Scelba fu gratuita ed efferata. L’eccidio scosse l’opinione pubblica. Le versioni ufficiali cercarono di occultare la verità. Il Messaggero e il Corriere della Sera scrissero di «agit prop mascherati da braccianti».

Per la sinistra invece i colpi mortali di Melissa suonarono come un campanello d’allarme per la giovane democrazia italiana. Quel giorno del 1949 un nuovo soggetto politico apparve sulla scena. Su quelle terre che avevano visto il dominio dei Morelli, dei Ruffo, dei Morano, dei Campitelli, dei Pignatelli e dei Berlingieri i braccianti non avevano conquistato la terra, ma sicuramente la loro dignità. Per loro era finito il tempo della coppola in mano.

Nel 1979, nel quarantesimo anniversario, Ernesto Treccani tornò a Melissa (di cui era stato consigliere comunale con Mario Alicata sindaco) e fece omaggio alla cittadinanza del “Monumento ai caduti di Fragalà”. Alla cerimonia partecipò anche il presidente della Camera, Nilde Jotti.

«NON ERANO UNA PLEBAGLIA piena di rabbia e bramosa di sangue ma una forza riformista consapevole di rappresentare la stragrande maggioranza dei lavoratori calabresi e di avere alle spalle un diritto sancito dalla Costituzione – dice Ammendolia – quei contadini chiedevano la riforma agraria ed erano portatori di un progetto di rinascita della Calabria. Furono sconfitti. Chi volle quell’eccidio, non lo fece per mera cattiveria o crudeltà personale, ma perché doveva dimostrare che nel Sud la natura dello Stato non sarebbe cambiata. Che i rapporti di forza sarebbero rimasti identici e che le “forze dell’ordine” avrebbero avuto come compito precipuo quello di difendere un ordine sociale che in Calabria e nel Sud, pur cambiando negli uomini, sembra rimanere sostanzialmente uguale. Per quanto possa sembrare una tesi ardita, è certo che quei braccianti rappresentassero la “Legge” mentre gli uomini in divisa e i loro mandanti erano dei fuorilegge. Le forze comuniste e socialiste avrebbero dovuto investire maggiormente su questa nuova forza ma ben presto li abbandonarono. E i contadini presero la via dell’emigrazione forzata al nord».

Silvio Messinetti

da il manifesto

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