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Gentiloni e Minniti sotto ricatto della Lega, violano il diritto internazionale

Sarà che la sconfitta elettorale brucia, sarà che il caos mediatico regala frutti velenosi quanto repentini, (facendo credere agli italiani che le Ong inseguano lucrosi affari e che la sola via per governare i flussi resta la deterrenza), sarà che l’osceno accordo Ue con la gendarmeria turca ha aperto una strada che più buia è difficile immaginare. Ma con quale base legale il governo Gentiloni pensa di poter discriminare le navi non italiane delle Ong vietando loro l’ingresso nei porti? Se pur si riuscirà, prima o poi, a far credere alla gente che la solidarietà sia diventata un reato, il mancato soccorso in mare resta un crimine abietto quanto inutile

Adesso il governo vuole impedire alle navi delle ONG l’attracco nei porti italiani. La notizia era nell’aria da settimane ed era già al centro delle proposte delle destre xenofobe e degli organi di stampa contigui, dopo la campagna mediatica di attacco alle ONG che soccorrono migranti al largo della Libia. Una campagna avvelenata, lanciata da Frontex e subito ripresa dai principali giornali, dopo le dichiarazioni del procuratore di Catania, che fino ad oggi non ha fatto emergere un solo fatto rilevante come reato.

In Germania si è arrivati al punto di indagare le ONG, prima ancora che intraprendano missioni di socorso nel Mediterraneo centrale. Ovunque si sta tentando di trasformare la solidarietà in reato. Anche con la modifica delle Direttive europee.

Sembra che il governo italiano abbia comunicato ufficialmente all’Unione Europea l’intenzione di “chiudere” i porti italiani alle navi delle Organizzazioni umanitarie che fino ad oggi, sotto il coordinamento della Guardia Costiera e su direttive impartite dal Ministero dell’interno, hanno sbarcato i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo centrale nel “porto sicuro più vicino”, dunque in un porto italiano, come prescritto dalle Convenzioni internazionali e come richiesto da un sia pur minimo senso d’umanità. Ma dopo i risultati elettorali qualcuno pensa di recuperare consenso anche a costo di violare il diritto internazionale.

Secondo quanto riportato oggi dal quotidiano “La Repubblica”, “il governo starebbe valutando la possibilità di negare l’approdo nei porti italiani alle navi che effettuano salvataggi dei migranti davanti alla Libia ma battono bandiera diversa da quella del nostro Paese.

Secondo il governo italiano è ormai “insostenibile che tutte le imbarcazioni che operano nel Mediterraneo centrale portino le persone soccorse in Italia”. Neppure una parola sul ritiro delle navi europee e sull’inesistenza di canali legali di ingresso in Europa. Neppure una parola sulla sorte della missione Eunavfor Med che pure dovrebbe essere ancora operativa. O sulla riduzione delle navi impegnate nelle missioni dell’Agenzia europea Frontex.

Secondo quanto riferito dalla stampa, il governo italiano avrebbe dato mandato al rappresentante presso la Ue, l’ambasciatore Maurizio Massari, di porre formalmente al commissario per le migrazioni Dimitris Avramopoulos il tema degli sbarchi di migranti provenienti dalla Libia e soccorsi dalle navi umanitarie. Nel messaggio consegnato dall’Italia alla Commissione si ribadisce come la situazione che sta affrontando l’Italia sia grave, e che l’Europa “non può voltarsi dall’altra parte”. Massari, nel suo incontro con Avramopoulos ha evidenziato “che la situazione è ai limiti della capacità di gestione, con un impatto sulla vita socio-politica del Paese. Per questo potrebbe essere difficile permettere nuovi sbarchi”. Un linguaggio cinico e vagamente intimidatorio.

Secondo il governo italiano, sarebbe insostenibile che tutte le navi che fanno operazioni di ricerca e salvataggio approdino in porti italiani. Si starebbe dunque valutando la possibilità di negare l’approdo alle navi umanitarie che effettuano salvataggi dei migranti davanti alla Libia ma battono bandiera diversa da quella del nostro Paese. Una discriminazione che non potrà trovare alcuna base legale.

Come riferisce “La Repubblica”, L’eventuale blocco degli sbarchi di migranti riguarderebbe solo le navi gestite dalle Organizzazioni non governative. Durante l’incontro con il commissario Avramopoulos, l’ambasciatore italiano non avrebbe annunciato alcuna modifica delle operazioni Ue nel Mediterraneo centrale, che prevedono lo sbarco di migranti nei porti italiani da parte delle navi dei Paesi europei partecipanti. Per cambiare il mandato e le modalità operative delle operazioni Triton e Sophia servirebbe un accordo “all’unanimità”, ricorda una fonte comunitaria.
I servizi giuridici della Commissione sono al lavoro per valutare le implicazioni giuridiche della decisione italiana. Secondo una prima analisi, sarebbe possibile per le navi che battono bandiera di un altro Paese e che operano fuori dall’area di ricerca e soccorso (Serach and rescue o Sar, ndr) italiana”.

Quanto proposto dal governo italiano, oltre a risultare gravemente discriminatorio contro le ONG, si pone contro le Convenzioni internazionali di diritto del mare e trascende di certo le competenze dell’Unione Europea, fissate dai Trattati. Le autorità di Bruxelles non possono avallare misure discriminatorie od omissioni degli obblighi di soccorso ed accoglienza in un porto sicuro a carico dei singoli stati. Il paese responsabile della zona SAR, e questo vale anche per la zona SAR di Malta e Libia per le quali le autorità SAR italiane coordinano i soccorsi, non può negare sollecito sbarco in un place of safety (porto sicuro) alle persone soccorse in mare, indipendentemente dal fatto che queste poi presentino o meno una richiesta di protezione internazionale. Se questo obbligo fosse violato potrebbe configurarsi anche una responsabilità penale delle autorità italiane che impediscano il rispetto delle Convenzioni internazionali di Montego Bay (UNCLOS) del 1982, di Amburgo ( SAR ) del 1970 e SOLAS del 1974.

The 1979 INTERNATIONAL CONVENTION ON MARITIME SEARCH AND RESCUE (SAR CONVENTION) obliges State Parties to ‘… ensure that assistance [is] provided to any person in distress at sea … regardless of the nationality or status of such a person or the circumstances in which that person is found’ (Chapter 2.1.10) and to ‘… provide for their initial medical or other needs, and deliver them to a place of safety’ (Chapter 1.3.2).

L’I.M.O. (International Marittime Organissation) nel maggio 2004 ha adottato due emendamenti alla Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS) ed a quella di Amburgo (SAR): emendamenti entrati in vigore il 1.7.2006 con lo scopo di integrare l’obbligo del comandante di prestare assistenza con un corrispondente obbligo degli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto la disponibilità di un luogo di sicurezza (place of safety) inteso come luogo in cui le operazioni di soccorso si intendono concluse e la sicurezza dei sopravvissuti garantita. In questo senso la più recente dichiarazione di Medici senza frontiere (MSF) che richiama il governo italiano al rispetto delle convenzioni internazionali.

L’art. 10 della Costituzione italiana e le norme del diritto dell’Unione Europea in materia di protezione internazionale impediscono ad un singolo paese di vietare l’ingresso nel proprio territorio di una persona che vuole chiedere protezione internazionale. Già nel 2004 il governo italiano aveva tentato di trasferire sul paese di bandiera della nave soccorritrice la responsabilità dello sbarco e dell’esame delle domande di protezione, ma il tentativo fallì immediatamente, mentre ci vollero cinque anni per chiudere il procedimento penale che era stato aperto a carico del comandante della nave e del responsabile della missione. Tutti assolti. Una sentenza che pesa come un macigno sui tentativi di criminalizzare  ancora una volta chi fa soccorso in mare senza scopo di lucro.

Non si vede poi come si potrebbe negare di fare richiesta di protezione internazionale alle persone che si trovano a bordo di una nave che ha effettuato un intervento di soccorso sotto il coordinamento delle autorità marittime italiane. Sono le autorità che coordinano le operazioni di Search and Rescue che devono individuare e garantire un luogo di sbarco, il porto sicuro più vicino. Il diritto all’ingresso al territorio dello stato per chiedere protezione internazionale dopo lo sbarco successivo ad un soccorso in mare  è ribadito anche dalla Corte di Cassazione ( Ordinanza 10 maggio 2017, n. 11468), secondo la quale” Il dovere delle autorita’ nazionali di fornire informazioni ai cittadini stranieri ed agli apolidi in ingresso nel territorio nazionale che desiderino presentare domanda per il riconoscimento della protezione internazionale (gia’ riconosciuto da questa Corte, anteriormente al recepimento della Direttiva CE 26 giugno 2013 n. 32, in via interpretativa: Cass., ord. nn. 5926/015, 25767/016) e’ infatti attualmente sancito dal Decreto Legislativo n. 145 del 2015, articolo 1, comma 2 e articolo 3, di attuazione della predetta direttiva, gia’ entrato in vigore alla data dell’ingresso di (OMISSIS) in Italia. Ne consegue che il ricorrente, che aveva immediatamente manifestato la sua volonta’ di presentare la domanda, avrebbe dovuto ricevere le predette informazioni gia’ al momento del suo sbarco ed avrebbe dovuto essere indirizzato presso un centro di accoglienza.

Con quale base legale si potrebbero discriminare le navi delle ONG alle quali sarebbe vietato l’ingresso nei porti italiani, rispetto alle navi dele missioni di polizia europee, pure impegnate in attività di Search and rescue? E’ qui che la proposta del governo italiano svela il suo vero volto e dimostra di essere solo un contentino post sconfitta elettorale per quelle che forze che con maggiore virulenza hanno infangato le attività di soccorso umanitario al largo della costa libica. Intanto Frontex continua ad ammannire dati truccati affermando che cinque navi dell’operazione TRITON continuano ad operare interventi di ricerca e salvataggio, ma conteggiando tra queste cinque navi, due navi italiane e una nave maltese che riceverebbero finanziamenti dall’Agenzia per rientrare nella missione europea.

Certamente la situazione del nostro sistema di accoglienza, incentrato sui CAS (centri di accoglienza straordinaria) appare ormai insostenibile, ma questo non deriva dal numero dei migranti che vengono accolti ma da due fattori concorrenti che si vogliono nascondere all’opinione pubblica.

Innanzitutto sono state bloccate le relocation”, i trasferimenti dall’Italia verso altri paesi europei di 40.000 richiedenti asilo, misura decisa dal Consiglio Europeo nel 2015, che se oggi avesse avuto piena applicazione avrebbe permesso di decongestionare il sistema di accoglienza italiano.

Sono state bloccate le frontiere dei paesi europei confinati con l’Italia, dalla Francia alla Svizzera, alla Germania, all’Austria ed alla Slovenia. Ormai anche i minori non accompagnati non hanno speranze di transitare come avveniva fino al 2015, ed a questo dato vanno aggiunte le migliaia di riammissioni verso l’Italia attuate in applicazione del Regolamento Dublino, dopo che l’Italia ha portato al 99 per cento la quota di immigrati ai quali si prelevano le impronte dopo lo sbarco al fine di un loro inserimento nel sistema EURODAC.

In sostanza l’Italia, ed il suo governo, sono cascati nella trappola predisposta dall’Unione Europea, che come ha già fatto con la Grecia sul piano finanziario prima, e dei migranti dopo, ha imposto politiche repressive senza dare in cambio quanto aveva promesso.

E’ perfettamente legittimo che adesso l’Italia protesti con le autorità Europee, a partire dal Commissario Avramopoulos, per essere stata lasciata sola ad affrontare questa ennesima emergenza sbarchi dalla Libia, una emergenza ampiamente prevedibile già alcuni mesi fa. Ma l’Italia si è dichiarata soddisfatta dopo l’ennesimo Consiglio Europeo che ha insitito solo sula liena della deterrenza senza programmare alcun aiuto concreto con i paesi più esposti come Grecia ed Italia.

Costituisce dunque una proposta irricevibile e, probabilmente, solo occasione di un disperato tentativo di recupero elettorale, l’ipotesi ventilata dal governo italiano di chiudere i porti di attracco alle navi delle ONG straniere che continuano malgrado tutto a fare soccorsi belle acque internazionali a nord della Libia. Una zona di ricerca e salvataggio (SAR) che nelle ultime settimane è stata lasciata deserta anche dalle motovedette che l’Italia ha regalato al governo di Tripoli, se non per ragioni puramente tecniche, come difetti di manutenzione, probabilmente per ragioni politiche, per la situazione incerta di un governo che non controlla per intero tutta la capitale ed il suo aeroporto. Non sembra proprio che l’invio di militari europei in Libia possa rallentare le partenze di migranti verso l’Italia. Si sta assistendo al fallimento completo delle politiche europee sulla Libia. Le prime conseguenze si scaricheranno proprio sull’Italia, che si è illusa di svolgere un ruolo di mediazione che sta dando risultati assai deludenti.

Piuttosto che scaricare l’insuccesso elettorale sull’ennesimo attacco contro i migranti e le navi delle ONG che li soccorrono, sarebbe meglio che il governo italiano denunci con forza, che finora non ha dimostrato, il ritiro delle navi delle missioni TRITON di Frontex e dell’Operazione EUNAVFOR MED, che lo scorso anno operavano una quota importante dei soccorsi.

Occorre imporre all’Unione Europea una grande missione di soccorso umanitario nelle acque internazionali a nord della costa libica, impiegando a questo scopo le navi già utilizzate nelle missioni di Frontex e di Eunavfor MED, oltre quindici grosse unità, ed oggi ritirate dove non vi sono più migranti da salvare. In collegamento a questa missione si può ipotizzare lo sbarco in Italia ed il trasferimento imemdiato verso altri paesi europei, con il rilascio di un visto per motivi umanitari, a tutti coloro che fuggono dalla Libia, salvo l’esistenza di precedenti penali o casi di appartenenza ad organizzazioni terroristiche. Che però ancora sono stati verificati in pochissimi casi singoli. Già nel 2011, nel corso dell’emergenza nord-africa seguita alle cd. primavere arabe, l’Italia aveva offerto la possibilità di accedere ad un permesso di soggiorno per motivi umanitari senza ricorrere al procedimento ordinario presso le Commissioni territoriali. In ogni caso le decisioni delle Commissioni territoriali dovrebbero tenere conto delle condizioni soggettive dei richiedenti e della situazione oggettiva di abusi e violenze presente in Libia, anche per evitare la crescita esponenziale di un contenzioso che, nela maggior parte dei casi, si conclude a favore dei ricorrenti.

Occorrerebbe poi bloccare tutte le procedure di riammissione verso l’Italia da parte di altri paesi europei in base al Regolamento Dublino, che si sta cercando di modificare in modo ancora più penalizzante per i paesi più esposti come Grecia ed Italia. Se i paesi dell’Unione Europea non rispettano gli impegni assunti per la relocation non si vede perché l’Italia dovrebbe dare seguito alle richieste di riammissione in base al Regolamento Dublino.

Le lacune sistemiche del nostro sistema di accoglienza vanno eliminate al più presto, a partire dalla chiusura dei mega Cara di Mineo e Crotone, anche prima che le inchieste giudiziarie che li stanno riguardando arrivino ad una sentenza definitiva. Va incentivato il sistema di accoglienza diffusa che sempre più spesso sindaci di diverso colore e popolazioni sempre più rancorose ostacolano con tutti i mezzi, anche a costo di violare la legge ed i precetti costituzionali. Senza un sistema di accoglienza finalmente efficiente e depurato dai condizionamenti politici ed affaristici non si potrà avanzare alcuna richiesta di solidarietà a livello europeo.

Va attivato un effettivo sistema di controllo che non abbia di mira soltanto i migranti, ospiti in strutture che li costringono a sopravvivere in condizioni indegne e bersaglio di provvedimenti prefettizi quando protestano, ma i gestori e le autorità locali che ritardano i pagamenti, omettono sistematicamente i controlli, si dimostrano incapaci di gestire emergenze largamente prevedibili.

Per svuotare i centri di accoglienza va riconosciuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari a tutti coloro che provengono dalla Libia, paese che trasforma i migranti economici in migranti forzati, per la condizione obiettiva di abusi e sevizie ai quali tutti sono sottoposti, compresi quelli riportati indietro dalla Guardia costiera libica ( di Tripoli) che l’Italia e l’Unione Europea vorrebbero continuare a finanziare. Eppure, basterebbe davvero poco per scoprire come stanno davvero le cose in Libia, esattamente come confermato nei rapporti di Amnesty International, di MSF e di Human Rights Watch. Chi credeva che restituendo qualche motovedetta al governo di Tripoli, Serraj sarebbe riuscito a bloccare le partenze è stato smentito, e dopo questa ennesima disfatta diplomatica l’ambasciatore italiano a Tripoli è stato dichiarato persona non gradita da parte del governo di Tobruk. Chi pensava di potere pacificare la Libia e bloccare le partenze dei migranti rafforzando la marina che risponde al governo di Tripoli ha fallito il suo progetto. Un quadro militare e politico che si aggrava giorno dopo giorno.

Occorrerebbe soprattutto prendere atto che la politica della deterrenza ha fallito e che i tentativi di scaricabarile tra i diversi paesi europei, sempre più assillati dalle scadenze elettorali e da una ondata di populismo senza precedenti, non risolvono ma aggravano i problemi.

Di certo l’Unione Europea non ha alcun potere di intervenire per autorizzare l’Italia, o legittimare qualsiasi autorità di questo paese, a bloccare l’ingresso in porto delle navi umanitarie, e solo a loro, cariche di migranti soccorsi in acque internazionali al largo della Libia. Persone che sono già sottoposte a trattamenti inumani e degradanti quando sono obbligate a restare quattro e più giorni a bordo di navi cariche fino all’inverosimile per rispettare gli obblighi di sbarco verso porti sempre più lontani, come sta sucecdendo in questi giorni, con sbarchi a Salerno, Napoli e nei porti pugliesi. Un ennesimo tentativo per mettere in difficoltà gli operatori umanitari e per lasciare senza presidio le acque a nord della Libia. Forse in attesa di una ennesima strage, alla quale affidare magari una valenza deterrente.

Sarebbe tempo finalmente che i governi accogliessero le richieste delle ONG e degli operatori umanitari, piuttosto che considerarli alla stregua di nemici da eliminare.

Fulvio Vassallo PaleologoClinica legale per i diritti umani dell’Università di Palermo

Fonte:  Associazione diritti e frontiere

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